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The Fabelmans- il domatore dei ricordi
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo racconto-recensione su "The Fabelmans" firmato da Andrea Frau, che ringraziamo.



The Fabelmans è il film che Steven Spielberg ha sempre sognato di fare. La storia è molto semplice, racconta la nascita della sua passione per il cinema, il dolce e travagliato rapporto con i genitori e il terribile tempo del college. È un racconto molto intimo e sentito, il miglior Spielberg dopo più di quindici anni. I cultori di Spielberg sanno come molti suoi film siano disseminati di indizi autobiografici, come fossili e rimembranze, frammenti di passato e inconscio centellinati, messaggi subliminali in uno spot, come in una terapia a singhiozzo, lunga più di quarant'anni. E se questo tipo di cinema è autoterapia, noi spettatori ne siamo voyeur, sbirciamo nel confessionale buio, assistiamo ai suoi ricordi falsati per esigenze narrative proprio come facciamo noi, con le storie che ci raccontiamo ogni giorno.

Perché il regista condivide con noi i suoi ricordi? Per il solito motivo: perché ciò che forma un artista e una persona è il suo passato e condividerlo è un istinto di comunione, di ricerca di empatia e riconoscimento. Vedere il vicino di poltrona, lo stesso che ti ha rubato il parcheggio e mastica rumorosamente, commuoversi durante la visione, ti ricorda che per quanto molesti e repellenti siano i nostri simili non sono poi così diversi da noi, siamo tutti sulla stessa traballante barca di carta. Sì, perché il cinema, come l'uomo, è fatto della stessa materia di cui son fatti i traumi, più che i sogni. L'orizzonte per Spielberg è il suo ombelico ma è lì che trova tutto l'universo.

L'innesco, l'architrave dell'intera narrazione e del carattere di Sam, è la scoperta del tradimento della madre.

L'evento è un big bang emozionale che forgia l'universo interiore del ragazzo. La sua innocenza deflagra e si estingue, l'età del disincanto coincide con la scoperta del mezzo creatore dell'incanto per eccellenza: la cinepresa. Il tacco della scarpa materna perfora il suo cuore. L'avvertimento dello zio, domatore di leoni, quindi si concretizza: la sua passione per il cinema si rivela inconciliabile con la sua famiglia e lo squarcia in due.

Sam porta questo fardello per un po', non rivela ciò che ha scoperto, cova rancore contro la madre finché non la metterà di fronte alle sue colpe. La violenza dell'immagine e del cinema si compie. La madre, come una spettatrice solitaria, dentro uno stanzino buio, camera oscura dei propri tormenti, assiste alla sua colpa. La condannata senza appello assiste al suo tradimento all'infinito come nell'inferno dantesco, come in un torture-porn. Le nostre pulsioni ci condannano, siamo vittime e carnefici di noi stessi. La madre vede la sua fragile figura, il suo matrimonio, l'amore di suo figlio, schiantarsi contro l'enorme treno della sua colpa. E se Sam aveva superato la paura proprio grazie alla messa in scena del suo incubo, la madre ne è devastata. La realtà filmata è sempre più spietata e violenta, non c'è spazio per l'edulcorazione.

Il padre- proprio come un produttore chiede un'opera melensa e propagandista all'artista- commissiona al ragazzo un filmino del campeggio, immagini felici per tirar su la madre.  La donna, dopo la visione del film, depurato dalla colpa- ciò che il pubblico vuole- dice al figlio tu riesci a vedermi davvero. E quella è una coltellata. È il modo in cui noi vorremo esser visti da chi ci ama, senza le nostre ombre, come in un classico film di Spielberg. Come nelle più confortevoli e fatate menzogne. Ma da adolescente arrabbiato Sam è manicheo, non vede più la madre che lo ama, un essere buono per antonomasia, ma la traditrice che nasconde un orribile segreto. Pensa di vedere finalmente quel liquido amniotico per ciò che è, solo fango, e lui ci sta affogando. In quel momento è schifato dalla menzogna del cinema.

Spielberg, mettendo in scena il suo passato, si riappacifica con se stesso e la sua famiglia. Proprio come fece da piccolo quando per superare la paura dello schianto del treno, rimise in scena lo scontro. Dietro la macchina da presa non solo hai il controllo della situazione ma vedi la situazione in modo più distaccato e obiettivo. La madre, al contrario, dalle immagini viene solo torturata. Sarà il figlio a consolarla, abbracciarla in lacrime, giurarle di mantenere il segreto, spegnere con le sue lacrime il rogo su cui l'aveva gettata. Sam scopre sempre di più le potenzialità e la potenza del cinema. E forse ne rimane spaventato. Imputa al mezzo e alla sua passione la fine dell'idillio famigliare.

