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Viaggio nel cinema di Pupi Avati - Le finestre che ridono, l'orrore e lo svelamento, l'aldilà
Nel 1976, Pupi Avati, il fratello Antonio e Minervini si stanno recando al tribunale di Latina per l’udienza relativa al sequestro del film Bordella per oscenità. Portano con loro una bottiglia di champagne, nel caso (per loro scontato) di assoluzione, per festeggiare anche la ripresa programmazione del film. Ma la bottiglia rimarrà chiusa: Avati e Minervini saranno condannati per oltraggio al pudore, il film giudicato osceno e le copie ritirate su tutto il mercato nazionale. tutto questo porta Pupi ad una considerazione: gli insuccessi del suo primo periodo da regista sono dovuti ai “patteggiamenti” a cui era dovuto scendere con fin troppi “interlocutori”, per realizzare film che sentiva sempre meno “suoi”. Da qui, la nascita della A.M.A. (Avati Minervini Avati), “società a capitale zero, fondata accomunando quelle tre debolezze formate da mio fratello, da Gianni e da me”, e l’idea di ripartire con un film a bassissimo costo, totalmente avatiano.  

È questa la genesi di La Casa Dalle Finestre Che Ridono, il primo film di grande successo di Pupi Avati e uno dei capisaldi della sua cinematografia, che (come accade per tutti i grandi Autori di cinema) ruota attorno a poche ossessioni fondamentali: l’amicizia, la morte e Dio.

UN FILM LUNGO 53 ANNI

Dice della morte Pupi Avati: “Mi ricordo che una volta, quando ero piccolo, pensavo che la morte fosse qualcosa di temporaneo. Avevo un’idea comodissima della morte. Quando morì mio padre – avevo dodici anni - pensavo che la morte fosse una malattia, una cosa che sì, durava moltissimo, però c’era una fine, c’era un punto in cui finiva. Diventando un po’ meno bimbo mi sono accorto che la morte durava per sempre: uno che muore non lo vedi più, vuol dire per sempre. Questa è un’idea così insopportabile, così poco umana, così poco accettabile che non è possibile che una persona si rassegni, non cerchi delle ragioni, non cerchi qualcosa che vada al di là. Le mie fantasticherie riguardavano tutte le morte. In quest’ambito, credo che la cosa più spaventevole siano i fantasmi, le presenze malvagie, che infatti ho sempre temuto molto. I “miei” fantasmi non erano mia sereni, non erano quelli spiriti burloni e in fondo benevoli di cui, ad esempio, parla Wilde nel Canterville. No, nei fantasmi che m’immaginavo io c’erano sempre lamenti, strazio, gemiti, voci…”

Il copione de La Casa Dalle Finestre Che Ridono è da tempo nel cassetto di Pupi, un copione “maledetto” di un film che ha già richiesto diverse stesure. Una storia che ha origine da un fatto di cronaca reale, terrificante episodio avvenuto attorno agli anni 20 nella campagna emiliana, e che dev’essere stato certamente uno di quei racconti orecchiati dal bambino bolognese e ripensati con terrore di notte. Racconta infatti Avati che il film “nasce da un raccontino che ci veniva fatto fin da bambini e riguarda un cimitero. Questo vecchio cimitero era stato rifatto (riesumate le salme e messe a posto le lapidi) all’inizio del secolo, quando mia nonna era ancora ragazza. SI racconta che, aprendo la tomba del parroco, siano state trovate delle ossa femminili anziché maschili. Questa storia ci terrorizzava, l’idea di un prete donna ci spaventava oltre ogni immaginazione”.  

La filmografia di Avati conta, ad oggi, 41 titoli per il grande schermo e 10 per la televisione, tra sceneggiati e seriali: un tesoro iconografico vastissimo e ricco come pochi, che negli ultimi anni ha conquistato la leggerezza che solo i grandi riescono ad esprimere (l’unico paragone possibile tra i registi ancora in attività è forse quello con Woody Allen), un universo emotivo e poetico che ruota attorno a pochi temi fondamentali: la famiglia, il ricordo, il sentimento dell’immanente. Una filmografia che, se osservata nella sua interezza, non si può che analizzare usando come grimaldello qualche opera fessure nelle quali incunearsi per meglio osservare e cercare di capire l’autore. Con temi che sono attraversati e declinati con un’ispirazione purissima, visibile attraverso un utilizzo personale e autoriale della macchina da presa, della fotografia, del suono e della musica in un unicuum imprescindibile.

Come rilevava Morando Morandini: “Avati ha altre qualità, tra le quali a me garba soprattutto il palese affetto per quello che fa, per il suo lavoro; lo si sente nella cura dei particolari, nel modo in cui sa cogliere il paesaggio padano che presumibilmente ben conosce e ama”.

