Il brivido corre lungo lo schermo: l'evoluzione del giallo, da Agatha Christie a Christopher Nolan
11/02/2022
Omicidi, indagini, depistaggi, ricostruzioni e (quasi sempre) risoluzioni. I film gialli hanno sempre trovato la giusta alchimia di ingredienti per appassionare il pubblico e convincerlo a seguire attentamente trame intricate, con la speranza di riuscire a identificare il colpevole prima ancora degli stessi personaggi della storia. Il genere nasce verso la metà del XIX secolo, grazie all’immediato successo dei romanzi di Edgar Allan Poe, Arthur Conan Doyle e Agatha Christie, creatori di sconvolgenti racconti criminali e di personaggi dalle incredibili capacità deduttive.

I racconti gialli hanno goduto fin da subito di un apprezzamento generale talmente forte da permettere molteplici trasposizioni cinematografiche: a partire dagli anni Trenta del Novecento hanno cominciato a invadere le sale, generando un solido rapporto col pubblico che dura ancora oggi. Grazie alla permeabilità del genere e alle diverse tematiche toccate, si sono succedute, nel corso dei decenni, svariate derivazioni che hanno permesso la nascita di altrettanti sottogeneri: dai film gialli classici ai noir metropolitani, dal thriller d’azione al thriller legale, dai polizieschi ai film di spionaggio e così via.
Proviamo a fare chiarezza e passare in rassegna alcune pellicole decisive che, nel corso della storia del cinema, hanno saputo omaggiare il genere giallo e, talvolta, stravolgerlo e arricchirlo.
LA SIGNORA DEL GIALLO
La nostra ricerca non può che partire dall’autrice che, più di ogni altro, ha ispirato e influenzato il modo di scrivere i racconti gialli: Agatha Christie. La scrittrice inglese più tradotta di sempre, seconda solo a William Shakespeare, si è guadagnata nel corso della sua incredibile carriera l’appellativo di regina del crimine. Attraverso i suoi numerosi romanzi gialli Christie ha instaurato quella che ancora oggi viene considerata la struttura misteriosa per eccellenza: è stato commesso un omicidio, vi sono più sospettati che nascondono dei segreti, il detective scopre gradualmente alcune verità nel corso della storia per poi rivelare la sconvolgente risoluzione verso la fine. Il tutto condito da personaggi eleganti, investigatori eccezionali quali Hercule Poirot e Miss Marple, dialoghi eccelsi e una fascinazione per il crimine (quasi) perfetto. Un repertorio del genere era destinato naturalmente al successo cinematografico. I film tratti dalle sue opere sono tantissimi. In particolare, però, tre pellicole riassumono particolarmente bene la forza dei grandi classici gialli sprigionata dal cinema. Vediamo le prime due.

Dieci piccoli indiani, René Clair (1945)
L’industria cinematografica aveva iniziato ad adattare i romanzi di Agatha Christie già a partire dalla fine degli anni Venti. Ci volle però una super produzione hollywoodiana e un regista di grande spessore per permettere la trasposizione di quello che è forse il romanzo più celebre della scrittrice inglese: Dieci piccoli indiani, pubblicato nel 1939. L’omonimo film di René Clair (l’ultimo dei quattro che il leggendario regista francese girò a Hollywood) mantiene lo spirito del testo di partenza, valorizzato da quell'umorismo macabro spesso presente nelle pagine della Christie. Attraverso una struttura drammaturgica impeccabile e coinvolgente, Clair confeziona una delle pellicole più importanti della sua carriera, puntando su un cast in stato di grazia e su una suspense che si fa sempre più palpabile col passare dei minuti. Raffinato ed elegantissimo, il film è illuminato dalla soave fotografia di Lucien N. Andriot, capace di creare un'atmosfera claustrofobica che sfiora anche il soprannaturale. Per lo spettatore è un gioco al quale è bellissimo partecipare. Il finale della pellicola è completamente diverso da quello del romanzo e prende spunto dalla commedia scritta dalla stessa Christie nel 1943. Vincitore del primo Pardo d'oro della storia del Festival di Locarno, nato proprio in quell'anno. Il primo capolavoro non si dimentica mai.
Assassinio sull’Orient Express, Sidney Lumet (1974)
1934, Istanbul. Il noto investigatore belga Hercule Poirot (Albert Finney) è diretto a Calais, ma durante la seconda notte il treno su cui viaggia resta bloccato tra le nevi: il ritrovamento di un uomo, ucciso a pugnalate dentro la sua cabina, spingerà il detective a risolvere il mistero. Il percorso dei film gialli che oggi considereremmo classici prosegue con la trasposizione di una delle migliori trame nate dalla penna di Agatha Christie, diretta stavolta dalla maestria raffinata di Sidney Lumet. Una magistrale direzione d'attori, scevra da smanie di protagonismo, enfatizzata da una sceneggiatura (firmata da Paul Dehn) che sfida e coinvolge lo spettatore, presentando tutti gli indizi in gioco per svelare la soluzione dell'enigma in anticipo su colui che indaga. Lumet dimostra di saper superare limiti oggettivi (gli stretti interstizi dei vagoni, non certo adatti per riprese di ampio respiro) e coglie l'occasione per puntare su primi piani indagatori e mistificatori, esaltando al tempo gli interni (corridoi e scompartimenti chiusi) al fine di evocare la suspense. Cast magistrale, registrato su una elegante autoironia: notevole Albert Finney, invecchiato ad hoc nel ruolo principale, e comprimari d'eccezione, con alcuni dei volti più importanti del cinema mondiale a offrire performance istrioniche. Oscar come migliore attrice non protagonista a Ingrid Bergman, nel ruolo di Greta. In un cast all-star, impossibile non citare anche Sean Connery, Anthony Perkins, Jacqueline Bisset, Vanessa Redgrave, Richard WIdmark e Lauren Bacall. Musiche di Richard Rodney Bennett. Alla prima londinese del film, oltre alla regina Elisabetta II, presenziò la stessa Christie, alla sua ultima apparizione in pubblico. Nel 2017 Kenneth Branagh si sarebbe cimentato a sua volta nell’adattamento dello stesso romanzo, sfornando un’opera pop ad alto impatto visivo, ma meno coinvolgente della versione di Lumet.
IL THRILLER LEGALE
Avvocati, giudici e pubblici ministeri contro criminali messi alla sbarra. Una delle primissime derive del genere giallo fu quella di uno dei sottogeneri più fortunati e prolifici della storia del cinema: il thriller legale, o giallo giudiziario. Al filone fanno sempre riferimento trame geniali ed intricate, connotate dalla medesima suspense dei gialli classici, ma stavolta gli investigatori rivestono un ruolo di secondo piano, dal momento che a risolvere o imbrigliare la situazione sono quasi sempre avvocati e testimoni d’eccezione. Il complesso funzionamento del sistema giuridico gioca ovviamente un ruolo principale e molto spesso si abbatte su imputati innocenti o estranei al crimine di cui sono accusati. L’obiettivo, alla fine, è sempre uno: la ricerca della verità.

