Marcello Mastroianni e gli anni '60 – Quando in Italia si scriveva la storia del cinema
17/12/2021
Forse il volto più iconico e amato del cinema italiano, sicuramente quello più internazionale. «La sua gentilezza, quel misto di sensibilità femminile e di forza virile, la sua delicatezza, la sua bellezza e la sua riservatezza parlavano in suo favore». Parola di Claudia Cardinale. Marcello Mastroianni è un'icona irraggiungibile, che ha saputo modellare il proprio talento sulla base di sfumature morbide ed eleganti, grazie anche al contributo di alcuni dei registi e degli sceneggiatori più importanti che si siano mai visti in Italia (ma anche nel mondo, senza falsa modestia).
«Marcello è un magnifico attore. Ma è soprattutto un uomo di una bontà incantevole, di una generosità spaventosa. Troppo leale per l'ambiente in cui vive. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io sono pronti a mandarselo giù in un boccone» (Federico Fellini)
Per rendere omaggio alla sua grandezza, abbiamo deciso di concentrarci sul periodo di massimo splendore del cinema italiano. Ecco i dieci imperdibili film interpretati da Marcello Mastroianni negli anni '60:
LA DOLCE VITA (1960)

All'alba degli anni '60, una scossa tellurica senza precedenti nella storia del costume italiano, sia sociale che cinematografico. Autentico film-simbolo di un'intera epoca, chiacchieratissimo già a suo tempo, fondamentale per comprendere lo slancio definitivo dell'Italia del boom ormai proiettata verso la perdita dell'innocenza. Roma, nel capolavoro felliniano diventato un proverbiale marchio internazionale, è un fondale solo apparentemente in movimento e in realtà smorto e inerte, che culla la spossatezza esistenziale dei personaggi senza opporre resistenza, senza imporre la sua presenza. Proprio per questa ragione, per lo spettatore è un gesto ancora oggi di impagabile bellezza e sommo appagamento abbandonarsi a La dolce vita come a un'esperienza di visione assoluta, summa dello spirito del suo tempo ma anche contenitore di un campionario umano doloroso e contemporaneo, nel quale la fama e l'apparenza sono analgesici passeggeri per uno strazio più grande e non momentaneo. Sceneggiato da Federico Fellini, Tullio Pinelli, Brunello Rondi ed Ennio Flaiano, una tappa formidabile e obbligata della storia del cinema moderno, anche per via della rivoluzionaria struttura narrativa rapsodica. Palma d'oro a Cannes, Oscar ai costumi di Piero Gherardi. Fischi e uova contro Mastroianni e Fellini alla prima al Cinema Capitol a Milano: punta dell'iceberg di una ricezione a dir poco controversa e di un focolaio di giudizi disparati, al quale a quei tempi non si sottrasse davvero nessuno.
IL BELL'ANTONIO (1960)

Spostando di una trentina d'anni l'azione contenuta nel romanzo di Vitaliano Brancati, Mauro Bolognini dipinge un ritratto sofferto di un'Italia post-bellica perennemente schiava delle apparenze e vittima dei pregiudizi sociali. Il non detto della sceneggiatura (alla cui stesura prese parte anche Pier Paolo Pasolini) è il vero punto di forza del film, che si avvale delle ottime interpretazioni di Marcello Mastroianni e di Claudia Cardinale, splendida donna-angelo privata della sua funzione salvifica. Rispetto alla materia di base viene meno la feroce critica alla società fascista (il testo letterario è ambientato negli anni Trenta), ma essa traspare ugualmente negli atteggiamenti delle due famiglie coinvolte, così come nella totale indifferenza mostrata dalla rappresentazione del clero. L'opera diventa così un ritratto abbastanza fedele dell'Italia di quegli anni, non solo del Sud. Peccato soltanto per qualche personaggio fuori parte (il francese Pierre Brasseur nel ruolo di Alfio Magnano). Splendido bianco e nero di Armando Nannuzzi, musiche di Piero Piccioni.
LA NOTTE (1961)

