Da Robert Wiene a Fritz Lang: l'espressionismo tedesco al cinema
27/02/2020
27 febbraio 1920: 100 anni fa Il gabinetto del Dr. Caligari di Robert Wiene esce nei cinema tedeschi. L’espressionismo può avere inizio. Anche se, più correttamente, sarebbe meglio dire che è l’alba dell’espressionismo cinematografico, visto che le radici di questo movimento avanguardistico vanno ricercate molti anni prima, sia a livello artistico che teorico. Quello che è certo è che la prima guerra mondiale, con i suoi orrori e il suo spirito distruttivo, ha senza dubbio contribuito alla frammentazione dell’identità personale, non solo tra i soldati in trincea, ma anche dei cari che li attendevano a casa, portando con sé forti ripercussioni anche al termine del conflitto.
Riemergono con forza le teorie psicologiche elaborate da Sigmund Freud già alla fine dell’800, che espongono idee innovative quali la presenza dell’inconscio e la frammentazione dell’Io. Per semplificare: l’uomo non è più solo un essere razionale, ma c’è un parte irrazionale che chiede un ruolo di protagonista, facendo sprofondare l’individuo in una crisi profonda, che lo scontro mondiale non ha fatto altro che acuire. Nell'ambito della pittura e della scultura, l’espressionismo trova le sue fondamenta nel collettivo Die Brücke (1905-1913), nato a Dresda da un gruppo di artisti di avanguardia (tra cui Ernst Ludwig Kirchner), e nel Der Blaue Reiter (1911-1914), costituitosi a Monaco di Baviera. Ma qualche traccia è rintracciabile già in Vincent Van Gogh e Paul Gauguin. Espressione è chiaramente la parola chiave, espressione di quanto è presente all’interno della persona, irrappresentabile in maniera oggettiva e che ora può esplodere nel mostruoso, nel deforme, in tutto quanto possa spaventare: l’ingnoto.


È questo il contesto in cui Robert Wiene porta nelle sale Il gabinetto del Dr. Caligari, vero e proprio manifesto dell’espressionismo cinematografico. Il regista detta le linee guida seguite successivamente nei suoi film e anche dagli arti artisti tedeschi negli anni successivi: è palpabile la deformazione del visibile, grazie ad una scenografia in cui comandano linee curve e zigzaganti, quasi stilizzate ed essenziali. Irreali, appunto. E inquietanti. I giochi di luci ed ombre amplificano l’orrore, portato al culmine dalla recitazione ambigua ed esasperata degli attori, sui quali abbonda il trucco, trasformandoli, di fatto, in maschere. A colpire maggiormente, è l’indagine psicologica sui personaggi, resa tale dalla costruzione narrativa e dagli elementi tipici di un movimento d’avanguardia destinato ad influenzare l’arte di diversi registi contemporanei. Una poetica chiara, dunque, che fa del mostruoso e del doppio elementi cardine, che tornano anche in Le mani dell’altro, del 1924.


In un’epoca segnata dal trionfo del mostruoso, non poteva naturalmente mancare uno dei simboli più celebri dell’horror, ossia Dracula. Il regista è Friedrich Wilhelm Murnau e l’opera, celeberrima, è Nosferatu – Il vampiro (1922), con l’attore Max Schreck nei panni del Conte Orlok, chiamato così per eludere il pagamento dei diritti d’autore. «È proprio attraverso lo stile, con un uso insolito delle inquadrature e audaci soluzioni visive (la foresta attraversata da Hutter ricreata grazie alla proiezione di tratti di pellicola negativa; il movimento ballonzolante della carrozza che raggiunge il castello di Orlok ottenuto con un sistema di inquadrature girate fotogramma per fotogramma) che F.W. Murnau costruisce un immaginario spettrale, inquietante e indimenticabile. Capolavoro metafisico, permeato da un costante senso di morte e di sospensione onirica, ritratto allucinato di un'umanità agonizzante, inerme e fragile, predisposta ad essere sopraffatta dal male. Attraverso l'uso massiccio di esterni, inoltre, Murnau sottolinea la dimensione oscura e malefica che accompagna la natura circostante, intrisa di nebbia e sinistre atmosfere» (La nostra recensione completa, qui). Ma Murnau non è solo Nosferatu, e nel 1924 regala alla storia del cinema L’ultima risata, la storia di un portiere d’albergo (interpretato da uno strepitoso Emil Jannings) che dopo essere stato degradato perde tutte le sue certezze. Il gioco del doppio è presente su più livelli, in questo caso, che si tratti della miseria dei quartieri contrapposta allo sfarzo dell’hotel o, in linea con le opere precedenti, nella personalità del protagonista. Memorabile, in tal senso, la ripresa a 360° del protagonista in stato di ebbrezza: esterno che racconta l’interno, ancora una volta. Simbolico. Faust, del 1926, ne è un ulteriore esempio.


L’espressionismo pittorico era terminato agli albori della prima guerra mondiale, mentre per il cinema è l’avvento del nazismo, con conseguente fine della Repubblica di Weimar, a decretarne il tramonto. In tal senso, il percorso sull’espressionismo si può concludere con Fritz Lang: Il dottor Mabuse (1922), che richiama Caligari, e I Nibelunghi (1924) fanno da preludio al capolavoro del regista austriaco, presentato nel 1927. Metropolis è infatti un’opera maestosa e rivoluzionaria, in cui le «magniloquenti e ipnotiche scenografie di Otto Hunte ed Erich Kettelhut, combinate agli effetti di Eugen Schüfftan, pongono le basi della fantascienza moderna, definendo un universo futuristico di sublime maestria visiva, e la tecnica, che ha contribuito a definire il film come il più grande tentativo spettacolare nella storia della settima arte, è affiancata e sostenuta da un'allegoria di temi sociali (la meccanizzazione dell'essere umano; la macchina come mortifera fonte di vita) e religiosi (la cristologia che pervade l'intera pellicola, dalla definizione della donna-santa, contrapposta all'automa demoniaco e serpentino, agli operai quasi crocifissi sul luogo di lavoro, alle croci che emergono simboliche e prepotenti dal contrasto tra luci e ombre). Con un profetico avvertimento sulla disumanizzazione, superbamente esemplificato dal chiasmo tra la macchina che si fa carne e le masse operaie (rigide e sincronizzate, sempre più simili a robot), Metropolis si fa portatore di un messaggio ammonitore (l'Europa, e la Germania in particolare, sarebbero ben presto andate incontro alla rovina e all'autodistruzione con la Seconda guerra mondiale) e di un pacifismo dichiarato («Il mediatore tra il cervello e le mani dev'essere il cuore»), che fu travisato e scambiato da alcuni per ideologia politica. Il capolavoro di Fritz Lang (sceneggiatore con la moglie Thea von Harbou) divenne il film preferito di Adolf Hitler, che ci vide un incitamento alla dittatura. Innumerevoli le sequenze da antologia: impossibile non citare la danza scattante e perversamente lasciva della falsa Maria, ritmata da un montaggio serrato e simbolico che fa percepire la dirompenza di un erotismo maligno» (La nostra recensione completa, qui).
Gli orrori della prima guerra mondiale hanno quindi portato a questo breve decennio (1920-1927) in cui bene e male si fondono e in cui la crisi personale si mescola con quella di una nazione (o forse di un mondo) che è solo all’anticamera di un periodo se possibile ancora più buio. Sarà ancora una volta la settima arte ad aiutare ad esorcizzare i fantasmi interiori, a portarli in scena, a mostrarli e, attraverso la via della catarsi, tenatare di allontanarli.