La parola ai giurati, Sidney Lumet (1957)
Dodici giurati si ritirano per giudicare se un ragazzo di colore è colpevole dell'omicidio del padre. Sembrano tutti concordi nel condannarlo, tranne uno (Henry Fonda), che darà vita a un teso scontro dialettico per scongiurare ogni leggerezza in un compito così importante. I thriller giudiziari avevano già cominciato la loro invasione di Hollywood fin dagli anni Trenta, ma l’esordio alla regia cinematografica di Sidney Lumet mette tutti d’accordo su come vada gestito il cinema di stampo civile e morale, confezionando un’opera da camera (era già a suo agio con gli spazi stretti e angusti in cui far risaltare la tensione) che avrebbe fatto scuola. Prendendo spunto da un teledramma del 1954 scritto da Reginald Rose (sceneggiatore e coproduttore della pellicola), Lumet dirige i suoi 12 uomini arrabbiati (bellissimo il titolo originale) all’interno di un’atmosfera claustrofobica in cui poter risaltare i piani stretti e gli incroci di sguardi e opinioni di uomini identificati soltanto con dei numeri ma dotati di una prepotente ricchezza psicologica, lasciata emergere soprattutto dai loro atteggiamenti e dal mutare delle loro opinioni nel corso della storia. A reggere il gioco due istrioni di classe come Henry Fonda (anche coproduttore) e Lee J. Cobb, incredibili nel valorizzare una messa in scena asciutta e caratterizzata dal contrasto di luci e ombre. La macchina da presa inizia osservando dall'alto i suoi personaggi, per poi avvicinarsi rimarcando il passaggio da una percezione oggettiva a una sempre più intima. Vincitore di uno strameritato Orso d’oro al Festival di Berlino. Imprescindibile.
Testimone d’accusa, Billy Wilder (1957)
Nello stesso anno Billy Wilder, il più grande cineasta hollywoodiano dell’epoca, prese ispirazione da René Clair e si occupò a sua volta del delicato compito di trasporre un’opera di Agatha Christie: l’intento, a detta della stessa scrittrice, si traduce nel miglior film tratto da una sua opera. L’impianto narrativo, tanto semplice quanto sfuggente alle interpretazioni più realistiche, vede l’avvocato Wilfrid Roberts (Charles Laughton), reduce da un infarto, alle prese con un caso particolare: Leonard Vole (Tyrone Power), accusato di aver ucciso una ricca vedova, potrebbe essere scagionato dalla testimonianza della moglie tedesca (Marlene Dietrich), ma questa si rifiuta. Comincerà il processo e i colpi di scena saranno innumerevoli. Billy Wilder abbandona il registro della commedia sofisticata per riprendere in mano il genere giallo che in passato aveva più volte sfiorato (nel 1944 aveva confezionato La fiamma del peccato, capolavoro apripista di tanto cinema noir): il risultato è una pietra miliare del legal-thriller contemporaneo. Girato quasi completamente dentro l'aula del tribunale, Testimone d’accusa risulta ancora oggi un’opera dotata di un ritmo travolgente, un rigore quasi geometrico nella realizzazione della sceneggiatura e un leggerissimo senso dell'umorismo, che infila una serie di lame nell'ipocrisia della morale comune (in questo caso rappresentata dalla legge inglese, incapace di mettere le mani sulla verità). Una pellicola da godere col fiato sospeso fino allo spiazzante finale, retto da un grande cast e, in particolare, dall’interpretazione ipnotica di Marlene Dietrich.

Anatomia di un omicidio, Otto Preminger (1959)
L'avvocato Paul Biegler (James Stewart), dedito alla pesca dopo aver perso il posto di pubblico accusatore, viene convinto da Laura Manion (Lee Remick) a difendere il marito in tribunale: quest'ultimo (Ben Gazzara) ha ucciso Barney Quill, l'uomo che ha violentato sua moglie, prima di costituirsi allo sceriffo locale. Per Biegler l'unica strategia possibile sarà quella di puntare sulle condizioni mentali del suo cliente al momento dell'omicidio. Tratto dall'omonimo best seller di Robert Traver (uscito nel 1958) e magnificamente adattato dallo sceneggiatore Wendell Mayes, Anatomia di un omicidio è uno dei più importanti film giudiziari della storia del cinema e in assoluto una delle vette del viennese Otto Preminger. Scandito dalla musica jazz di Duke Ellington (che regala anche un delizioso cameo), il film è un perfetto meccanismo a orologeria, accattivante fin dai celebri titoli di testa di Saul Bass e contrassegnato da un ritmo incessante dal primo all'ultimo minuto, che tocca il suo apice nella straordinaria sfida verbale tra il personaggio di James Stewart e i due avvocati dell'accusa. Come molte opere di Preminger, è anche un film particolarmente coraggioso e innovativo: i riferimenti allo stupro, i dettagli scabrosi dell’omicidio e la parola “mutandine” diedero scandalo al momento dell'uscita, tanto da venire attaccato dalle frange più puritane dell'America dell'epoca. Memorabile performance di James Stewart che ottenne una delle sette nomination (tra cui quella per il miglior film) agli Oscar della pellicola. Non vinse neanche una statuetta: per l'Academy della fine degli anni '50 il film trattava temi troppo delicati e gli venne preferito il ben più tradizionale Ben Hur di William Wyler.
GIALLO ALL'ITALIANA
Sporco, macabro, erotico e con derive tipiche del cinema dell’orrore. Il fortunato filone di gialli italiani sviluppatosi tra gli anni Sessanta e Settanta ha convinto ed eccitato il pubblico del Belpaese e non solo, formando un’intera generazione di giovani registi che, aiutati da maestri esperti, hanno confezionato film carichi di suspense e fascino, tali da meritarsi l’appellativo di cult e da influenzare decine di cineasti che avrebbero guardato al modello italiano come baluardo del cinema giallo. Si tratta di uno degli spartiacque fondamentali nella storia del cinema italiano: il momento decisivo in cui affrontare ed esorcizzare tanti spettri di un Paese che, fino alla fine degli anni Cinquanta, si era illuso di poter continuare a vivere nell’ipocrisia perbenista.