Secondo capitolo della "Trilogia dell'incomunicabilità", realizzato a un anno di distanza da L'avventura (1960), sviluppa ed elabora in modo diverso quelle che si delineano come costanti nel cinema del maestro romagnolo. In una società svuotata di senso e privata di ogni capacità di comunicazione, solo alcune donne conservano una residua, e dolorosa, capacità di comprensione. Alla ricerca costante di un barlume di umanità, non lo trovano negli uomini, prigionieri di meschinità, superficialità, indifferenza ed egoismo. La poetica intellettuale di Antonioni si fa qui ancora più rarefatta e l'indagine dei sentimenti assume i tratti dell'apologo metafisico, affascinante nel suo abbandonarsi a soluzioni imperscrutabili. L'angoscia esistenziale diventa pensiero (e desiderio recondito) di morte, l'apparato visivo e sonoro raggiunge un formalismo di altissimo livello: qualche eccesso letterario nei dialoghi rischia di rendere rigido il naturale dipanarsi di una narrazione scarnificata ma, al tempo stesso, concettualmente ricchissima. Cinema d'autore snob e altezzoso, esemplare nel rifiutare ogni compromesso. Il clima di tensione emotiva è frutto anche degli screzi tra Jeanne Moreau e Monica Vitti (relegata a un ruolo di secondo piano) e i litigi sul set tra un esausto Mastroianni (che rimpiangeva il bonario rapporto con Fellini) e il regista ferrarese, al solito intransigente con i membri del cast. Sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Ennio Flaiano e Tonino Guerra. Magnifico bianconero di Gianni Di Venanzo e musiche jazz di Giorgio Gaslini. Orso d'oro al Festival di Berlino.
DIVORZIO ALL'ITALIANA (1961)

Svolta improvvisa nella carriera di Pietro Germi che, dopo i successi dei suoi ultimi film drammatici (Il ferroviere del 1956, L'uomo di paglia del 1958 e Un maledetto imbroglio del 1959), passò alla commedia, firmando uno titoli di riferimento dell'intero genere. Strepitoso e graffiante atto d'accusa contro una società italiana ipocrita e arcaica, ancorata a modelli culturali e sociali ormai vetusti e anacronistici come l'assenza di una legge sul divorzio e il mantenimento dell'articolo 587 del codice penale che regolava il delitto d'onore. Con una carica sarcastica arguta e un'inventiva comica sempre sorprendente, Germi descrive una società siciliana grottesca e drammaticamente arretrata, ma il suo umorismo guarda al particolare rivolgendosi sempre all'universale. Il microcosmo di Argamonte non è un mondo a parte, ma l'emblema di una nazione conformista e cinica in cui il tornaconto personale e l'idea di rispettabilità vanno salvaguardate a ogni costo, anche attraverso l'omicidio. Il regista, inoltre, prende di mira l'immobilismo di un mondo che non sa e non vuole cambiare, incapace di evolversi, sospeso tra un perbenismo di facciata e pulsioni sfrenate (esemplare in tal senso la spassosa sequenza in cui viene preso d'assalto un cinema dove è proiettata La dolce vita di Federico Fellini, pellicola “scomunicata” dal parroco del paese). Straordinaria la prova di Marcello Mastroianni, impomatato e apparentemente imperturbabile ma nel profondo dell'animo diabolico e spietato calcolatore. Premio al Festival di Cannes come miglior commedia, Oscar alla miglior sceneggiatura e due nomination per la miglior regia e il miglior attore protagonista. Il titolo del film diede il nome al neonato filone cinematografico della commedia all'italiana.
CRONACA FAMILIARE (1962)

