Lo sguardo in camera: quando il cinema è un dialogo diretto
23/03/2021

Dal bordo di una scogliera, derubata e abbandonata da un uomo che aveva promesso di sposarla, Cabiria (Giulietta Masina) si rialza da terra e cammina per una strada senza meta, con lo sguardo fisso davanti a sé. Sul suo tragitto incontra un gruppo di ragazzi che suonano, cantano e ballano attorno a lei. Anche se c’è un abisso tra le sue emozioni e quelle del gruppo che la circonda, Cabiria volge loro un debole sorriso e in seguito guarda direttamente in camera, con uno sguardo velato dalle lacrime, rivolgendosi al pubblico con un cenno del capo e un sorriso timido e speranzoso. La scena finale de Le notti di Cabiria di Federico Fellini rappresenta un vero e proprio incontro tra la protagonista e lo spettatore, come se lei riconoscesse il determinismo drammatico della sua realtà, come se con quello sguardo finalmente riconoscesse la maschera dello schermo, l’infingimento melodrammatico che sottende quel cammino, la sua strada, una forma di intimità che diventa provocazione, nata per disincarnare l’inerzia dello spettatore e metterne in discussione la postura e la passività. Quel finale commovente, che André Bazin definì tra i più geniali della storia del cinema, e quello sguardo in macchina dolce e consapevole, è uno svelamento del codice, della grammatica, dell’architettura drammatica, un’interpellazione diretta che compone la rottura della quarta parete. 



Ogni storia possiede la sua estetica: guardare in camera è diventata una forma, una struttura ben precisa, che può veicolare un senso di intimità, come quando un attore o un'attrice si confida con lo spettatore, come accade nello show televisivo HBO Euphoria; può anche significare assumere il controllo della propria narrazione, parlando in prima persona e sottraendo l'invisibilità del pubblico che diventa partecipe dei meccanismo della storia, come accade in Fleabag, o anche nel più recente film Netflix Enola Holmes (il regista è lo stesso, Harry Bradbeer), anche se in questo caso non è un vero e proprio controllo narrativo ma più una forma di vicinanza, di identificazione, di riconoscimento; la quarta parete del film con Millie Bobby Brown viene sgretolata fin dal principio, un gesto che nasce per incoraggiare l’empatia o una speciale connessione dello spettatore con il suo personaggio. 



In realtà, quando si parla di svelamento del codice sembra che esista uno scheletro, un paradigma archetipico, e questo non vada mai scoperto, non vada mai riconosciuto, legittimato, come un gioco di prestigio particolarmente efficace che non deve essere svelato. Lo sguardo in camera, oltre ad avere una tradizione audiovisiva già molto lunga, ci dice molto di più di noi spettatori, e di quel che rappresentiamo; infatti, come asserisce Frank Rose nel suo saggio Immersi nelle storie, “Il concetto di spettatore è di fatto superato, e forse andrebbe sostituito con il termine più calzante di partecipante. Le persone un tempo definite pubblico iniziano a partecipare in maniera attiva al proprio intrattenimento; di conseguenza il loro ruolo sta cambiando radicalmente”. I personaggi e protagonisti di serie tv e film sembrano riconoscere il nostro sguardo, sembrano guardarci, alludere alla nostra presenza. Questo dialogo diretto è una scelta narrativa molto precisa: assegnare tale forza a un personaggio all'interno della finzione cinematografica è enormemente significativo. In primis perché l’attore/attrice viene di fatto spogliato, svestito nel suo personaggio, come si legge in un celebre saggio sul tema di Marc Vernet; come affermò Anna Karina, musa e moglie di Jean-Luc Godard, nei suoi film bisognava più essere che interpretare



Godard ad esempio, in Fino all'ultimo respiro, decostruì la narrazione e infranse la quarta parete, dando la possibilità agli attori di guardare in camera per cercare lo sguardo degli spettatori, forzando il contatto con la macchina da presa. Godard, giocando con lo sguardo in camera, porta il cinema in un’epoca e in un momento di riflessione sul mezzo filmico: lo sguardo in camera incoraggia una trasformazione, una dissoluzione della tradizione cinematografica e della distanza tra lo spettatore e le immagini. Gli attori possono infrangere la quarta parete e riconoscere di essere parte di un'opera di finzione. Guardare in camera può significare anche offrire commenti sulla storia, offrire uno sguardo sulla propria vita interiore, evidenziare l'artificiosità dell’opera. 


