Storia dell'horror rurale al cinema
04/04/2021

Campi di grano, ghirlande e fiori, canti e danze: intorno, uno sfondo aperto e idilliaco. Eppure, anche qui possono annidarsi divinità sataniche, sette di fanatici, morte e follie: l’horror rurale ci racconta che in campagna la follia è di casa.

I disertori, The Witch, Midsommar, o andando più indietro nel tempo Grano rosso sangue, La casa dalle finestre che ridono, The Wicker Man: negli ultimi anni non sono stati certo pochi i film che hanno fatto rinascere un sottogenere in apparenza morto e sepolto, ovvero il folk horror, praticato negli anni Settanta prima di essere dato per spacciato senza aver dato grandi prove di sé, ad esclusione di pochi casi sporadici che non erano (ancora) stati capaci di diventare genere.

Eppure l’accecante luce del sole sostituisce in maniera egregia il tenebroso buio, perché lì dove vive gente semplice, connessa alla terra e ai suoi cicli vitali, è più facile che si galleggi in una sorta di bolla che preserva da ogni forma di modernità o progresso. Nelle comunità agricole che vediamo al cinema la diffidenza verso chi viene e vive al di fuori è spesso accompagnata da un eccesso di zelo nel seguire il proprio credo religioso o pagano che sia, un credo improntato su un paganesimo attaccato alle radici più profonde e ancestrali. Il più delle volte si tratta di divinità naturali, connesse a culti primigeni relativi principalmente al ciclo delle stagioni e delle coltivazioni (in ogni cultura contadina, il diavolo rappresenta il nemico principale perché è lui a provocare temporali e grandinate, o inviare ogni tipo di animale nocivo alle piantagioni).

L’equazione per un vero folk horror si basa sul ribaltamento dei rasserenanti stereotipi legati alla campagna. Il termine è stato coniato da Mark Gatiss nel documentario del 2010 A History Of Horror, riferendosi principalmente a tre film, tutti di produzione britannica, dove i miti popolari combaciano con la religione imperante e il paganesimo arcaico: Il grande inquisitore di Michael Reeves, La pelle di Satana di Piers Haggard e il citato The Wicker Man di Robin Hardy.

Il primo film citato è opera di un enfant-prodige morto a soli 25 anni per overdose da farmaci ed è ambientato nel Seicento dove impera la guerra tra il sovrano Carlo I e le schiere ribelli di Oliver Cromwell: tra di loro, in un clima di violenza esacerbata, troviamo un cacciatore di streghe del Regno, che nasconde dietro al volto (di un satanico Vincent Price) un sadico torturatore privo di scrupoli alla ricerca del Maligno. Alla sua uscita il film di Reeves fu bollato come pornografico, e in effetti ancora oggi qualche sequenza di sevizie e morti atroci può provocare disagio; ma la cosa importante è che il suo successo sgomberò il campo per imitazioni più o meno riuscite, che però trovarono fondamentale riprodurre fedelmente solo le sofferenze di donne nude.

La Pelle Di Satana è invece ambientato nel XVIII secolo, con un contadino che arando il suo campo ritrova un teschio e un avambraccio artigliato appartenenti presumibilmente ad una creatura poco umana e molto demoniaca (curiosità: Clive Barker utilizzò questo incipit fulminante per il suo Testacruda Rex, omaggio proprio al folk horror). Il film è un piccolo gioiello da recuperare, che trasuda ansia grazie allo stile documentaristico, ai volti sgradevoli scelti per i protagonisti e ai costumi, imbastiti con tela grezza malcucita.

The Wicker Man è invece un vero e proprio totem: film inserito tra i dieci migliori mai girati in Inghilterra, è assurto al rango di cult assoluto regalando almeno un’immagine così iconica da essere entrata nella storia: la gigantesca scultura di forma umanoide costruita con viticci e travi di legno, ovvero l’Uomo di Vimini di cui parlava anche Giulio Cesare nei suoi Commentarii de bello Gallico come prova lampante della crudeltà barbara, e che nei tempi remoti veniva riempita di animali domestici e, a volte, anche di esseri umani, tutti destinati a bruciare vivi. The Wicker Man fa riflettere sul fatto che in genere i film appartenenti a questo filone, almeno nei casi più lampanti e riusciti, non sono ascrivibili in tutto e per tutto e completamente (o solamente) all’horror: spesso sono infatti raffinati ritratti antropologici che spingono a riflettere sulla sostanza della religione e a guardare negli angoli più bui delle nostre radici arcaiche.

