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WORKSHOP SU PIER PAOLO PASOLINI: I VOSTRI ELABORATI!
Al termine del workshop dedicato a Pier Paolo Pasolini, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere un elaborato su un elemento emblematico del cinema di un autore tra i più celebri e controversi del XX secolo. Ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!


Gianluca Grannò
Che cosa sono le nuvole per Pasolini


Ero un ragazzino quando vidi, incuriosito, Toto’ in un film di Pasolini.

Per me Totò rappresentava il divertimento, lo sberleffo, quella comicità diretta, istintiva, infantile, di provincia, che mi colpiva per la sua indimenticabile mimica e cadenza. Vederlo imbruttivo, verde in faccia, mentre interpretava una logora marionetta in quel contesto che tutto era tranne che allegro e spensierato, fu una delusione che mi lasciò una strana sensazione di malinconica tristezza. A quel tempo Pasolini era solo espressione di un mondo adulto e a me indifferente.     

Avevo dimenticato quel personaggio e quel cortometraggio: “Cosa sono le nuvole?”. Rivisto oggi la sua poetica mi ha travolto.

I personaggi di “Cosa sono le nuvole?” sono marionette dell’Amleto. Nel cast c’è: Franche Franchi, Ciccio Ingrassia, Laura Betti, i protagonisti “Toto/Iago” e “Ninetto Davoli/Otello” e Domenico Modugno.

Le marionette sono ingenue, prive di preconcetti e malignità, pronte ad interpretare in scena il ruolo che il “padrone” gli attribuisce. Hanno un ruolo nella tragedia e malvolentieri “interpretano” il proprio personaggio, accettando di essere sul palco ed esistere in virtù di logiche sconosciute e a loro incomprensibili. Anche interrogando il burattinaio sul perché dei loro comportamenti, non hanno risposte, restando in balia degli umori incontrollabili del pubblico ignorante e becero in un teatro povero, spoglio e sporco.

Aggrediti per colpe non loro, le marionette “Toto/Jago” e “Davoli/Otello” vengono distrutte e gettate tra i rifiuti, ormai inutili nell’economia della messa in scena e quindi sostituibili. Sono gettate e dimenticate in una discarica a cielo aperto accompagnate dalla struggente voce di Modugno, in una delle scene, probabilmente tra le più poetiche di Pasolini. Le loro urla sorde di paura, scomposte e sguainate, risuonano nella mia memoria.    

Siamo noi le marionette nel teatro della vita.

Nasciamo puri e fiduciosi nei confronti degli altri e del mondo, ma presto quella ingenuità sparirà, facendoci scoprire di essere ingranaggi di un meccanismo che non controlliamo e interpreti di un ruolo che non abbiamo scelto. Siamo manovrati da fili (nemmeno tanto invisibili) ma da cui non possiamo liberarci. In questa realtà non esiste possibilità di ricevere risposte e fare scelte consapevoli. Il nostro destino è segnato e inesorabile, è solo questione di tempo, prima o poi, vittime di un sistema di comportamenti irrazionali ed in balia dei degli istinti della massa, siamo destinati a pararne il prezzo.  

Solo con la morte possiamo raggiungere la bellezza del creato? E’ un messaggio religioso quello che ci lascia Pasolini con questo corto? Possiamo abbandonarci a contemplare la bellezza e immensità del cielo, simbolo di una nuova (altra) vita, solo alla fine dell’esistenza così come la conosciamo?

 

Marco Maderna
Il volto di Pasolini: storia di un primo incontro

Nel cinema di Pasolini, non c’è forse immagine migliore del volto di Pasolini stesso. Occhi avidi di realtà, mente viva e all’opera, cuore infiammato. Tale è l’energia che investe chi si imbatte in quel volto, anche chi – come chi scrive – si accosta ai suoi film per la prima volta - nello specifico, l’episodio dell’allievo di Giotto in Decameron (1971), al quale allievo dà volto Pasolini stesso.

Ed è proprio questa energia famelica, questo animo felino, che autorizza a ipotizzare, come primo tentativo di interpretazione di un cinema davvero arduo da decifrare, che con i suoi film Pasolini non abbia voluto altro che mettersi alla ricerca della conoscenza vera.

«La vita consiste prima di tutto nell'imperterrito esercizio della ragione. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà» ha scritto Pasolini nelle sue Lettere luterane (1975). Con queste parole sembra voglia dirci che il più grande regalo che si possa fare alla società in cui si vive, il più grande contributo alla cura dei suoi cronici malanni, è quello di restituire ai suoi membri la statura della ragione umana in tutta la sua potenza. Una ragione che non è appena esercizio della facoltà logica, ma è parte di un vissuto più ampio, che coinvolge anche affettività e corpo. In altre parole, l’intera persona; la persona in quanto capace di accogliere in sé la realtà che le si manifesta.