Ecco, il paesaggio: in questo film fa la sua prima, grande comparsa da protagonista, laddove nelle opere precedenti di Avati era solo comprimario. 

L’ORRORE E LO SVELAMENTO

Lo skyline dei boschi continuamente contrapposta a suggello di molte scene, la frondosità sussurrante degli alberi verdissimi e scuri, l’allungarsi delle ombre, si fondono in una sorta di panteismo boschivo che è uno dei protagonisti di questa storia di follia campestre, tema riproposto, fin da Stephen King (Grano Rosso Sangue, Stand By Me) in quasi tutti i grandi horror-makers statunitensi (Tobe Hoooper e il suo Quel motel vicino alla palude e Non Aprite Quella Porta, Wes Craven in Le colline hanno gli occhi) . Là dove c’era sole e grano appena falciato, ora c’è notte, buio e inquietudine. Ciò che Avati riprende da Fellini è la stralunata dimensione della campagna in chiave favolistica, inquinandola ancora più del maestro con elementi di mistero e terrore. Perché tutto quello che in Fellini viene stravolto in chiave ironica, surreale, solare e grottesca quando non malinconica, in Avati diventa tetro e minaccioso, o apertamente fantastico, favoloso, come se tali aspetti fossero necessariamente le due facce della stessa medaglia. L’intuizione più grande di Avati fu questa: un thriller costruito su sfumature interne ai personaggi e senza effetti, per di più ambientato in un paesino sperduto, all’indomani del clamoroso successo delle carneficine di Dario Argento, peraltro realizzate in allucinate locations metropolitane. Pupi Avati tornerà nel film successivo (Tutti defunti…tranne i morti) , nel 1982 con Zeder (straordinariamente simile a Pet Cemetery tratto da Stephen King) e nel 1996 con L’arcano Incantatore ai temi prettamente orrorifici e fantastici, abbandonandosi invece sempre più ad un cinema tutto costruito sull’amarcord, sull’amicizia e sull’amore, su quei piccoli personaggi di provincia che accarezza e dipinge con chiaro affetto. Del 1983 è Una Gita Scolastica, il film con cui nasce il “genere Avati”. Nasce dal racconto di sua zia Laura , che nel 1914 fece quel giro dell’Appennino a piedi. Sulla base di quella storia così familiare, Avati aveva tratto un racconto, L’incanto,  uno di quei racconti che “ti escono dalla penna tutti in una volta, facili, giusti” , e la protagonista è proprio quell’anziana zia che, nel ricordo della passeggiata, vuole far sapere a tutti che anche lei è stata felice, almeno una volta, per pochi giorni, insieme a tutti i suoi amici. Il film viene accolto a Venezia in modo trionfale, ma non vince nessun premio (e la storia si è ripetuta quest’anno Cannes con Il Cuore Altrove, a dimostrare che, appunto, il cuore non sta là dove si aggiudicano i premi). Il genere avatiano è articolato e imprevedibile, oggi citatissimo non appena si incontra un film che fa perno sui “buoni sentimenti”), amalgama di situazioni interne agli individui e alle famiglie fotografate prima, durante e dopo l’esplosione verso l’esterno. Una gita scolastica ripropone i temi cari ad Avati, dall’amicizia maschile all’irragiungibilità della donna amata. Come già nella Casa Dalle Finestre Che Ridono, Avati si avvale della costante presenza dell’elemento naturale , mai surrettizio e sempre fondamentale nelle scene in cui compare. Uno dei momenti più affascinanti ha infatti per protagonista proprio la natura, raramente tanto esaltata (e tanto bene) in un film italiano. Il professor Balla/Carlo delle Piane si arresta davanti ad una radura soleggiata che interrompe un fitto bosco appena attraversato. La scolaresca, impaziente, comincia a scalpitare, ma lui, con quell’autorità indiscussa che solo gli “originali” hanno, impone il silenzio con dolcezza. “Sentite?” domanda ai ragazzi, sempre meno increduli e già suggestionati dalle divinità del bosco, “sentite l’incanto?” . Sullo schermo, fuori, non accade nulla, eppure la sensazione è che in quell’attimo sia accaduto qualcosa che condizionerà lo svolgimento (disastri amorosi compresi) dell’intera gita, e forse della vita di ogni protagonista, come afferma l’io narrante Laura.