Per questo accantona la cinepresa, la sua passione viene messa a tacere e nascosta sotto al letto. L'aspirante regista intuisce le infinite possibilità di falsificazione e di svelamento del cinema, di mistificazione o creazione di falsi miti, la capacità di consolare, evadere e terrorizzare. Ma anche di metabolizzare, relativizzare e affrontare le piccole e grandi tragedie personali. Quando immagina di riprendere l'ultimo e definitivo redde rationem dei genitori, la sua telecamera è scudo e armatura. Un modo per vivere la realtà senza esserne investiti, come in uno snuff delle emozioni. Il Cannibal Holocaust della famiglia. Ripensate a un vostro dramma personale. Se aveste avuto una telecamera tra voi e il dramma come vi sareste sentiti? Superficialmente si può pensare alla morbosità, al voyeurismo, alla mancanza di pudore. Ma quando Sam si immagina di riprendere quella lite ne attenua il carico emotivo per sè. E se la rivedrà, cosa noterà? Altre sfumature, eventi nello sfondo più importanti di quel che si credeva, altri punti di vista, incongruenze? Una visione mediata è meno passiva, è evasione, fuga e illusione di poterla controllare e di restarne immuni. Come i documentaristi che vanno incontro al tifone. Come il regista di Nope che muore andando incontro al mostro. Fondersi con l'immagine in un cupio dissolvi. Squarciare il velo ed entrare nel Videodrome. Perdersi nel sogno e arruolarsi nella legione dei fantasmi. Si perde l'immediatezza del sentimento umano, quello più puro e istintivo, ma se ne guadagna in comprensione. Ma siamo sicuri che sia meglio sentire che comprendere, almeno nell'immediato? Questo è ciò che differenzia chi dirige e chi interpreta dei ruoli. Dirigere è una truffa, un'illusione di controllo, siamo sempre eterodiretti inconsciamente dai nostri pregiudizi e dalle nostre idiosincrasie. Un regista maturo ne è consapevole.

Ma veniamo a uno dei momenti più affascinanti del film.

La scuola commissiona al giovane Sam un video da proiettare al ballo del diploma. Per tutto l'anno scolastico il ragazzo è stato vittima delle angherie antisemite dei bulli. Ora finalmente ha il potere, potrebbe vendicarsi e farli apparire come stupidi prevaricatori quali sono. Invece no. Sam, quasi controvoglia, come guidato da un'entità superiore, che neanche lui riesce bene a spiegarsi, realizza quello che il pubblico vuole. Il ragazzo che lo aveva vessato, idolo della scuola, modello di vincente WASP, viene ritratto come eroe e mitizzato. Il regista, a malincuore, sa cosa vuole il suo pubblico e glielo dà. Il protagonista senza macchia e senza paura è servito. Così facendo, condanna il mito, lo imprigiona in una gabbia di stereotipi e di aspettative, e la sua vendetta- eterogenesi dei fini- è servita. L'alter-ego di Spielberg si trasforma in Leni Riefenstahl alle Olimpiadi di Berlino. Ma è pur sempre Spielberg, perciò nessun Jesse Owens all'orizzonte. Il fimato di propaganda è talmente fasullo che sembra quasi una parodia se vista da chi ha un briciolo di coscienza e di senso di colpa. La scena è quasi grottesca, sembra Brian di Nazareth che rifiuta la sua missione. Sam invidia l'eroe WASP. C'è il disperato bisogno di essere accettati, anche da chi ci odia. In questo ho rivisto alcuni happy end tipici dei film più commerciali di Spielberg. L'America perfetta e giusta, che lui per primo, sa non esistere. L'America ritratta, venduta e propagandata come patria delle opportunità, nazione dei giusti, ingabbiata in un ruolo che essa stessa si è cucita addosso col cinema e la TV di esportazione. Il pubblico ignora e non può accettare il travaglio interiore, il senso di colpa, le nevrosi del vincente in apparenza perfetto. Spielberg vuole essere accettato da chi lo disprezza, vuol essere riconosciuto e abbracciato dal pubblico, il paradosso di tutti gli artisti: essere consci della grettezza di molti ma aspirare all'amore di tutti, perfino di chi si odia. Aspirare all'integrazione a qualunque costo- anche se ciò significa abiura e rinuncia di sé- è il sogno di ogni emarginato.  Sam-Spielberg  spesso ha rappresentato in modo favolistico, assolutorio e rassicurante le peggiori ingiustizie per risolverle in modo falso ed ecumenico. La satira spietata, la denuncia non è la sua cifra stilistica. Rappresentare il mondo come lo si vorrebbe è il suo modo di esprimere giudizi. Coi suoi film spesso fornisce modelli di comportamenti. E se tu ritrai il peggiore aguzzino come eroe e lo obblighi a rivedersi così fino alla fine lo sevizi. Come la madre nello stanzino. Rivedersi è una tortura. Sei di fronte al grande inganno della vita. Difficile tornare alla routine dopo esser passati dall'altra parte dello specchio. Un essere umano non sarà mai all'altezza delle aspettative.