Sei donne per l’assassino, Mario Bava (1964)
Un anno dopo aver fatto conoscere al mondo quello che sarebbe stato etichettato come il capostipite del giallo all’italiana, La ragazza che sapeva troppo, a metà anni Sessanta Mario Bava, maestro del cinema horror e apprezzato punto di riferimento per una lunga serie di registi (chiedere a Scorsese, Burton, Tarantino e via dicendo), decide di imporre una precisa scaletta e delle caratteristiche ben definite all’immaginario thriller. L’assassino con l’impermeabile scuro, guanti e cappello, le soggettive del killer stesso, scene dei delitti elaborate e particolarmente cruente, musiche travolgenti e anche del sano erotismo: tutti canoni che avrebbero fatto scuola. Al centro della storia, l’omicidio di una modella all’interno di un atelier di moda per mano di un enigmatico assassino mascherato. Nonostante le indagini dell'ispettor Silvestri, altre morti violente si susseguono, e una cortina di sospetto e intrighi pervade tutte le persone coinvolte dai fatti. Un elegante e sadico thriller in cui Bava trasferisce e codifica i nuovi elementi del giallo moderno, soffermandosi sulla raffigurazione violenta delle uccisioni seriali con una fantasia e una crudezza forse non percepibile, oggigiorno, da occhi assuefatti all'estetica noir moderna, ma assolutamente innovative e spiazzanti per le coordinate disponibili negli anni '60.
L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento (1970)
Con l’avanzare degli anni Settanta la nuova generazione guidata da Bava sperimenta ed introduce elementi innovativi e, soprattutto, di forte impatto visivo: si tratta del Rinascimento del giallo all’italiana e della rappresentazione più macabra e spettacolare della morte mai stata fatta prima nel cinema italiano. In particolare, Dario Argento esordisce ufficialmente dietro la macchina da presa, utilizzando la stessa formula di Bava ma modernizzando lo stile: nulla sarà più come prima. Al debutto, Argento confeziona un thriller serrato e angosciante, intriso di violenza e contaminato da un umorismo beffardo che aumenta la tensione invece di stemperarla. Al centro della vicenda c’è Sam Dalmas (Tony Musante), scrittore americano trasferitosi a Roma per recuperare l'ispirazione, assiste al tentato assassinio di Monica Ranieri (Eva Renzi). Coinvolto nelle indagini dal commissario Morosini (Enrico Maria Salerno), metterà in pericolo la sua vita e quella della compagna Giulia (Suzy Kendall). Primo episodio della “Trilogia degli animali” (seguiranno Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio, entrambi del 1971), ispirato al romanzo La statua che urla di Fredric Brown, il film gode di una sceneggiatura fluida e trascinante, di una tecnica sorprendente (soprattutto nelle sequenze degli omicidi) e lancia il tormentone tipicamente argentiano del “particolare che sfugge”, espediente narrativo su cui si regge la vicenda. Memorabili le soggettive del serial killer che si avvicina alle prede e gli incalzanti frame dei ricordi di Dalmas. Fotografia di Vittorio Storaro, musiche di Ennio Morricone. L’uccello dalle piume di cristallo avrebbe inoltre spianato la strada all’immaginario sanguinolento di Dario Argento, che a metà decennio avrebbe dato vita al crocevia fondamentale della sua filmografia: Profondo rosso.
GIALLI DA RIDERE
Esilaranti, surreali, caotici e comunque pieni zeppi di tensione. I film gialli comici sono un autentico toccasana per chi ha bisogno di essere intrattenuto e assistere a una trama avvincente, senza però mettere da parte la leggerezza ed il giusto umorismo. Le pellicole che hanno parodiato il genere giallo sono tantissime e il sottogenere ha avuto inizio parecchio tempo fa. Già nel 1924 Buster Keaton ricalcava le orme di un novello Sherlock Holmes a suon di gag esilaranti nel capolavoro assoluto della storia del cinema La palla n° 13 (Sherlock Jr.). Successivamente, con l’avvento delle grandi produzioni di film gialli i più geniali fra gli autori comici hanno sfruttato le regole dei classici thriller per realizzare veri e propri capolavori di tensione, davanti ai quali l’unico delitto è non ridere.
Uno sparo nel buio, Blake Edwards (1964)
L'ispettore Clouseau (Peter Sellers) si ritrova a indagare su una serie di omicidi che apparentemente sembrano condurre tutti a Maria Gambrelli (Elke Sommer), domestica del ricco monsieur Ballon (George Sanders). Ma le cose non sono come sembrano: gag ed equivoci a non finire. Secondo capitolo della saga che vede come protagonista lo strampalato ispettore Clouseau, Uno sparo nel buio riesce nel difficile compito di bissare il successo del film precedente, La Pantera Rosa (1963) sempre del maestro Blake Edwards, grazie all'impeccabile confezione (fotografia di Christopher Challis, musiche di Henry Mancini) e a un ritmo indiavolato che incrementa le trovate comiche e le situazioni squisitamente nonsense rispetto al primo capitolo, caratterizzato da un intreccio più sofisticato ma, a tratti, meno divertente. Straripante presenza scenica di Peter Sellers, all'apice del suo furore artistico. Nonostante si tratti del capitolo di una serie cinematografica, il film risulta un esempio paradigmatico di pelicola d'intrattenimento tipicamente Sixties, nel suo riuscitissimo mix di humor e mystery con godibili incursioni nella commedia sentimentale. Compaiono per la prima volta due personaggi che riscuoteranno grande successo nella saga: il maggiordomo sui generis Kato (Burt Kwouk) e il commissario Dreyfus (Herbert Lom), "nemesi" dell'amabile protagonista. Inizialmente concepita come un progetto a sé stante basato sulla commedia teatrale francese L'Idiote di Marcel Achard, la pellicola si configurò come il secondo episodio della serie in seguito al clamoroso successo del capostipite. Un’eccellenza del (sotto) genere.
Invito a cena con delitto, Robert Moore (1976)
L'eccentrico miliardario Lionel Twain (Truman Capote) invita nella propria villa i cinque più famosi detective del mondo, per metterli alla prova in un curioso gioco: un delitto sta per consumarsi tra le mura della casa, e starà all'abilità dei professionisti del crimine scoprire il misterioso colpevole, evitando insidie e trabocchetti per aggiudicarsi un milione di dollari di premio. Gustosa parodia del genere giallo, impreziosita da istrioniche caricature di altrettanti personaggi di detective dalla provenienza letteraria, Invito a cena con delitto è un interessante quanto innocuo meccanismo di comicità, costruito sulla base di una sceneggiatura di Neil Simon a sua volta ispirata alla trama del romanzo Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Intrattenimento frizzante, arguto e ben congegnato, quanto fine a se stesso, il film vanta un corposo cast nel quale spiccano un Peter Sellers celato sotto i bizzarri panni del petulante investigatore cinese Sidney Wang (emulo del Charlie Chan protagonista dei romanzi di Earl Derr Biggers), Peter Falk ispirato all'Humphrey Bogart interprete del personaggio di Sam Spade, protagonista de Il mistero del falco (1941) di John Huston, e James Coco impegnato in una chiara parodia dell'Hercule Poirot creato dalla Christie. Una giostra di gag, situazioni e dialoghi surreali, ben strutturata ma macchinosa specie nella seconda parte, quando il gusto giocoso assume toni esagerati ed eccessivamente canzonatori. Completano il cast David Niven (Dick Charleston) e un surreale Alec Guinness nei bizzarri panni di un maggiordomo cieco. Colonna sonora di Dave Grusin.