Partecipata trasposizione dell'omonimo romanzo di Vasco Pratolini (che contribuì alla sceneggiatura, insieme a Mario Missiroli e allo stesso Zurlini), narrata e riassunta in parte dalla voce fuori campo di Enrico che ricorda gli eventi dopo aver ricevuto la notizia della morte del fratello. Il tono intimista e accorato permette al regista non solo di dipingere un quadro familiare e uno spaccato di storia italiana, ma anche di riflettere su spiritualità, politica ed eguaglianza con inaudita profondità. Perrin praticamente porta a compimento il personaggio interpretato, sempre con Zurlini, in La ragazza con la valigia (1961); Mastroianni, sommesso e segnato dal dolore, trova una delle sue migliori interpretazioni di sempre. Il loro impiego in età differenti, senza troppe preoccupazioni di verosimiglianza, così come il tempo che scorre veloce durante il pranzo di Pasqua con la nonna, sottolineano in chiave anti-naturalistica il valore simbolico di una pellicola che non ha timore nemmeno di affrontare, specie nel finale, la retorica del dolore e dell'abbandono. Curiosamente (e non certo a caso) i titoli di coda non separano interpreti e autori che sono tutti riuniti tra coloro che hanno “realizzato” il film. Un'opera ostica e respingente, ma dall'alto valore artistico. Fotografia di Giuseppe Rotunno. Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia ex-aequo con L'infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij.
8½ (1963)

La monumentale autobiografia di un genio in forma di racconto polifonico. Il testamento artistico multiforme di un autore che si dona al mondo non risparmiando nulla della magnifica integrità delle sue bugie quotidiane. 8½ è il film in cui verità e menzogna coincidono magistralmente e la realtà e la finzione cessano per sempre di essere distinguibili. Guido, regista debilitato in modo mellifluo dalla malinconia e dall'indolenza ma anche suadente e sfaccettato nell'animo, è per Federico Fellini molto più di un alter-ego o di un transfert. È il veicolo attraverso cui far passare un flusso di coscienza prepotente, nel quale le luci e le ombre del mondo felliniano dialogano le une con le altre, delineando una sorta di moderno romanzo cinematografico in prima persona. L'avanguardismo radicale nelle mani svagate e profonde di Fellini diventa autoanalisi, psichiatria sorniona, svelamento del proprio stesso ego che si guarda allo specchio. Il regista, profondo sostenitore della ricchezza inesauribile della superficie, dà vita a una ronda di personaggi teneri, intristiti e indulgenti che è forse la più ombelicale e allo stesso tempo irrinunciabile della storia del cinema, con momenti di sano godimento per l'invenzione (l'astronave) e sprazzi di onirismo che non è mai stato così carnale (si veda la sequenza iniziale del sogno, entrata di diritto nella storia del cinema): il visionario, dopotutto, è l'unico realista. Due Oscar, ai costumi di Piero Gherardi e al miglior film straniero. Il titolo fa riferimento alle regie di Fellini firmate fino a quel momento, dato che Luci del varietà (1950) era stato co-diretto con Alberto Lattuada. Per il protagonista Fellini aveva pensato, si mormora, anche a Laurence Olivier e a Charlie Chaplin.
I COMPAGNI (1963)

I titoli di testa, dove alcune fotografie d'epoca scorrono veloci sulle note della Marcia della cinghia di Carlo Rustichelli, forniscono subito la connotazione storica della pellicola: Mario Monicelli vuole riscoprire il vero socialismo nato dall'esigenza di conquistare una vita migliore. La lotta di classe si sposa perfettamente all'idea di cinema corale che ha caratterizzato buona parte della sua carriera: I compagni è quindi un grande racconto in costante bilico tra la farsa e il dramma. Grazie a interpretazioni indimenticabili come quelle di Marcello Mastroianni e Folco Lulli, il film è capace di catturare lo spettatore, riuscendo a emozionare e suscitando riflessioni non banali sui conflitti di classe e sulle contraddizioni della Storia. La vecchia Torino nebbiosa e dalle fabbriche fumanti non fu ricostruita, bensì la produzione individuò in Croazia alcune location perfette per la storia. La fotografia di Giuseppe Rotunno, le scenografie di Mario Garbuglia e i costumi di Piero Tosi rendono ancor più straordinaria la messa in scena, dando all'intera narrazione un'accuratezza fondamentale per una ricostruzione storica ben riuscita. In Italia il film non ebbe un grande successo, il giudizio di merito venne preceduto da una superficiale lettura politica generale: la sinistra italiana vide nella commedia un rischio di parodizzazione, mentre l'area conservatrice fu scettica fin dal titolo, chiaramente evocativo. Si tratta, invece, di una bella pagina della storia del cinema italiano, capace di narrare le lotte e i drammi che caratterizzarono il passato. Sceneggiatura di Mario Monicelli, Age & Scarpelli nominata all'Oscar.
MATRIMONIO ALL'ITALIANA (1964)