Invece lo psicolabile antisemita viene messo alla berlina perché individuato dall'astuto regista come anello debole del branco. Il più violento e stupido, l'estremista usato dal potere per farsi due risate o per sbrigare il lavoro sporco, la manovalanza usata a proprio uso e consumo. E allora sì, il regista carnefice una piccola vendetta se la toglie ridicolizzando il bullo più debole ed esposto. La furbizia di Spielberg sta anche in questo. Voler esser accettato dal più forte e dalla maggioranza e cercare il nemico comune, l'estremista violento che mette in pratica ciò che la maggioranza silenziosa pensa ma non realizza per questione di etichetta e galateo più che per questioni ideologiche. E allora questo è cinema di Spielberg, è la sua ideologia, un cinema meraviglioso ma pur sempre borghese da maggioranza silenziosa e gente perbene. Non è cinema per gli ultimi, ma di massa, quella che vuole integrarsi e realizzarsi, prendendo gli antagonisti come modelli di successo. Si tratta di un cinema egoista e magnifico, compiutamente e orgogliosamente americano, mainstream. Ma cosa diavolo aveva in testa il bullo, quello più violento e grezzo? In che contesto famigliare viveva? Al nostro non interessa e neanche alla maggioranza di noi. Questo è cinema che non si mette nei panni del mostro, che non esplora l'abisso della pische umana, ma è cinema delle rimembranze, delle nostalgie, è autocelebrazione fantastica, una bellissima agiografia. Un film stupendo, non sociologia.

E il razzista orribile e schifoso lo ha smascherato, lo vede davvero- tra emarginati ci si riconosce- cerca di spiegarlo all'idolo ariano della scuola, di fargli aprire gli occhi sul fatto che il subdolo giudeo lo stia intortando, lo stia plagiando (ah, la forza del cinema!), lo sospetta anche lui ma gli è stato utile (per riconquistare la ragazza e glorificare, celebrare e consacrare la sua immagine ai posteri). D'altronde ogni dittatore ha bisogno di qualcuno che ne celebri le gesta. Il cinema è propaganda sempre. Il giovane Sam ha tolto la spina dal leone ferito per mero interesse (forse), ma soprattutto per devozione al cinema. Perché ogni drammaturgia e ogni società ha bisogno di un eroe, di condannare un ragazzo a questo fardello e di questa missione.  Sam fa un discorso pratico ed economico, ecologico: vedi, ti conviene scaricare le parti più incontrollabili, folli e violente della società, loro sono white trash, sono i veri rifiuti, gentucola da scaricare che rallenta il progresso. Lui non ti serve, io sì. Io ti farò riconquistare la ragazza e far amare ancora di più. E infatti l'idolo mette le cose in chiaro con il violento: non sono tuo amico, non sono tuo simile, specie ora che sta finendo la scuola e io sono proiettato verso il successo, che sarà solo pallida imitazione di quello che ho ora. Non torneranno più questi anni, è la condanna di tutti i vincenti del college, una vita mediocre e squallida fatta di ricordi appassiti. Il regista in erba dimostra di conoscere e aver accettato le regole del gioco: sintesi tra le due anime dei genitori, quella pragmatica del padre e quella artistica della madre. Imprenditore e artista. Sognatore e ingegnere. Spielberg è tutto questo. Come il miglior cinema americano, ne incarna qualità e ipocrisie. E per questo è il cinema più vicino alla vita. Il cinema che imita la vita e la plasma allo stesso tempo.