Hot Fuzz, Edgar Wright (2007)
Nicholas Angel (Simon Pegg) è un poliziotto londinese modello e secchione che, a causa dei colleghi invidiosi, viene trasferito nella soporifera campagna del Gloucestershire. Tuttavia, una serie di omicidi efferati spacciati per incidenti romperà la monotonia agreste: Nicholas è chiamato a indagare insieme al grassoccio e imbranato collega Danny (Nick Frost). Dopo L’alba dei morti dementi del 2004, parodia del cinema horror, Edgar Wright richiama a sé gli stessi protagonisti (Pegg e Frost) per il secondo capitolo della “Trilogia del cornetto” (che si concluderà nel 2013 con La fine del mondo), per omaggiare in chiave comica il giallo e il poliziesco. Hot Fuzz è una commedia sfrenata e sfrontata, colma di geniale irriverenza e di uno spiccato humor inglese rivisitato, all’interno della quale giallo, azione e scontri a fuoco in salsa western si alternano a cento all’ora, ritmati dal frenetico andazzo tanto caro al regista. In mezzo a tutto questo, c’è anche spazio per una trama ben congegnata in cui, tra omicidi grotteschi, ognuno è sospettato. Agatha Christie insegna sempre e Wright sembra essere uno dei suoi alunni più originali.
I KILLER DI FINE SECOLO
Verso la fine del XX secolo il genere è stato affrontato ormai tante, tantissime volte. È stato rimaneggiato, smontato e ricostruito, lasciandolo con ben poco da dire ancora. Eppure, nel bel mezzo degli anni Novanta trova nuova linfa e, in particolare, due pellicole rendono onore alla sempre ottima struttura del killer inafferrabile che sta un passo davanti al detective di turno. Si tratta di un assassino che provoca, uccide per puro gusto e vuole il suo nome sulla bocca di tutti. È un killer del tutto nuovo, con così tanta voglia di farsi conoscere che si fa persino acchiappare apposta. Molta la violenza, la sfrontatezza e, soprattutto, la confusione dello spettatore. Ma il risultato finale si traduce sempre in grande cinema.
Seven, David Fincher (1995)
A sette giorni dalla pensione, il cinico e disincantato detective William Somerset (Morgan Freeman), affiancato dal giovane e avventato Davis Mills (Brad Pitt), deve indagare su un serial killer che sceglie le sue vittime seguendo la lista dei sette peccati capitali. Si viene a delineare un diabolico piano che sconvolgerà la vita dei due poliziotti. Al suo secondo film, David Fincher costruisce un thriller al contempo derivativo e sorprendentemente originale, cupo e nichilista. Seven riesce a distanziarsi dai suoi modelli di riferimento e a operare in maniera personale nella ridefinizione del genere. Il Male ci viene presentato come un'entità radicata nel tessuto sociale, un elemento peculiare della quotidianità, indefinito e mimetizzato (non a caso il serial killer usa il nome John Doe, l'uomo senza identità) ma non per questo meno feroce e sconvolgente. La grande forza del film sta in una messa in scena che accentua la componente più espressionista, giocando su tonalità cromatiche caricate (grazie alla splendida fotografia di Darius Khondji) e su un montaggio serratissimo (di Richard Francis-Bruce, nominato all'Oscar) che restituisce un profondo senso di angoscia, inquietudine e decadenza. Ma non meno meriti ha l'ottimo script di Andrew Kevin Walker che, muovendosi tra raffinate citazioni letterarie e suggestioni filosofiche, riesce sempre a spiazzare e coinvolgere, raggiungendo il suo apice in un finale tragico e indimenticabile. Strepitoso successo di pubblico e critica.

I soliti sospetti, Bryan Singer (1995)
Portati in commissariato per un'identificazione, cinque criminali – Verbal Kint (Kevin Spacey), Dean Keaton (Gabriel Byrne), Fenster (Benicio Del Toro), Todd Hockney (Kevin Pollak) e Ray McManus (Stephen Baldwin) – si mettono d'accordo per mettere a segno un grande colpo. Dietro di loro, però, c'è sempre l'ombra di Kaiser Soze, misterioso genio criminale che riesce a manipolarli a suo piacimento. Diventato presto un cult del cinema americano, I soliti sospetti è il secondo lungometraggio firmato da Bryan Singer dopo Public Access (1993). Il giovane regista porta sul grande schermo un intricato intreccio che entusiasma e tiene lo spettatore con il fiato sospeso, riuscendo a creare notevoli aspettative. Fulcro assoluto della pellicola è l'efficace descrizione di Keyser Soze, personaggio quasi demoniaco, la cui crudeltà ed efferatezza vengono trasmesse senza mai mostrarne il volto: entità intangibile e inafferrabile, mezzo per esaltare un'inquietudine quasi angosciante, stigmatizzata da una fotografia soffusa e patinata (firmata da Newton Thomas Sigel), ricca di luci soffocate, e da un’ambientazione sporca, periferica e pericolosa, tipicamente noir. Ma è lo script a rivelarsi fondamentale, mettendo in scena una vicenda contorta che, durante il suo svolgimento, si snoda con facilità e semplicità disarmanti: ne è esempio calzante la lunga conversazione tra l'ispettore di polizia e Verbal Kint, nella quale ogni singola parola pronunciata dai due personaggi ha un suo significato. Ottima prove attoriali: funzionale Gabriel Bryne, straordinario Kevin Spacey (vincitore di un Oscar come miglior attore non protagonista), che interpreta con grande profondità un ruolo non semplice. Un'altra statuetta alla sceneggiatura originale di Christoper McQuarrie. Presentato fuori concorso al 48° Festival di Cannes.
LE RIVISITAZIONI DEL NUOVO MILLENNIO: IL POTERE DELLA MEMORIA
Per finire la nostra rassegna su alcuni dei migliori gialli al cinema, ci affidiamo a due dei thriller più evocativi portati sul grande schermo negli ultimi vent’anni. Entrambi sono legati da un filo comune: il tempo che passa e il potere dei ricordi sulle vicende degli uomini. Stavolta l’assassino, se davvero c’è e se davvero è colpevole, non è l’antagonista principale. I protagonisti sono i veri nemici di loro stessi, alle prese con incapacità a vivere o a relazionarsi: corrono dietro a un presunto colpevole per non affrontare i loro veri problemi. Alla fine, ciò che resta, sono i ricordi e la speranza di non poterli alterare.

Memento, Christopher Nolan (2000)
Leonard Shelby (Guy Pearce), in seguito a un'aggressione, sviluppa un'amnesia a breve termine, cui cerca di soprassedere prendendo note e sollecitazioni un po' ovunque, persino sul suo corpo. Dopo Following (1998), Christopher Nolan firma l'opera che ne ha rivelato al mondo il talento muscolare e visionario, nonché la capacità di abbinare a una sensazionale riscrittura delle regole del cinema di genere un efficace approccio intellettuale e autoriale. Un dramma interiore significativamente intrecciato a una negoziazione libera e mai schematica dei procedimenti narratologici, che indaga le paranoie di un individuo attraverso un uso frastagliato e non convenzionale del montaggio, suddiviso in due macro-aree non sequenziali dal punto di vista narrativo (la prima scena e l'ultima, la seconda e la penultima, e così via). I segmenti del racconto si susseguono pertanto l'uno all'altro in forma volutamente sfalsata, creando simmetrie, suggestioni e parallelismi tutti da ricomporre e favorendo l'immedesimazione nelle traversie psichiche di Leonard. Allo spettatore, chiamato in causa attivamente, il ruolo di dipanare una matassa così intricata, tra depistaggi e un uso centrale del bianco e nero fortemente espressivo. All'alba del nuovo millennio cinematografico, forte di un'ambizione senza freni palese già nei suoi progetti più piccoli e ovviamente privi degli steroidi dei blockbuster successivi, Nolan ha una fiducia spassionata nella ricezione di chi guarda e lo costringe a un tour de force cervellotico, sfiancante ma, una volta penetrato con cognizione di causa, anche galvanizzante ed elettrizzante.
Il segreto dei suoi occhi, Juan José Campanella (2009)
Dopo essere andato in pensione, l'agente Benjamín Esposito (Ricardo Darín) scrive un romanzo su un caso che l'aveva colpito in gioventù: il brutale omicidio della giovane Lilliana (Carla Quevedo), una storia dolorosa e complessa che vede coinvolto il disperato marito della donna (Pablo Rago) e il sospetto assassino (Javier Godino). Come molti colleghi sudamericani prima di lui, l'argentino Juan José Campanella parte da una vicenda specifica per allargare lo sguardo, utilizzandola come metafora non troppo implicita delle condizioni socio-politiche del suo paese. Ma la pellicola, premiata con l’Oscar al miglior film straniero nel 2010, è anche l’intimo racconto dei rimpianti di un uomo rimasto ancorato per anni al suo passato. Raccontato con una serie di flashback, relativi all'assassinio di Lilliana e alle conseguenti indagini, il film ripercorre la viglia della dittatura di Videla, mettendo al centro della trama lo scontro tra un federale (il protagonista) e le alte cariche desiderose di ostacolarne l'operato. Di ottima fattura, equilibrato nell'unire gli elementi noir a quelli più pertinenti al thriller politico, il film viene ricordato anche e soprattutto per un’incredibile sequenza autoriale difficile da dimenticare, il lungo piano-sequenza nello stadio in cui Esposito e Morales inseguono Gómez.
Nicolò Palmieri