Dalla pièce Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, una commedia diretta da Vittorio De Sica su sceneggiatura di Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tonino Guerra e Renato Castellani. La regia elimina lo spirito teatrale della materia di base, puntando sulla struttura narrativa (la notevole e ponderata costruzione a flashback) ed esaltando l'odissea della protagonista, figura carnale in bilico tra reminiscenze ancestrali e attitudine femminista. Il risultato, assai godibile, dimostra onestà di intenti (De Sica tenta, al solito, di arrivare al cuore dello spettatore e colpisce più volte nel segno), stupendo per la padronanza tecnica e stilistica, anche se il tutto risulta a tratti un po' meccanico e furbetto, con una spiccata tendenza al sentimentalismo facile. Buona performance di Marcello Mastroianni; strepitosa Sophia Loren, obiettivo primario della macchina da presa (non a caso, produce Carlo Ponti). Marilù Tolo è Diana; musiche di Armando Trovajoli. Candidato a due premi Oscar (miglior film straniero e attrice) e vincitore di quattro David di Donatello (produzione, regia, attore, attrice).
BREAK-UP – L'UOMO DEI CINQUE PALLONI (1965)
«Mi sono messo in testa di sapere quanta aria entra in un pallone, è un chiodo fisso». Apologo sulle compulsioni del borghese moderno, diretto e sceneggiato (con Rafael Azcona) da Marco Ferreri. Sesso, consumismo e picchi surreali: al suo sesto lungometraggio, l'autore ha già le idee chiare e si impegna a denunciare, con il consueto spirito grottesco, le contraddizioni sociali ed esistenziali che dominano la contemporaneità. Al centro della narrazione, una figura maschile inetta e privata del suo centro morale, precursore di quegli antieroi che popoleranno il cinema ferreriano degli anni Settanta e Ottanta. Disturbante e incisivo nella sua provocazione, il film venne scempiato dal produttore Carlo Ponti che, impaurito dalla reazione del pubblico, preferì ridurlo a un episodio di Oggi, domani e dopodomani (1965), co-diretto da Ferreri, Eduardo De Filippo e Luciano Salce. La versione integrale, della durata di 85 minuti, fu distribuita in Italia soltanto nel 1979. Due momenti meritevoli di menzione: la sequenza della sauna, capolavoro di comicità paradossale, e quella della discoteca, in cui la psichedelia anni Sessanta è enfatizzata da inserti colorati che irrompono nel bianco e nero di Aldo Tonti. Scintille tra il regista e Catherine Spaak, a disagio in un'opera non propriamente nelle sue corde. Cameo di Ugo Tognazzi nel ruolo dell'automobilista infuriato; musiche di Teo Usuelli.
LA DECIMA VITTIMA (1965)