Vengono in mente Picnic Ad Hanging Rock, il capolavoro di Peter Weir, Stand By Me di Bob Reiner: in entrambe le pellicole, diversissime tra loro, l’elemento naturale è il motore e il fine dell’azione dei protagonisti, condizionati da una sottile ma costante presenza dell’ambiente che li circonda e che cambia, in un certo modo, le loro vite, come se il contatto prolungato con la Natura si risolvesse nel passaggio ad un’altra dimensione. Con UNA GITA SCOLASTICA, Avati inizia a scrivere copioni in cui (anche) la recitazione gioca un ruolo fondamentale e insostituibile. Carlo Delle Piane gioca in sottrazione con il suo personaggio, e questo va benissimo per lui; ma ognuno avrà una sua parte.  Questa sarà, negli anni che verranno, una delle cifre distinguibili dei film di Avati.

L’altro caposaldo attorno a cui ruota l’universo poetico di Pupi Avati è la religione e l’Aldilà, strettamente connesso con la morte. Il progetto di Magnificat inizia a sedimentarsi dentro di lui fin da quando ha il suo primo infarto; esiste un luogo dove saremo realmente considerati per quello che abbiamo fatto di buono o di malvagio nella nostra vita terrena? Esiste davvero un Dio che ci restituisca infallibilmente ciò che abbiamo dato, che ci ricompensi delle nostre sconfitte, che ci premi in qualche modo? Avati prega di sì: prega semplicemente Dio di esistere. Che ci giudichi o meno, che ci prenda o ci tolga, è superfluo: è sufficiente che esista, e che la religione non si riveli puro artificio, che ridurrebbe perciò la nostra esistenza solo ad una parentesi terrena, la cui riuscita dipende soltanto dalla fortuna di nascere in un’epoca o in un’altra. Come nel Medioevo.

L’ALDILA’

Lei Mi Parla Ancora, il film numero 41, è cristallinamente avatiano: una specie di riassunto delle puntate precedenti raffinato e coinvolgente, la conferma che oggi l’unico modo per andare controcorrente è raccontare le storie più semplici, dal cuore e col cuore. Un film che fa il paio con la sua Sconfinata Giovinezza con Bentivoglio e Neri, un dittico dove se da una parte la memoria si disperde nel vento, dall’altra si riconquista con le parole. 

In Lei Mi Parla Ancora l’immanente è dentro ogni cosa: nelle acque di un fiume, nel rumore della puntina di un giradischi, nel vento che agita foglie ed anime, nella disperata ricerca dell’immortalità.

Con Magnificat, 1993, arriva ad affrontare il lato oscuro dell’animo umano, il più insondabile. La storia si svolge alla fine del decimo secolo, nell’anno 926, in una zona indefinita della Pentapoli. Durante la settimana santa di Pasqua, una serie di personaggi, ognuno per motivi differenti,  si recano a Malfole, dove sorge il Monastero e l’Abbazia della Visitazione. In qualche modo le loro vicende si intrecceranno o si sfioreranno, venendosi a comporre in un tema comune che riguarda l’intima, ma umana, domanda sull’esistenza dell’Aldilà. Ognuno dei protagonisti chiederà la prova dell’esistenza di Dio, ma nessuno di loro, per ragioni diverse, riuscirà davvero ad averla. La prova giungerà quando ognuno avrà smesso di attendere, ritrovandosi immerso nella misteriosa solitudine che circonda l’intera umanità. Non è un film storico: ma un film che esprime, attraverso uomini del Medioevo, ai quali la miseria e il terrore non lasciavano altro che la speranza per la resurrezione, un senso di sgomento quanto mai attuale. In quell’epoca storica la morte annuiva l’esistenza dell’individuo assai più che in altri momenti della storia umana; ecco probabilmente la ragione per cui ogni mistero, ogni possibilità di fascino se non latro come promessa della vita eterna, in Magnificat non esistono più. Dopo la morte, che colpisce alla cieca, c’è il vuoto, dove ognuno troverà ciò che crede di trovare: tutto, o nulla. Vano è sperare in un segno dell’Aldilà che ci conforti. La fede incondizionata, non resta altro, e per chi non ha abbastanza forza per crederci totalmente, comincia il dramma più oscuro, perché non potrà concludersi che con la morte. Il tema della morte e del segno divino ha un aggancio autobiografico di toccante leggerezza. Il protagonista è Ferdinando Orlandi, uno degli interpreti avatiani più fedeli, scomparso nel 1991. “Prima di morire” racconta Avati “mi diceva. guarda che se muoio prima io ti verrò a dare un segno. E mi fece la promessa della gente di campagna prossima a morire: di tornare a dare un segno, a tirare i piedi di notte, di far qualcosa per provare l’esistenza dell’Aldilà. E quella risposta che nessuno ha e che nessuno mai ebbe, e che nemmeno Orlandi è riuscito a darmi, magari arriverò quando non l’attenderò più.” 

GianLorenzo Franzì

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