I racconti gialli hanno goduto fin da subito di un apprezzamento generale talmente forte da permettere molteplici trasposizioni cinematografiche: a partire dagli anni Trenta del Novecento hanno cominciato a invadere le sale, generando un solido rapporto col pubblico che dura ancora oggi. Grazie alla permeabilità del genere e alle diverse tematiche toccate, si sono succedute, nel corso dei decenni, svariate derivazioni che hanno permesso la nascita di altrettanti sottogeneri: dai film gialli classici ai noir metropolitani, dal thriller d’azione al thriller legale, dai polizieschi ai film di spionaggio e così via.
Proviamo a fare chiarezza e passare in rassegna alcune pellicole decisive che, nel corso della storia del cinema, hanno saputo omaggiare il genere giallo e, talvolta, stravolgerlo e arricchirlo.
LA SIGNORA DEL GIALLO
La nostra ricerca non può che partire dall’autrice che, più di ogni altro, ha ispirato e influenzato il modo di scrivere i racconti gialli: Agatha Christie. La scrittrice inglese più tradotta di sempre, seconda solo a William Shakespeare, si è guadagnata nel corso della sua incredibile carriera l’appellativo di regina del crimine. Attraverso i suoi numerosi romanzi gialli Christie ha instaurato quella che ancora oggi viene considerata la struttura misteriosa per eccellenza: è stato commesso un omicidio, vi sono più sospettati che nascondono dei segreti, il detective scopre gradualmente alcune verità nel corso della storia per poi rivelare la sconvolgente risoluzione verso la fine. Il tutto condito da personaggi eleganti, investigatori eccezionali quali Hercule Poirot e Miss Marple, dialoghi eccelsi e una fascinazione per il crimine (quasi) perfetto. Un repertorio del genere era destinato naturalmente al successo cinematografico. I film tratti dalle sue opere sono tantissimi. In particolare, però, tre pellicole riassumono particolarmente bene la forza dei grandi classici gialli sprigionata dal cinema. Vediamo le prime due.

Dieci piccoli indiani, René Clair (1945)
L’industria cinematografica aveva iniziato ad adattare i romanzi di Agatha Christie già a partire dalla fine degli anni Venti. Ci volle però una super produzione hollywoodiana e un regista di grande spessore per permettere la trasposizione di quello che è forse il romanzo più celebre della scrittrice inglese: Dieci piccoli indiani, pubblicato nel 1939. L’omonimo film di René Clair (l’ultimo dei quattro che il leggendario regista francese girò a Hollywood) mantiene lo spirito del testo di partenza, valorizzato da quell'umorismo macabro spesso presente nelle pagine della Christie. Attraverso una struttura drammaturgica impeccabile e coinvolgente, Clair confeziona una delle pellicole più importanti della sua carriera, puntando su un cast in stato di grazia e su una suspense che si fa sempre più palpabile col passare dei minuti. Raffinato ed elegantissimo, il film è illuminato dalla soave fotografia di Lucien N. Andriot, capace di creare un'atmosfera claustrofobica che sfiora anche il soprannaturale. Per lo spettatore è un gioco al quale è bellissimo partecipare. Il finale della pellicola è completamente diverso da quello del romanzo e prende spunto dalla commedia scritta dalla stessa Christie nel 1943. Vincitore del primo Pardo d'oro della storia del Festival di Locarno, nato proprio in quell'anno. Il primo capolavoro non si dimentica mai.
Assassinio sull’Orient Express, Sidney Lumet (1974)
1934, Istanbul. Il noto investigatore belga Hercule Poirot (Albert Finney) è diretto a Calais, ma durante la seconda notte il treno su cui viaggia resta bloccato tra le nevi: il ritrovamento di un uomo, ucciso a pugnalate dentro la sua cabina, spingerà il detective a risolvere il mistero. Il percorso dei film gialli che oggi considereremmo classici prosegue con la trasposizione di una delle migliori trame nate dalla penna di Agatha Christie, diretta stavolta dalla maestria raffinata di Sidney Lumet. Una magistrale direzione d'attori, scevra da smanie di protagonismo, enfatizzata da una sceneggiatura (firmata da Paul Dehn) che sfida e coinvolge lo spettatore, presentando tutti gli indizi in gioco per svelare la soluzione dell'enigma in anticipo su colui che indaga. Lumet dimostra di saper superare limiti oggettivi (gli stretti interstizi dei vagoni, non certo adatti per riprese di ampio respiro) e coglie l'occasione per puntare su primi piani indagatori e mistificatori, esaltando al tempo gli interni (corridoi e scompartimenti chiusi) al fine di evocare la suspense. Cast magistrale, registrato su una elegante autoironia: notevole Albert Finney, invecchiato ad hoc nel ruolo principale, e comprimari d'eccezione, con alcuni dei volti più importanti del cinema mondiale a offrire performance istrioniche. Oscar come migliore attrice non protagonista a Ingrid Bergman, nel ruolo di Greta. In un cast all-star, impossibile non citare anche Sean Connery, Anthony Perkins, Jacqueline Bisset, Vanessa Redgrave, Richard WIdmark e Lauren Bacall. Musiche di Richard Rodney Bennett. Alla prima londinese del film, oltre alla regina Elisabetta II, presenziò la stessa Christie, alla sua ultima apparizione in pubblico. Nel 2017 Kenneth Branagh si sarebbe cimentato a sua volta nell’adattamento dello stesso romanzo, sfornando un’opera pop ad alto impatto visivo, ma meno coinvolgente della versione di Lumet.
IL THRILLER LEGALE
Avvocati, giudici e pubblici ministeri contro criminali messi alla sbarra. Una delle primissime derive del genere giallo fu quella di uno dei sottogeneri più fortunati e prolifici della storia del cinema: il thriller legale, o giallo giudiziario. Al filone fanno sempre riferimento trame geniali ed intricate, connotate dalla medesima suspense dei gialli classici, ma stavolta gli investigatori rivestono un ruolo di secondo piano, dal momento che a risolvere o imbrigliare la situazione sono quasi sempre avvocati e testimoni d’eccezione. Il complesso funzionamento del sistema giuridico gioca ovviamente un ruolo principale e molto spesso si abbatte su imputati innocenti o estranei al crimine di cui sono accusati. L’obiettivo, alla fine, è sempre uno: la ricerca della verità.