Quello sguardo così immersivo ricorda allo spettatore qual è il suo posto, è anche uno sguardo che lo invita nella storia, che lo coinvolge, che crea intimità, complicità; è anche uno sguardo cieco perché svela l’impossibilità di andare oltre se stesso, e che l’infrangersi della quarta parete non porta a un incontro vero o proprio, ma a un dialogo che annulla ogni straniamento. Un discorso analogo lo realizzò Foucault quando dedicò al quadro di Diego Velázquez, Las Meninas, un’interpretazione precisa che riguardava lo sguardo del pittore, che dalla tela fissava un punto invisibile, posandosi e incontrando gli occhi dello spettatore, che scompaginò la tradizione dei ritratti in pittura e le condizioni della rappresentazione. 



Evitare di guardare la camera è diventato uno dei presupposti, un principio che è stato codificato all’intento dello stile classico hollywoodiano. Come afferma Vernet, lo sguardo in macchina da presa è il grande divieto del cinema narrativo, proprio perché interferisce con il presupposto della narrativa classica. Un divieto che fortunatamente è stato ripetutamente infranto. Durante i monologhi di Fa' la cosa giusta, Spike Lee adopera lo sguardo in camera per provocare una discussione, un cambiamento, un dialogo diretto destinato a permanere nella mente dello spettatore. L’analisi lucida e spietata del razzismo sistemico statunitense si forgia nei monologhi diretti verso il pubblico, accomunati dalla tensione, da un senso strangolante di conflitto e pregiudizi, destinati a esplodere in una depauperante e bruciante violenza. 



Lo sguardo in camera ha effetto sia sulla narrazione, sia sullo spettatore, influenzando anche il ritmo della storia e di come essa viene percepita. Prendiamo ad esempio il personaggio di Frank Underwood di House of Cards. Il suo continuo rivolgersi direttamente agli spettatori, condividendo i suoi pensieri, i suoi segreti, permette a chi guarda di fare quello step che da spettatore, quindi essere inerte, passivo, lo trasforma in partecipante, complice, un individuo che non solo è coinvolto nelle sue malefatte ma in un certo modo le legittima. 



Con uno sguardo, di intensa partecipazione, di complicità, lo spettatore è coinvolto direttamente nella trama, è parte della tessitura della storia. È uno sguardo confidenziale, intimo, suggestivo, evocativo, che cambia la circolarità della pellicola, che non è più un circuito chiuso avviluppato su se stesso, infrange ogni effetto di straniamento brechtiano e ci interpella, ci interroga. Il caso più esemplare degli ultimi anni è proprio dettato dallo strabiliante show televisivo Fleabag, ideato, scritto e interpretato da Phoebe Waller-Bridge. Lo spettatore ha un ruolo ben preciso all’interno della serie: è lo spazio in cui la protagonista rifugge, in cui lei stessa si estrania per divincolarsi dalla sua realtà. Lo spettatore è l’unico che ascolta, che può vedere le sue smorfie, i suoi occhiolini, che può sentire i suoi commenti. In quella performance perpetua il pubblico assume una postura di rilievo, un protagonismo reale che non era mai stato così rilevante all’interno di una narrazione visiva. Lo spettatore non è più al margine, non vive più al confine della storia, è parte integrante della narrazione diegetica, e stringe una relazione, un rapporto particolare con la protagonista. 

Al cinema, come anche nelle narrazioni seriali, le interpellazioni dirette assumono un significato pervasivo e differente a seconda della direzione che la storia intende tracciare. Ogni sguardo in camera, ogni volta che la quarta parete viene infranta, è come una domanda a cui si desidera fortemente dare una risposta. È il desiderio di includere lo spettatore in un viaggio che non è mai rettangolare, bidimensionale, ma incessante, continuo, tridimensionale, che nasce cinema e diventa vita reale.



Lucia Tedesco

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