Irriverente e gustosa sortita di Elio Petri nel genere fantascientifico, riletto attraverso i canoni della commedia all'italiana e della satira sociale. L'abbrutimento morale derivante dagli eccessi del consumismo e dall'invadenza dei mass media (con ruolo preponderante riservato alla televisione) è al centro di questa brillante e riuscita farsa che mette alla berlina usi e costumi dell'epoca. Azzeccatissimo inoltre l'utilizzo di due star come Marcello Mastroianni e Ursula Andress in modo completamente originale e insolito, sottolineando sia l'indiscutibile sex appeal dei protagonisti ma mettendone in evidenza anche i tratti grotteschi, le contraddizioni e le insicurezze. Così due icone vengono normalizzate e ridotte a due tra le tante figure sperdute di una società volgare e violenta, dove amore e guerra sono complementari nonché indissolubili e dove non esiste verità senza spettacolo (come dimostrano le interruzioni pubblicitarie che accompagnano il gran carrozzone mediatico della caccia all'uomo). La sceneggiatura (scritta dal regista con Ennio Flaiano, Tonino Guerra e Giorgio Salvioni) adatta piuttosto fedelmente il racconto La settima vittima di Robert Sheckley.
«Marcello è un magnifico attore. Ma è soprattutto un uomo di una bontà incantevole, di una generosità spaventosa. Troppo leale per l'ambiente in cui vive. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io sono pronti a mandarselo giù in un boccone» (Federico Fellini)
Per rendere omaggio alla sua grandezza, abbiamo deciso di concentrarci sul periodo di massimo splendore del cinema italiano. Ecco i dieci imperdibili film interpretati da Marcello Mastroianni negli anni '60:
LA DOLCE VITA (1960)

All'alba degli anni '60, una scossa tellurica senza precedenti nella storia del costume italiano, sia sociale che cinematografico. Autentico film-simbolo di un'intera epoca, chiacchieratissimo già a suo tempo, fondamentale per comprendere lo slancio definitivo dell'Italia del boom ormai proiettata verso la perdita dell'innocenza. Roma, nel capolavoro felliniano diventato un proverbiale marchio internazionale, è un fondale solo apparentemente in movimento e in realtà smorto e inerte, che culla la spossatezza esistenziale dei personaggi senza opporre resistenza, senza imporre la sua presenza. Proprio per questa ragione, per lo spettatore è un gesto ancora oggi di impagabile bellezza e sommo appagamento abbandonarsi a La dolce vita come a un'esperienza di visione assoluta, summa dello spirito del suo tempo ma anche contenitore di un campionario umano doloroso e contemporaneo, nel quale la fama e l'apparenza sono analgesici passeggeri per uno strazio più grande e non momentaneo. Sceneggiato da Federico Fellini, Tullio Pinelli, Brunello Rondi ed Ennio Flaiano, una tappa formidabile e obbligata della storia del cinema moderno, anche per via della rivoluzionaria struttura narrativa rapsodica. Palma d'oro a Cannes, Oscar ai costumi di Piero Gherardi. Fischi e uova contro Mastroianni e Fellini alla prima al Cinema Capitol a Milano: punta dell'iceberg di una ricezione a dir poco controversa e di un focolaio di giudizi disparati, al quale a quei tempi non si sottrasse davvero nessuno.
IL BELL'ANTONIO (1960)

Spostando di una trentina d'anni l'azione contenuta nel romanzo di Vitaliano Brancati, Mauro Bolognini dipinge un ritratto sofferto di un'Italia post-bellica perennemente schiava delle apparenze e vittima dei pregiudizi sociali. Il non detto della sceneggiatura (alla cui stesura prese parte anche Pier Paolo Pasolini) è il vero punto di forza del film, che si avvale delle ottime interpretazioni di Marcello Mastroianni e di Claudia Cardinale, splendida donna-angelo privata della sua funzione salvifica. Rispetto alla materia di base viene meno la feroce critica alla società fascista (il testo letterario è ambientato negli anni Trenta), ma essa traspare ugualmente negli atteggiamenti delle due famiglie coinvolte, così come nella totale indifferenza mostrata dalla rappresentazione del clero. L'opera diventa così un ritratto abbastanza fedele dell'Italia di quegli anni, non solo del Sud. Peccato soltanto per qualche personaggio fuori parte (il francese Pierre Brasseur nel ruolo di Alfio Magnano). Splendido bianco e nero di Armando Nannuzzi, musiche di Piero Piccioni.
LA NOTTE (1961)