La parola ai giurati, Sidney Lumet (1957)
Dodici giurati si ritirano per giudicare se un ragazzo di colore è colpevole dell'omicidio del padre. Sembrano tutti concordi nel condannarlo, tranne uno (Henry Fonda), che darà vita a un teso scontro dialettico per scongiurare ogni leggerezza in un compito così importante. I thriller giudiziari avevano già cominciato la loro invasione di Hollywood fin dagli anni Trenta, ma l’esordio alla regia cinematografica di Sidney Lumet mette tutti d’accordo su come vada gestito il cinema di stampo civile e morale, confezionando un’opera da camera (era già a suo agio con gli spazi stretti e angusti in cui far risaltare la tensione) che avrebbe fatto scuola. Prendendo spunto da un teledramma del 1954 scritto da Reginald Rose (sceneggiatore e coproduttore della pellicola), Lumet dirige i suoi 12 uomini arrabbiati (bellissimo il titolo originale) all’interno di un’atmosfera claustrofobica in cui poter risaltare i piani stretti e gli incroci di sguardi e opinioni di uomini identificati soltanto con dei numeri ma dotati di una prepotente ricchezza psicologica, lasciata emergere soprattutto dai loro atteggiamenti e dal mutare delle loro opinioni nel corso della storia. A reggere il gioco due istrioni di classe come Henry Fonda (anche coproduttore) e Lee J. Cobb, incredibili nel valorizzare una messa in scena asciutta e caratterizzata dal contrasto di luci e ombre. La macchina da presa inizia osservando dall'alto i suoi personaggi, per poi avvicinarsi rimarcando il passaggio da una percezione oggettiva a una sempre più intima. Vincitore di uno strameritato Orso d’oro al Festival di Berlino. Imprescindibile.
Testimone d’accusa, Billy Wilder (1957)
Nello stesso anno Billy Wilder, il più grande cineasta hollywoodiano dell’epoca, prese ispirazione da René Clair e si occupò a sua volta del delicato compito di trasporre un’opera di Agatha Christie: l’intento, a detta della stessa scrittrice, si traduce nel miglior film tratto da una sua opera. L’impianto narrativo, tanto semplice quanto sfuggente alle interpretazioni più realistiche, vede l’avvocato Wilfrid Roberts (Charles Laughton), reduce da un infarto, alle prese con un caso particolare: Leonard Vole (Tyrone Power), accusato di aver ucciso una ricca vedova, potrebbe essere scagionato dalla testimonianza della moglie tedesca (Marlene Dietrich), ma questa si rifiuta. Comincerà il processo e i colpi di scena saranno innumerevoli. Billy Wilder abbandona il registro della commedia sofisticata per riprendere in mano il genere giallo che in passato aveva più volte sfiorato (nel 1944 aveva confezionato La fiamma del peccato, capolavoro apripista di tanto cinema noir): il risultato è una pietra miliare del legal-thriller contemporaneo. Girato quasi completamente dentro l'aula del tribunale, Testimone d’accusa risulta ancora oggi un’opera dotata di un ritmo travolgente, un rigore quasi geometrico nella realizzazione della sceneggiatura e un leggerissimo senso dell'umorismo, che infila una serie di lame nell'ipocrisia della morale comune (in questo caso rappresentata dalla legge inglese, incapace di mettere le mani sulla verità). Una pellicola da godere col fiato sospeso fino allo spiazzante finale, retto da un grande cast e, in particolare, dall’interpretazione ipnotica di Marlene Dietrich.

Anatomia di un omicidio, Otto Preminger (1959)
L'avvocato Paul Biegler (James Stewart), dedito alla pesca dopo aver perso il posto di pubblico accusatore, viene convinto da Laura Manion (Lee Remick) a difendere il marito in tribunale: quest'ultimo (Ben Gazzara) ha ucciso Barney Quill, l'uomo che ha violentato sua moglie, prima di costituirsi allo sceriffo locale. Per Biegler l'unica strategia possibile sarà quella di puntare sulle condizioni mentali del suo cliente al momento dell'omicidio. Tratto dall'omonimo best seller di Robert Traver (uscito nel 1958) e magnificamente adattato dallo sceneggiatore Wendell Mayes, Anatomia di un omicidio è uno dei più importanti film giudiziari della storia del cinema e in assoluto una delle vette del viennese Otto Preminger. Scandito dalla musica jazz di Duke Ellington (che regala anche un delizioso cameo), il film è un perfetto meccanismo a orologeria, accattivante fin dai celebri titoli di testa di Saul Bass e contrassegnato da un ritmo incessante dal primo all'ultimo minuto, che tocca il suo apice nella straordinaria sfida verbale tra il personaggio di James Stewart e i due avvocati dell'accusa. Come molte opere di Preminger, è anche un film particolarmente coraggioso e innovativo: i riferimenti allo stupro, i dettagli scabrosi dell’omicidio e la parola “mutandine” diedero scandalo al momento dell'uscita, tanto da venire attaccato dalle frange più puritane dell'America dell'epoca. Memorabile performance di James Stewart che ottenne una delle sette nomination (tra cui quella per il miglior film) agli Oscar della pellicola. Non vinse neanche una statuetta: per l'Academy della fine degli anni '50 il film trattava temi troppo delicati e gli venne preferito il ben più tradizionale Ben Hur di William Wyler.
GIALLO ALL'ITALIANA
Sporco, macabro, erotico e con derive tipiche del cinema dell’orrore. Il fortunato filone di gialli italiani sviluppatosi tra gli anni Sessanta e Settanta ha convinto ed eccitato il pubblico del Belpaese e non solo, formando un’intera generazione di giovani registi che, aiutati da maestri esperti, hanno confezionato film carichi di suspense e fascino, tali da meritarsi l’appellativo di cult e da influenzare decine di cineasti che avrebbero guardato al modello italiano come baluardo del cinema giallo. Si tratta di uno degli spartiacque fondamentali nella storia del cinema italiano: il momento decisivo in cui affrontare ed esorcizzare tanti spettri di un Paese che, fino alla fine degli anni Cinquanta, si era illuso di poter continuare a vivere nell’ipocrisia perbenista.

