Castle of Sand
Suna no utsuwa
Durata
143
Formato
Regista
Due detective investigano su di un cadavere trovato vicino a delle rotaie. Pochi sono gli indizi e tutte le piste portano a dei vicoli ciechi. Finché uno dei poliziotti non inizia a scavare più a fondo nel passato, riportando alla luce segreti inconfessati.
Il più grande successo in patria per Nomura è nuovamente frutto di un soggetto ispirato a un romanzo di Seich Matsumoto (questa volta tocca al popolarissimo Come sabbia tra le dita). Come al solito, la struttura non è quella del poliziesco classico, in quanto il regista non ha paura di dilatare la narrazione focalizzandosi anche sui tempi morti delle false piste, in quello che diventa un intimo viaggio nel Giappone più provinciale. Non manca nemmeno più di qualche spunto melodrammatico, che ramifica ancora di più il racconto. I protagonisti arrancano alla ricerca di indizi e, soprattutto, di un movente e di un colpevole: nessuna ipotesi sembra essere quella giusta, e, anche quando imboccheranno la direzione corretta, non sembrerà esserci giustificazione al crimine ai danni di un uomo apparentemente inappuntabile. La soluzione arriva da un passato doloroso che si è cercato di cancellare, ma che ritorna sempre, quasi il destino (anche titolo di una composizione di uno dei personaggi principali) sia già avvenuto, piuttosto che essere un qualcosa di proiettato nel futuro. Nomura raggiunge qui una cura formale di enorme fascino e, anche se narrativamente il film si sviluppa con qualche coincidenza di troppo, tutto è perdonato grazie alla sinfonia audiovisiva dell’ultima parte: quaranta minuti in cui si sviscera tutta la verità attraverso dei flashback pressoché muti e il montaggio alternato tra i poliziotti che disvelano il caso e un concerto la cui musica si fa sia diegetica che extradiegetica. Stupenda pagina di cinema che ci porta a meditare sul passato e sulla sua ineluttabilità, la cui importante portata teorica va di pari passo con la potenza visiva della messa in scena.
Il più grande successo in patria per Nomura è nuovamente frutto di un soggetto ispirato a un romanzo di Seich Matsumoto (questa volta tocca al popolarissimo Come sabbia tra le dita). Come al solito, la struttura non è quella del poliziesco classico, in quanto il regista non ha paura di dilatare la narrazione focalizzandosi anche sui tempi morti delle false piste, in quello che diventa un intimo viaggio nel Giappone più provinciale. Non manca nemmeno più di qualche spunto melodrammatico, che ramifica ancora di più il racconto. I protagonisti arrancano alla ricerca di indizi e, soprattutto, di un movente e di un colpevole: nessuna ipotesi sembra essere quella giusta, e, anche quando imboccheranno la direzione corretta, non sembrerà esserci giustificazione al crimine ai danni di un uomo apparentemente inappuntabile. La soluzione arriva da un passato doloroso che si è cercato di cancellare, ma che ritorna sempre, quasi il destino (anche titolo di una composizione di uno dei personaggi principali) sia già avvenuto, piuttosto che essere un qualcosa di proiettato nel futuro. Nomura raggiunge qui una cura formale di enorme fascino e, anche se narrativamente il film si sviluppa con qualche coincidenza di troppo, tutto è perdonato grazie alla sinfonia audiovisiva dell’ultima parte: quaranta minuti in cui si sviscera tutta la verità attraverso dei flashback pressoché muti e il montaggio alternato tra i poliziotti che disvelano il caso e un concerto la cui musica si fa sia diegetica che extradiegetica. Stupenda pagina di cinema che ci porta a meditare sul passato e sulla sua ineluttabilità, la cui importante portata teorica va di pari passo con la potenza visiva della messa in scena.