Secondo capitolo della "Trilogia dell'incomunicabilità", realizzato a un anno di distanza da L'avventura (1960), sviluppa ed elabora in modo diverso quelle che si delineano come costanti nel cinema del maestro romagnolo. In una società svuotata di senso e privata di ogni capacità di comunicazione, solo alcune donne conservano una residua, e dolorosa, capacità di comprensione. Alla ricerca costante di un barlume di umanità, non lo trovano negli uomini, prigionieri di meschinità, superficialità, indifferenza ed egoismo. La poetica intellettuale di Antonioni si fa qui ancora più rarefatta e l'indagine dei sentimenti assume i tratti dell'apologo metafisico, affascinante nel suo abbandonarsi a soluzioni imperscrutabili. L'angoscia esistenziale diventa pensiero (e desiderio recondito) di morte, l'apparato visivo e sonoro raggiunge un formalismo di altissimo livello: qualche eccesso letterario nei dialoghi rischia di rendere rigido il naturale dipanarsi di una narrazione scarnificata ma, al tempo stesso, concettualmente ricchissima. Cinema d'autore snob e altezzoso, esemplare nel rifiutare ogni compromesso. Il clima di tensione emotiva è frutto anche degli screzi tra Jeanne Moreau e Monica Vitti (relegata a un ruolo di secondo piano) e i litigi sul set tra un esausto Mastroianni (che rimpiangeva il bonario rapporto con Fellini) e il regista ferrarese, al solito intransigente con i membri del cast. Sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Ennio Flaiano e Tonino Guerra. Magnifico bianconero di Gianni Di Venanzo e musiche jazz di Giorgio Gaslini. Orso d'oro al Festival di Berlino.
DIVORZIO ALL'ITALIANA (1961)

Svolta improvvisa nella carriera di Pietro Germi che, dopo i successi dei suoi ultimi film drammatici (Il ferroviere del 1956, L'uomo di paglia del 1958 e Un maledetto imbroglio del 1959), passò alla commedia, firmando uno titoli di riferimento dell'intero genere. Strepitoso e graffiante atto d'accusa contro una società italiana ipocrita e arcaica, ancorata a modelli culturali e sociali ormai vetusti e anacronistici come l'assenza di una legge sul divorzio e il mantenimento dell'articolo 587 del codice penale che regolava il delitto d'onore. Con una carica sarcastica arguta e un'inventiva comica sempre sorprendente, Germi descrive una società siciliana grottesca e drammaticamente arretrata, ma il suo umorismo guarda al particolare rivolgendosi sempre all'universale. Il microcosmo di Argamonte non è un mondo a parte, ma l'emblema di una nazione conformista e cinica in cui il tornaconto personale e l'idea di rispettabilità vanno salvaguardate a ogni costo, anche attraverso l'omicidio. Il regista, inoltre, prende di mira l'immobilismo di un mondo che non sa e non vuole cambiare, incapace di evolversi, sospeso tra un perbenismo di facciata e pulsioni sfrenate (esemplare in tal senso la spassosa sequenza in cui viene preso d'assalto un cinema dove è proiettata La dolce vita di Federico Fellini, pellicola “scomunicata” dal parroco del paese). Straordinaria la prova di Marcello Mastroianni, impomatato e apparentemente imperturbabile ma nel profondo dell'animo diabolico e spietato calcolatore. Premio al Festival di Cannes come miglior commedia, Oscar alla miglior sceneggiatura e due nomination per la miglior regia e il miglior attore protagonista. Il titolo del film diede il nome al neonato filone cinematografico della commedia all'italiana.
CRONACA FAMILIARE (1962)

Partecipata trasposizione dell'omonimo romanzo di Vasco Pratolini (che contribuì alla sceneggiatura, insieme a Mario Missiroli e allo stesso Zurlini), narrata e riassunta in parte dalla voce fuori campo di Enrico che ricorda gli eventi dopo aver ricevuto la notizia della morte del fratello. Il tono intimista e accorato permette al regista non solo di dipingere un quadro familiare e uno spaccato di storia italiana, ma anche di riflettere su spiritualità, politica ed eguaglianza con inaudita profondità. Perrin praticamente porta a compimento il personaggio interpretato, sempre con Zurlini, in La ragazza con la valigia (1961); Mastroianni, sommesso e segnato dal dolore, trova una delle sue migliori interpretazioni di sempre. Il loro impiego in età differenti, senza troppe preoccupazioni di verosimiglianza, così come il tempo che scorre veloce durante il pranzo di Pasqua con la nonna, sottolineano in chiave anti-naturalistica il valore simbolico di una pellicola che non ha timore nemmeno di affrontare, specie nel finale, la retorica del dolore e dell'abbandono. Curiosamente (e non certo a caso) i titoli di coda non separano interpreti e autori che sono tutti riuniti tra coloro che hanno “realizzato” il film. Un'opera ostica e respingente, ma dall'alto valore artistico. Fotografia di Giuseppe Rotunno. Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia ex-aequo con L'infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij.
8½ (1963)