Sei donne per l’assassino, Mario Bava (1964)
Un anno dopo aver fatto conoscere al mondo quello che sarebbe stato etichettato come il capostipite del giallo all’italiana, La ragazza che sapeva troppo, a metà anni Sessanta Mario Bava, maestro del cinema horror e apprezzato punto di riferimento per una lunga serie di registi (chiedere a Scorsese, Burton, Tarantino e via dicendo), decide di imporre una precisa scaletta e delle caratteristiche ben definite all’immaginario thriller. L’assassino con l’impermeabile scuro, guanti e cappello, le soggettive del killer stesso, scene dei delitti elaborate e particolarmente cruente, musiche travolgenti e anche del sano erotismo: tutti canoni che avrebbero fatto scuola. Al centro della storia, l’omicidio di una modella all’interno di un atelier di moda per mano di un enigmatico assassino mascherato. Nonostante le indagini dell'ispettor Silvestri, altre morti violente si susseguono, e una cortina di sospetto e intrighi pervade tutte le persone coinvolte dai fatti. Un elegante e sadico thriller in cui Bava trasferisce e codifica i nuovi elementi del giallo moderno, soffermandosi sulla raffigurazione violenta delle uccisioni seriali con una fantasia e una crudezza forse non percepibile, oggigiorno, da occhi assuefatti all'estetica noir moderna, ma assolutamente innovative e spiazzanti per le coordinate disponibili negli anni '60.
L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento (1970)
Con l’avanzare degli anni Settanta la nuova generazione guidata da Bava sperimenta ed introduce elementi innovativi e, soprattutto, di forte impatto visivo: si tratta del Rinascimento del giallo all’italiana e della rappresentazione più macabra e spettacolare della morte mai stata fatta prima nel cinema italiano. In particolare, Dario Argento esordisce ufficialmente dietro la macchina da presa, utilizzando la stessa formula di Bava ma modernizzando lo stile: nulla sarà più come prima. Al debutto, Argento confeziona un thriller serrato e angosciante, intriso di violenza e contaminato da un umorismo beffardo che aumenta la tensione invece di stemperarla. Al centro della vicenda c’è Sam Dalmas (Tony Musante), scrittore americano trasferitosi a Roma per recuperare l'ispirazione, assiste al tentato assassinio di Monica Ranieri (Eva Renzi). Coinvolto nelle indagini dal commissario Morosini (Enrico Maria Salerno), metterà in pericolo la sua vita e quella della compagna Giulia (Suzy Kendall). Primo episodio della “Trilogia degli animali” (seguiranno Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio, entrambi del 1971), ispirato al romanzo La statua che urla di Fredric Brown, il film gode di una sceneggiatura fluida e trascinante, di una tecnica sorprendente (soprattutto nelle sequenze degli omicidi) e lancia il tormentone tipicamente argentiano del “particolare che sfugge”, espediente narrativo su cui si regge la vicenda. Memorabili le soggettive del serial killer che si avvicina alle prede e gli incalzanti frame dei ricordi di Dalmas. Fotografia di Vittorio Storaro, musiche di Ennio Morricone. L’uccello dalle piume di cristallo avrebbe inoltre spianato la strada all’immaginario sanguinolento di Dario Argento, che a metà decennio avrebbe dato vita al crocevia fondamentale della sua filmografia: Profondo rosso.
GIALLI DA RIDERE
Esilaranti, surreali, caotici e comunque pieni zeppi di tensione. I film gialli comici sono un autentico toccasana per chi ha bisogno di essere intrattenuto e assistere a una trama avvincente, senza però mettere da parte la leggerezza ed il giusto umorismo. Le pellicole che hanno parodiato il genere giallo sono tantissime e il sottogenere ha avuto inizio parecchio tempo fa. Già nel 1924 Buster Keaton ricalcava le orme di un novello Sherlock Holmes a suon di gag esilaranti nel capolavoro assoluto della storia del cinema La palla n° 13 (Sherlock Jr.). Successivamente, con l’avvento delle grandi produzioni di film gialli i più geniali fra gli autori comici hanno sfruttato le regole dei classici thriller per realizzare veri e propri capolavori di tensione, davanti ai quali l’unico delitto è non ridere.
Uno sparo nel buio, Blake Edwards (1964)
L'ispettore Clouseau (Peter Sellers) si ritrova a indagare su una serie di omicidi che apparentemente sembrano condurre tutti a Maria Gambrelli (Elke Sommer), domestica del ricco monsieur Ballon (George Sanders). Ma le cose non sono come sembrano: gag ed equivoci a non finire. Secondo capitolo della saga che vede come protagonista lo strampalato ispettore Clouseau, Uno sparo nel buio riesce nel difficile compito di bissare il successo del film precedente, La Pantera Rosa (1963) sempre del maestro Blake Edwards, grazie all'impeccabile confezione (fotografia di Christopher Challis, musiche di Henry Mancini) e a un ritmo indiavolato che incrementa le trovate comiche e le situazioni squisitamente nonsense rispetto al primo capitolo, caratterizzato da un intreccio più sofisticato ma, a tratti, meno divertente. Straripante presenza scenica di Peter Sellers, all'apice del suo furore artistico. Nonostante si tratti del capitolo di una serie cinematografica, il film risulta un esempio paradigmatico di pelicola d'intrattenimento tipicamente Sixties, nel suo riuscitissimo mix di humor e mystery con godibili incursioni nella commedia sentimentale. Compaiono per la prima volta due personaggi che riscuoteranno grande successo nella saga: il maggiordomo sui generis Kato (Burt Kwouk) e il commissario Dreyfus (Herbert Lom), "nemesi" dell'amabile protagonista. Inizialmente concepita come un progetto a sé stante basato sulla commedia teatrale francese L'Idiote di Marcel Achard, la pellicola si configurò come il secondo episodio della serie in seguito al clamoroso successo del capostipite. Un’eccellenza del (sotto) genere.
Invito a cena con delitto, Robert Moore (1976)
L'eccentrico miliardario Lionel Twain (Truman Capote) invita nella propria villa i cinque più famosi detective del mondo, per metterli alla prova in un curioso gioco: un delitto sta per consumarsi tra le mura della casa, e starà all'abilità dei professionisti del crimine scoprire il misterioso colpevole, evitando insidie e trabocchetti per aggiudicarsi un milione di dollari di premio. Gustosa parodia del genere giallo, impreziosita da istrioniche caricature di altrettanti personaggi di detective dalla provenienza letteraria, Invito a cena con delitto è un interessante quanto innocuo meccanismo di comicità, costruito sulla base di una sceneggiatura di Neil Simon a sua volta ispirata alla trama del romanzo Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Intrattenimento frizzante, arguto e ben congegnato, quanto fine a se stesso, il film vanta un corposo cast nel quale spiccano un Peter Sellers celato sotto i bizzarri panni del petulante investigatore cinese Sidney Wang (emulo del Charlie Chan protagonista dei romanzi di Earl Derr Biggers), Peter Falk ispirato all'Humphrey Bogart interprete del personaggio di Sam Spade, protagonista de Il mistero del falco (1941) di John Huston, e James Coco impegnato in una chiara parodia dell'Hercule Poirot creato dalla Christie. Una giostra di gag, situazioni e dialoghi surreali, ben strutturata ma macchinosa specie nella seconda parte, quando il gusto giocoso assume toni esagerati ed eccessivamente canzonatori. Completano il cast David Niven (Dick Charleston) e un surreale Alec Guinness nei bizzarri panni di un maggiordomo cieco. Colonna sonora di Dave Grusin.

Hot Fuzz, Edgar Wright (2007)
Nicholas Angel (Simon Pegg) è un poliziotto londinese modello e secchione che, a causa dei colleghi invidiosi, viene trasferito nella soporifera campagna del Gloucestershire. Tuttavia, una serie di omicidi efferati spacciati per incidenti romperà la monotonia agreste: Nicholas è chiamato a indagare insieme al grassoccio e imbranato collega Danny (Nick Frost). Dopo L’alba dei morti dementi del 2004, parodia del cinema horror, Edgar Wright richiama a sé gli stessi protagonisti (Pegg e Frost) per il secondo capitolo della “Trilogia del cornetto” (che si concluderà nel 2013 con La fine del mondo), per omaggiare in chiave comica il giallo e il poliziesco. Hot Fuzz è una commedia sfrenata e sfrontata, colma di geniale irriverenza e di uno spiccato humor inglese rivisitato, all’interno della quale giallo, azione e scontri a fuoco in salsa western si alternano a cento all’ora, ritmati dal frenetico andazzo tanto caro al regista. In mezzo a tutto questo, c’è anche spazio per una trama ben congegnata in cui, tra omicidi grotteschi, ognuno è sospettato. Agatha Christie insegna sempre e Wright sembra essere uno dei suoi alunni più originali.
I KILLER DI FINE SECOLO
Verso la fine del XX secolo il genere è stato affrontato ormai tante, tantissime volte. È stato rimaneggiato, smontato e ricostruito, lasciandolo con ben poco da dire ancora. Eppure, nel bel mezzo degli anni Novanta trova nuova linfa e, in particolare, due pellicole rendono onore alla sempre ottima struttura del killer inafferrabile che sta un passo davanti al detective di turno. Si tratta di un assassino che provoca, uccide per puro gusto e vuole il suo nome sulla bocca di tutti. È un killer del tutto nuovo, con così tanta voglia di farsi conoscere che si fa persino acchiappare apposta. Molta la violenza, la sfrontatezza e, soprattutto, la confusione dello spettatore. Ma il risultato finale si traduce sempre in grande cinema.
Seven, David Fincher (1995)
A sette giorni dalla pensione, il cinico e disincantato detective William Somerset (Morgan Freeman), affiancato dal giovane e avventato Davis Mills (Brad Pitt), deve indagare su un serial killer che sceglie le sue vittime seguendo la lista dei sette peccati capitali. Si viene a delineare un diabolico piano che sconvolgerà la vita dei due poliziotti. Al suo secondo film, David Fincher costruisce un thriller al contempo derivativo e sorprendentemente originale, cupo e nichilista. Seven riesce a distanziarsi dai suoi modelli di riferimento e a operare in maniera personale nella ridefinizione del genere. Il Male ci viene presentato come un'entità radicata nel tessuto sociale, un elemento peculiare della quotidianità, indefinito e mimetizzato (non a caso il serial killer usa il nome John Doe, l'uomo senza identità) ma non per questo meno feroce e sconvolgente. La grande forza del film sta in una messa in scena che accentua la componente più espressionista, giocando su tonalità cromatiche caricate (grazie alla splendida fotografia di Darius Khondji) e su un montaggio serratissimo (di Richard Francis-Bruce, nominato all'Oscar) che restituisce un profondo senso di angoscia, inquietudine e decadenza. Ma non meno meriti ha l'ottimo script di Andrew Kevin Walker che, muovendosi tra raffinate citazioni letterarie e suggestioni filosofiche, riesce sempre a spiazzare e coinvolgere, raggiungendo il suo apice in un finale tragico e indimenticabile. Strepitoso successo di pubblico e critica.

