Toc toc! C’è nessuno? Nessuno!
26/04/2020
Il film Toc Toc di Vicente Villanueva (disponibile su Netflix) è una commedia intelligente e godibile. Vorrei provare ad approfondire alcuni aspetti che ritengo ricchi di spunti di riflessione. Partirei da due immagini: una divertente e l’altra onirica.
La prima è la scena in cui la segretaria dello studio, Tiffany, ride con gusto guardando il video di un gattino che sbatte continuamente contro uno specchio perché ovviamente non riconosce che dall’altra parte non c’è un altro gatto, bensì la sua propria immagine. La seconda è quella in cui Blanca, tecnico di laboratorio affetta da misofobia, si agita sinuosamente dietro una tenda bianca.
Propongo di immaginare la prima scena come la metafora di tutti i personaggi del film, che si ritrovano nella sala d’attesa dello studio del dottor Palomero, psicoanalista: ognuno di loro è affetto da una forma diversa di doc (disturbo ossessivo compulsivo). Essi presentano manie, comportamenti che non riescono a controllare; potremmo dire che sono posseduti da tic che trascendono la loro volontà, e infatti nessuno di loro riesce a riconoscersi, come dimostra il momento del film in cui la stessa Blanca ammette: “C’è una Blanca dentro di me che non riesco a controllare”. L’immagine del gatto allo specchio e il continuo sbattere contro di esso, se ci pensiamo bene, è l’impossibilità di toccare qualcosa che non può essere raggiunta o anzi fa paura o che tarda ad arrivare, proprio come il dottor Palomero, il quale non si presenta alla seduta preferendo far interagire fra loro i “pazienti”. Il comportamento del gatto, guardato dal di fuori, è motivo di derisione per la sua illogicità. D’altronde il Dottor Palomero (alias Federico) non ama la terapia di gruppo perché ha timore che qualcuno possa prendersi gioco di lui, possa essere oggetto di derisione.
Il secondo fotogramma credo sia il momento più onirico del film e allo stesso tempo più tragico, soprattutto se pensiamo al tempo di “prigionia” che stiamo vivendo. Il doc tiene prigioniero della mente, costringe Blanca, per esempio, a movimenti serrati nello spazio angusto tra una tenda – a noi spettatori che guardiamo dall’esterno sembra di cogliere un’immagine sfocata che si muove come una marionetta - e l’apertura di una finestra che non si trova… Come un’uscita dall’incubo (o dal sogno?) che non si trova nel labirinto della mente? Posseduti da qualcosa da cui solo un “esorcismo” potrà liberarci?
Dimenticarci di noi stessi anche solo per un secondo, per una sola seduta – il dottor Palomero non visita mai due volte - può metterci in contatto con gli altri? Dimenticarci di noi, mettere da parte per un momento il nostro io può creare una relazione? Come in quel quadro appeso al muro in cui vediamo una scala, che conduce ad un riquadro (una finestra?) in una testa tratteggiata di profilo. Ma la scala ci serve per entrare o per uscire dalla nostra mente, dal nostro io? Come l’illusione che crea il Dottor Palomero: far credere a suoi pazienti che l’appuntamento era per una seduta personale e che a causa di un errore del
computer diverse persone si ritrovano nello studio contemporaneamente. Ciascuno si rende conto di non essere il solo a vivere una condizione di solitudine, di malattia, eppure inizialmente è insofferente nei confronti dell’altro. Ma se chi lo vive sulla propria pelle non è il primo a tollerare il “difetto” dell’altro, come potrà farlo la gente “normale”? Non siamo pesci muti in una vasca, ma esseri parlanti, anzi costretti irrimediabilmente a parlare, con la voce, col corpo, coi gesti… Costretti, alle volte, a dire anche quello che non vorremmo dire o fare… Un po’ maniaci, un po’ matti, un po’ squilibrati, un po’ automi, ma in fondo “esseri” (o divenienti?) umani…
Massimo Guastella
La prima è la scena in cui la segretaria dello studio, Tiffany, ride con gusto guardando il video di un gattino che sbatte continuamente contro uno specchio perché ovviamente non riconosce che dall’altra parte non c’è un altro gatto, bensì la sua propria immagine. La seconda è quella in cui Blanca, tecnico di laboratorio affetta da misofobia, si agita sinuosamente dietro una tenda bianca.
Propongo di immaginare la prima scena come la metafora di tutti i personaggi del film, che si ritrovano nella sala d’attesa dello studio del dottor Palomero, psicoanalista: ognuno di loro è affetto da una forma diversa di doc (disturbo ossessivo compulsivo). Essi presentano manie, comportamenti che non riescono a controllare; potremmo dire che sono posseduti da tic che trascendono la loro volontà, e infatti nessuno di loro riesce a riconoscersi, come dimostra il momento del film in cui la stessa Blanca ammette: “C’è una Blanca dentro di me che non riesco a controllare”. L’immagine del gatto allo specchio e il continuo sbattere contro di esso, se ci pensiamo bene, è l’impossibilità di toccare qualcosa che non può essere raggiunta o anzi fa paura o che tarda ad arrivare, proprio come il dottor Palomero, il quale non si presenta alla seduta preferendo far interagire fra loro i “pazienti”. Il comportamento del gatto, guardato dal di fuori, è motivo di derisione per la sua illogicità. D’altronde il Dottor Palomero (alias Federico) non ama la terapia di gruppo perché ha timore che qualcuno possa prendersi gioco di lui, possa essere oggetto di derisione.
Il secondo fotogramma credo sia il momento più onirico del film e allo stesso tempo più tragico, soprattutto se pensiamo al tempo di “prigionia” che stiamo vivendo. Il doc tiene prigioniero della mente, costringe Blanca, per esempio, a movimenti serrati nello spazio angusto tra una tenda – a noi spettatori che guardiamo dall’esterno sembra di cogliere un’immagine sfocata che si muove come una marionetta - e l’apertura di una finestra che non si trova… Come un’uscita dall’incubo (o dal sogno?) che non si trova nel labirinto della mente? Posseduti da qualcosa da cui solo un “esorcismo” potrà liberarci?
Dimenticarci di noi stessi anche solo per un secondo, per una sola seduta – il dottor Palomero non visita mai due volte - può metterci in contatto con gli altri? Dimenticarci di noi, mettere da parte per un momento il nostro io può creare una relazione? Come in quel quadro appeso al muro in cui vediamo una scala, che conduce ad un riquadro (una finestra?) in una testa tratteggiata di profilo. Ma la scala ci serve per entrare o per uscire dalla nostra mente, dal nostro io? Come l’illusione che crea il Dottor Palomero: far credere a suoi pazienti che l’appuntamento era per una seduta personale e che a causa di un errore del
computer diverse persone si ritrovano nello studio contemporaneamente. Ciascuno si rende conto di non essere il solo a vivere una condizione di solitudine, di malattia, eppure inizialmente è insofferente nei confronti dell’altro. Ma se chi lo vive sulla propria pelle non è il primo a tollerare il “difetto” dell’altro, come potrà farlo la gente “normale”? Non siamo pesci muti in una vasca, ma esseri parlanti, anzi costretti irrimediabilmente a parlare, con la voce, col corpo, coi gesti… Costretti, alle volte, a dire anche quello che non vorremmo dire o fare… Un po’ maniaci, un po’ matti, un po’ squilibrati, un po’ automi, ma in fondo “esseri” (o divenienti?) umani…
Massimo Guastella