Spielberg realizza un vero e proprio atto d'amore verso i genitori. Amore, pietas e comprensione. Li ama accettandone le umane fragilità. Crescere significa anche pensare ai propri genitori non più come infallibili. Il padre, un uomo innamorato e tradito, si arrende alle passioni altrui. Accetta, perché non può fare altrimenti, la passione del figlio per il cinema, quella della moglie per Benny. Non capisce come si possa esser schiavi di cose così immateriali come l'amore e l'arte ma alza le mani, si arrende a ciò che non può capire. D'altronde, anche lui, un uomo così pragmatico e pratico, ama incondizionatamente così tanto il suo lavoro, l'informatica, l'algebra, la tecnica. Si nasconde dietro al fatto che queste cose servano, siano utili, facciano andare avanti il mondo, ma non è forse anch'essa passione, e delle più intense? Il padre capisce l'utilità dell'arte, chiede a Sam un filmino per tirare su la moglie dopo la scomparsa della madre. E quindi riconosce una funzione all'arte, almeno quella consolatoria. Paradossalmente proprio questo atto d'amore sarà la causa della scoperta del tradimento. Perché anche da registi (Sam) e da produttori (il padre), la realtà sfugge al nostro controllo. Le cose succedono e basta, anche sotto ai nostri occhi, senza che ce ne accorgiamo e l'unica cosa che possiamo fare è rimuoverle dal campo, eliminarle dal montaggio e continuare a sorridere. Esattamente il modo in cui funziona la nostra memoria.

Dev'esser stato davvero terapeutico e catartico per Spielberg raccontare questa storia. Ripensare alla sua rabbia, al suo odio adolescenziale contro la madre, e in seguito con maturità capirne le ragioni, le motivazioni, mettersi nei suoi panni, riflettere in modo meno coinvolto, grazie alla distanza degli anni.

L'arte, per citare lo zio, non è mettere la testa dentro il leone, ma fingere di non aver paura. E allora l'arte non è ricordare il proprio passato ma trarne un'opera in cui tutti si possano riconoscere, venire a patti con le proprie paure irrisolte, fingere di non esserne più spaventati e magari farci un film. Domare i propri ricordi, conviverci e magari imbastirci su anche uno spettacolino edificante, o di pura evasione.

Dopo aver visto questo film ci si sente più scemi e ingenui. Si torna a casa convinti che anche i più crudeli, i più disincantati e cinici  di noi abbiano una scimmia a casa e che l'abbiano chiamata FANTASIA. Ne sentono la mancanza, ci giocano di tanto in tanto per farsi due risate e prima o poi torneranno da lei. Sempre che non la pieghino a scopi poco nobili. E lì la scimmia come in Nope potrebbe ribellarsi e punirli.

Se Spielberg avesse fatto questo film a trent'anni sicuramente la madre non sarebbe stata raccontata con tanto amore e tanta comprensione. Questo è un film non sul perdono ma sulla comprensione.  Sam arriverà ad amare i suoi genitori, non rimuovendo i loro errori, ma consapevole delle loro umane fragilità. Questo è un film che può fare solo chi ha raggiunto una grande maturità, chi ha risolto tutti i propri traumi o chi è bravo a mentire.

Un artista fruga dentro le proprie miserie, per citare Guccini, ma non è sciacallaggio del proprio passato, non stai rubando le scarpe ai morti, stai attingendo dalla memoria per omaggiare chi ti ha voluto bene. Così facendo fai i conti con le tue emozioni anche le più recondite, è un carotaggio dei tuoi sentimenti nell'età in cui si forma la tua personalità, conti i cerchi concentrici  di tutte le lacrime che hai versato come gli anelli degli alberi per studiare il dolore e l'amore senza età. Con quest'operazione capisci molto di te e parli all'intera umanità. Allestendo un museo famigliare come questo fai un'opera non privata ma universale, su tutte le famiglie del mondo.

Spielberg sembra eliminare dal finale i dubbi come censurò nel video le effusioni della madre con Benny. Ma la vita non è un film, come gli ricorda minaccioso l'idolo ariano della scuola. Non si scappa, ha ragione lo zio, siamo tutti dilaniati e divisi in due, in noi c'è uno scontro tra due forze: l'egoismo e l'amore per gli altri. L'arte tende a essere una sintesi tra queste due forze ma è una tensione mai risolta. Come un arco che si tende all'infinito. Proprio per questo motivo si continua imperterriti a raccontare storie. Il sunto perfetto è quell'immagine del padre che sorride beato e inconsapevole, con la madre che si sforza di sorridere, ma con un'ombra di malinconia che le segna il viso.


Andrea Frau
Maximal Interjector
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