I soliti sospetti, Bryan Singer (1995)
Portati in commissariato per un'identificazione, cinque criminali – Verbal Kint (Kevin Spacey), Dean Keaton (Gabriel Byrne), Fenster (Benicio Del Toro), Todd Hockney (Kevin Pollak) e Ray McManus (Stephen Baldwin) – si mettono d'accordo per mettere a segno un grande colpo. Dietro di loro, però, c'è sempre l'ombra di Kaiser Soze, misterioso genio criminale che riesce a manipolarli a suo piacimento. Diventato presto un cult del cinema americano, I soliti sospetti è il secondo lungometraggio firmato da Bryan Singer dopo Public Access (1993). Il giovane regista porta sul grande schermo un intricato intreccio che entusiasma e tiene lo spettatore con il fiato sospeso, riuscendo a creare notevoli aspettative. Fulcro assoluto della pellicola è l'efficace descrizione di Keyser Soze, personaggio quasi demoniaco, la cui crudeltà ed efferatezza vengono trasmesse senza mai mostrarne il volto: entità intangibile e inafferrabile, mezzo per esaltare un'inquietudine quasi angosciante, stigmatizzata da una fotografia soffusa e patinata (firmata da Newton Thomas Sigel), ricca di luci soffocate, e da un’ambientazione sporca, periferica e pericolosa, tipicamente noir. Ma è lo script a rivelarsi fondamentale, mettendo in scena una vicenda contorta che, durante il suo svolgimento, si snoda con facilità e semplicità disarmanti: ne è esempio calzante la lunga conversazione tra l'ispettore di polizia e Verbal Kint, nella quale ogni singola parola pronunciata dai due personaggi ha un suo significato. Ottima prove attoriali: funzionale Gabriel Bryne, straordinario Kevin Spacey (vincitore di un Oscar come miglior attore non protagonista), che interpreta con grande profondità un ruolo non semplice. Un'altra statuetta alla sceneggiatura originale di Christoper McQuarrie. Presentato fuori concorso al 48° Festival di Cannes.
LE RIVISITAZIONI DEL NUOVO MILLENNIO: IL POTERE DELLA MEMORIA
Per finire la nostra rassegna su alcuni dei migliori gialli al cinema, ci affidiamo a due dei thriller più evocativi portati sul grande schermo negli ultimi vent’anni. Entrambi sono legati da un filo comune: il tempo che passa e il potere dei ricordi sulle vicende degli uomini. Stavolta l’assassino, se davvero c’è e se davvero è colpevole, non è l’antagonista principale. I protagonisti sono i veri nemici di loro stessi, alle prese con incapacità a vivere o a relazionarsi: corrono dietro a un presunto colpevole per non affrontare i loro veri problemi. Alla fine, ciò che resta, sono i ricordi e la speranza di non poterli alterare.

Memento, Christopher Nolan (2000)
Leonard Shelby (Guy Pearce), in seguito a un'aggressione, sviluppa un'amnesia a breve termine, cui cerca di soprassedere prendendo note e sollecitazioni un po' ovunque, persino sul suo corpo. Dopo Following (1998), Christopher Nolan firma l'opera che ne ha rivelato al mondo il talento muscolare e visionario, nonché la capacità di abbinare a una sensazionale riscrittura delle regole del cinema di genere un efficace approccio intellettuale e autoriale. Un dramma interiore significativamente intrecciato a una negoziazione libera e mai schematica dei procedimenti narratologici, che indaga le paranoie di un individuo attraverso un uso frastagliato e non convenzionale del montaggio, suddiviso in due macro-aree non sequenziali dal punto di vista narrativo (la prima scena e l'ultima, la seconda e la penultima, e così via). I segmenti del racconto si susseguono pertanto l'uno all'altro in forma volutamente sfalsata, creando simmetrie, suggestioni e parallelismi tutti da ricomporre e favorendo l'immedesimazione nelle traversie psichiche di Leonard. Allo spettatore, chiamato in causa attivamente, il ruolo di dipanare una matassa così intricata, tra depistaggi e un uso centrale del bianco e nero fortemente espressivo. All'alba del nuovo millennio cinematografico, forte di un'ambizione senza freni palese già nei suoi progetti più piccoli e ovviamente privi degli steroidi dei blockbuster successivi, Nolan ha una fiducia spassionata nella ricezione di chi guarda e lo costringe a un tour de force cervellotico, sfiancante ma, una volta penetrato con cognizione di causa, anche galvanizzante ed elettrizzante.
Il segreto dei suoi occhi, Juan José Campanella (2009)
Dopo essere andato in pensione, l'agente Benjamín Esposito (Ricardo Darín) scrive un romanzo su un caso che l'aveva colpito in gioventù: il brutale omicidio della giovane Lilliana (Carla Quevedo), una storia dolorosa e complessa che vede coinvolto il disperato marito della donna (Pablo Rago) e il sospetto assassino (Javier Godino). Come molti colleghi sudamericani prima di lui, l'argentino Juan José Campanella parte da una vicenda specifica per allargare lo sguardo, utilizzandola come metafora non troppo implicita delle condizioni socio-politiche del suo paese. Ma la pellicola, premiata con l’Oscar al miglior film straniero nel 2010, è anche l’intimo racconto dei rimpianti di un uomo rimasto ancorato per anni al suo passato. Raccontato con una serie di flashback, relativi all'assassinio di Lilliana e alle conseguenti indagini, il film ripercorre la viglia della dittatura di Videla, mettendo al centro della trama lo scontro tra un federale (il protagonista) e le alte cariche desiderose di ostacolarne l'operato. Di ottima fattura, equilibrato nell'unire gli elementi noir a quelli più pertinenti al thriller politico, il film viene ricordato anche e soprattutto per un’incredibile sequenza autoriale difficile da dimenticare, il lungo piano-sequenza nello stadio in cui Esposito e Morales inseguono Gómez.
Nicolò Palmieri