La monumentale autobiografia di un genio in forma di racconto polifonico. Il testamento artistico multiforme di un autore che si dona al mondo non risparmiando nulla della magnifica integrità delle sue bugie quotidiane. 8½ è il film in cui verità e menzogna coincidono magistralmente e la realtà e la finzione cessano per sempre di essere distinguibili. Guido, regista debilitato in modo mellifluo dalla malinconia e dall'indolenza ma anche suadente e sfaccettato nell'animo, è per Federico Fellini molto più di un alter-ego o di un transfert. È il veicolo attraverso cui far passare un flusso di coscienza prepotente, nel quale le luci e le ombre del mondo felliniano dialogano le une con le altre, delineando una sorta di moderno romanzo cinematografico in prima persona. L'avanguardismo radicale nelle mani svagate e profonde di Fellini diventa autoanalisi, psichiatria sorniona, svelamento del proprio stesso ego che si guarda allo specchio. Il regista, profondo sostenitore della ricchezza inesauribile della superficie, dà vita a una ronda di personaggi teneri, intristiti e indulgenti che è forse la più ombelicale e allo stesso tempo irrinunciabile della storia del cinema, con momenti di sano godimento per l'invenzione (l'astronave) e sprazzi di onirismo che non è mai stato così carnale (si veda la sequenza iniziale del sogno, entrata di diritto nella storia del cinema): il visionario, dopotutto, è l'unico realista. Due Oscar, ai costumi di Piero Gherardi e al miglior film straniero. Il titolo fa riferimento alle regie di Fellini firmate fino a quel momento, dato che Luci del varietà (1950) era stato co-diretto con Alberto Lattuada. Per il protagonista Fellini aveva pensato, si mormora, anche a Laurence Olivier e a Charlie Chaplin.
I COMPAGNI (1963)

I titoli di testa, dove alcune fotografie d'epoca scorrono veloci sulle note della Marcia della cinghia di Carlo Rustichelli, forniscono subito la connotazione storica della pellicola: Mario Monicelli vuole riscoprire il vero socialismo nato dall'esigenza di conquistare una vita migliore. La lotta di classe si sposa perfettamente all'idea di cinema corale che ha caratterizzato buona parte della sua carriera: I compagni è quindi un grande racconto in costante bilico tra la farsa e il dramma. Grazie a interpretazioni indimenticabili come quelle di Marcello Mastroianni e Folco Lulli, il film è capace di catturare lo spettatore, riuscendo a emozionare e suscitando riflessioni non banali sui conflitti di classe e sulle contraddizioni della Storia. La vecchia Torino nebbiosa e dalle fabbriche fumanti non fu ricostruita, bensì la produzione individuò in Croazia alcune location perfette per la storia. La fotografia di Giuseppe Rotunno, le scenografie di Mario Garbuglia e i costumi di Piero Tosi rendono ancor più straordinaria la messa in scena, dando all'intera narrazione un'accuratezza fondamentale per una ricostruzione storica ben riuscita. In Italia il film non ebbe un grande successo, il giudizio di merito venne preceduto da una superficiale lettura politica generale: la sinistra italiana vide nella commedia un rischio di parodizzazione, mentre l'area conservatrice fu scettica fin dal titolo, chiaramente evocativo. Si tratta, invece, di una bella pagina della storia del cinema italiano, capace di narrare le lotte e i drammi che caratterizzarono il passato. Sceneggiatura di Mario Monicelli, Age & Scarpelli nominata all'Oscar.
MATRIMONIO ALL'ITALIANA (1964)