È questa la grandezza di Pier Paolo Pasolini. Lungi dall’essere una manifestazione di sdegno nei confronti del popolo – il suo cinema dice tutto il contrario –, è assai più probabile che quel «meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà» significhi che non può esserci popolo senza rapporto con la realtà. Ai problemi del popolo, alla decadenza di una società, agli squilibri della vita pubblica, non si risponde con un richiamo ai valori civili, a un ritrovato senso del dovere e della giustizia, all’irreprensibilità morale. Quel che occorre al progresso umano non è una rinnovata etica, ma una rinnovata conoscenza.

Guai al popolo, al politico, all’intellettuale, all’uomo la cui ragione prendesse congedo dalla realtà, la cui vita scegliesse di affidarsi all’idea e al suo sviluppo logico e coerente, cioè l’ideologia. Nei suoi film, Pasolini non esita a concedere alla realtà, alla fattualità, di fare una vera e propria, anche violenta, irruzione in scena: succede con l’apparizione dell’angelo a Giuseppe ne Il vangelo secondo Matteo (1964); succede col bambino nudo del primissimo fotogramma di Medea (1969); succede con la (frequente) nudità dei corpi, quasi a voler segnalare l’anelito ad una nuda veritas. Nuda, e perciò corporale: l’itinerario alla verità non è mai puramente intellettuale, ma coinvolge la vita tutta, financo i corpi, la loro osservazione e la loro unione.

È una schiettezza, quella di Pasolini, che può lasciare sgomenti, ma che si può provare a comprendere come un tentativo del regista di far sua la massima secondo cui la bellezza è lo splendore del vero.

Sono scampoli, quelli appena citati, ritagliati da film i più diversi; non ambiscono ad altro che a descrivere, quello che è stato il primo incontro di un profano, aiutato dalla conoscenza di qualche suo brano scritto, con l’avventura umana di Pasolini. Avventura che ha il sapore della fuga dalla menzogna; la menzogna che è prerogativa del Potere, di qualunque potere, non soltanto quello politico. Il Potere si riconosce non dal colore partitico, dall’affiliazione a un dato gruppo, ma dalla creazione di un mondo fittizio, in cui l’Idea (l’ideologia) soppianta il mondo reale per plasmarlo secondo i suoi parametri.

Lo dice lo stesso Pasolini quando, ad esempio, si scaglia contro «l’irrealtà del mondo borghese» e la sua conseguente «irresponsabilità storica» (dal film La Rabbia, 1963). Il più grande nemico del vivere civile non è innanzitutto l’ingiustizia. È l’irrealtà. L’essenza del Potere non è tanto la sua malvagità, ma la sua cecità; e il prezzo pagato dall’umanità a lui sottomessa non è la crudeltà, ma l’incapacità di rispondere alla Storia che chiama, di essere all’altezza delle sfide che la realtà pone agli uomini.

L’indomita battaglia di Pasolini sembra essere tutta qui: sfuggire alle fantasmagorie del Potere – la cui arma più insidiosa è l’omologazione – per «documentare la presenza di un mondo che, al contrario del mondo borghese, possiede profondamente la realtà». Non si fugge dall’inferno con l’illusione: l’inferno è proprio l’illusione. È il grande monito, tra gli altri, del film Mamma Roma (1962).

Cosa occorre dunque per non cadere nella trappola dell’omologazione? Come si fa a non finire nelle mani dell’illusione? «Se qualcuno ti avesse […] educato, non potrebbe averlo fatto che col suo essere […]» (Lettere luterane): Pasolini è allergico alla verbalizzazione, alla riduzione della conoscenza a raziocinio, dell’insegnamento a dottrina (ne è testimonianza la sequenza d’apertura di Medea). Solo la vita vissuta, la vita disponibile a farsi conquistare dalla realtà, può contendere il terreno alla tirannide dell’Idea. Pasolini non è in cerca dell’uomo dotto, come non lo è dell’uomo probo, giusto: è in cerca dell’uomo vivo.

Vivo come gli occhi roventi del pittore che affresca la grande chiesa nel Decameron. Vivo come quel vulcano attivo che è il suo interprete.

Se volete vedere com’è fatto un uomo vivo, fate conoscenza con Pier Paolo Pasolini.
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