Dalla pièce Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, una commedia diretta da Vittorio De Sica su sceneggiatura di Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tonino Guerra e Renato Castellani. La regia elimina lo spirito teatrale della materia di base, puntando sulla struttura narrativa (la notevole e ponderata costruzione a flashback) ed esaltando l'odissea della protagonista, figura carnale in bilico tra reminiscenze ancestrali e attitudine femminista. Il risultato, assai godibile, dimostra onestà di intenti (De Sica tenta, al solito, di arrivare al cuore dello spettatore e colpisce più volte nel segno), stupendo per la padronanza tecnica e stilistica, anche se il tutto risulta a tratti un po' meccanico e furbetto, con una spiccata tendenza al sentimentalismo facile. Buona performance di Marcello Mastroianni; strepitosa Sophia Loren, obiettivo primario della macchina da presa (non a caso, produce Carlo Ponti). Marilù Tolo è Diana; musiche di Armando Trovajoli. Candidato a due premi Oscar (miglior film straniero e attrice) e vincitore di quattro David di Donatello (produzione, regia, attore, attrice).
BREAK-UP – L'UOMO DEI CINQUE PALLONI (1965)
«Mi sono messo in testa di sapere quanta aria entra in un pallone, è un chiodo fisso». Apologo sulle compulsioni del borghese moderno, diretto e sceneggiato (con Rafael Azcona) da Marco Ferreri. Sesso, consumismo e picchi surreali: al suo sesto lungometraggio, l'autore ha già le idee chiare e si impegna a denunciare, con il consueto spirito grottesco, le contraddizioni sociali ed esistenziali che dominano la contemporaneità. Al centro della narrazione, una figura maschile inetta e privata del suo centro morale, precursore di quegli antieroi che popoleranno il cinema ferreriano degli anni Settanta e Ottanta. Disturbante e incisivo nella sua provocazione, il film venne scempiato dal produttore Carlo Ponti che, impaurito dalla reazione del pubblico, preferì ridurlo a un episodio di Oggi, domani e dopodomani (1965), co-diretto da Ferreri, Eduardo De Filippo e Luciano Salce. La versione integrale, della durata di 85 minuti, fu distribuita in Italia soltanto nel 1979. Due momenti meritevoli di menzione: la sequenza della sauna, capolavoro di comicità paradossale, e quella della discoteca, in cui la psichedelia anni Sessanta è enfatizzata da inserti colorati che irrompono nel bianco e nero di Aldo Tonti. Scintille tra il regista e Catherine Spaak, a disagio in un'opera non propriamente nelle sue corde. Cameo di Ugo Tognazzi nel ruolo dell'automobilista infuriato; musiche di Teo Usuelli.
LA DECIMA VITTIMA (1965)

Irriverente e gustosa sortita di Elio Petri nel genere fantascientifico, riletto attraverso i canoni della commedia all'italiana e della satira sociale. L'abbrutimento morale derivante dagli eccessi del consumismo e dall'invadenza dei mass media (con ruolo preponderante riservato alla televisione) è al centro di questa brillante e riuscita farsa che mette alla berlina usi e costumi dell'epoca. Azzeccatissimo inoltre l'utilizzo di due star come Marcello Mastroianni e Ursula Andress in modo completamente originale e insolito, sottolineando sia l'indiscutibile sex appeal dei protagonisti ma mettendone in evidenza anche i tratti grotteschi, le contraddizioni e le insicurezze. Così due icone vengono normalizzate e ridotte a due tra le tante figure sperdute di una società volgare e violenta, dove amore e guerra sono complementari nonché indissolubili e dove non esiste verità senza spettacolo (come dimostrano le interruzioni pubblicitarie che accompagnano il gran carrozzone mediatico della caccia all'uomo). La sceneggiatura (scritta dal regista con Ennio Flaiano, Tonino Guerra e Giorgio Salvioni) adatta piuttosto fedelmente il racconto La settima vittima di Robert Sheckley.