Stephen King non è certo un autore sconosciuto ai più: ci sono però alcune sue cose, e alcuni film tratti dalle sue opere, di cui si parla sempre meno. E a torto. Partendo dal presupposto che l’autore di Shining è solo in apparenza - oltretutto una volta, ora non più - un mero scrittore di paura, in realtà autore da vertigine, Grano rosso sangue (Children Of The Corn, diretto da Fritz Kiersch nel 1984) è un vero e proprio cult che andrebbe riscoperto. Oltre ad aver generato ben quattro seguiti (la maggiorparte straight to video), ha diversi punti in comune con opere più celebri come Signs di Shyamalan o Io non ho paura di Salvatores: ma mentre lì il grano è il punto di incontro tra civiltà diverse o il punto di riferimento di un tempo immobile, con King sembra assorbire tutto il male dell’umanità e delle divinità venerate dai villain Isaac e Malachia, due personaggi che fin dal nome sanno distorcere il senso della religione e della Bibbia in particolare, distorsione caratteristica che si è vista comune denominatore nel folk horror. Riscoprendo quindi in un batter d’occhio le crudeltà disseminate a bizzeffe nell’Antico Testamento.

È sostanzialmente la provincia americana a consentire spesso la diffusione di un malessere sociale, culturale e antropologico: che diventa quindi un luogo tipico dell’horror evitando facili ellissi e stabilendo delle regole, dei canoni registici che saranno ripresi più volte in futuro, dalle angolazioni particolari ai fuori campo dominanti, dalle soggettive al limite del collasso ai primi piani spietati, fino alle inquadrature ravvicinate ed estremamente dettagliate, al montaggio serrato e all’uso dell’effetto zoom come teorizzato anni prima da Mario Bava.

E tra King e Bava non è possibile non andare subito a Pupi Avati, preconizzatore del folk horror nazionale e a memoria unico maestro del genere su suolo italico: La casa dalle finestre che ridono è uno dei capisaldi della sua filmografia. Il quale, come accade ai grandi autori di cinema, ruota intorno a poche ossessioni fondamentali: per il regista bolognese l’amicizia e l’amore, la morte e Dio. Dice della morte Pupi Avati: “Mi ricordo che una volta, quando ero piccolo, pensavo che la morte fosse qualcosa di temporaneo. Avevo un’idea comodissima della morte. Quando morì mio padre – avevo dodici anni - pensavo che la morte fosse una malattia, una cosa che sì, durava moltissimo, però c’era una fine, c’era un punto in cui finiva. Diventando un po’ meno bimbo mi sono accorto che la morte durava per sempre: uno che muore non lo vedi più, vuol dire per sempre. Questa è un’idea così insopportabile, così poco umana, così poco accettabile che non è possibile che una persona si rassegni, non cerchi delle ragioni, non cerchi qualcosa che vada al di là. Le mie fantasticherie riguardavano tutte le morte . In quest’ambito, credo che la cosa più spaventevole siano i fantasmi, le presenze malvagie, che infatti ho sempre temuto molto. I miei fantasmi non erano mai sereni, non erano quelli spiriti burloni e in fondo benevoli di cui, ad esempio, parla Wilde nel Canterville. No, nei fantasmi che m’immaginavo io c’erano sempre lamenti, strazio, gemiti, voci…

Il copione de La casa dalle finestre che ridono era da tempo nel cassetto di Pupi, un copione “maledetto” di un film che aveva richiesto diverse stesure . Una storia che ha origine da un fatto di cronaca reale, terrificante episodio avvenuto attorno agli anni Venti nella campagna emiliana e che dev’essere stato certamente uno di quei racconti orecchiati dal bambino bolognese e ripensati con terrore di notte. Racconta infatti Avati che il film “nasce da un raccontino che ci veniva fatto fin da bambini e riguarda un cimitero. Questo vecchio cimitero era stato rifatto (riesumate le salme e messe a posto le lapidi) all’inizio del secolo, quando mia nonna era ancora ragazza. Si racconta che, aprendo la tomba del parroco, siano state trovate delle ossa femminili anziché maschili. Questa storia ci terrorizzava, l’idea di un prete donna ci spaventava oltre ogni immaginazione.” Il film è davvero notevole. Come rilevava Morando Morandini : “Avati ha diverse qualità, tra le quali a me garba soprattutto il palese affetto per quello che fa, per il suo lavoro; lo si sente nella cura dei particolari, nel modo in cui sa cogliere il paesaggio padano che presumibilmente ben conosce e ama”.

Ecco, il paesaggio: in questo film fa la sua prima grande comparsa da protagonista nell’horror, laddove nei film di Argento, di Lucio Fulci o di Bava erano importanti tutt’al piu la location, gli interni, il decòr. Lo skyline dei boschi, la frondosità sussurrante degli alberi verdissimi e scuri, l’allungarsi delle ombre si fondono in una sorta di panteismo boschivo che è uno dei protagonisti di questa storia di follia campestre, tema poi riproposto, fin da Grano rosso sangue, da quasi tutti i grandi horror-makers statunitensi (Tobe Hooper e i suoi Quel motel vicino alla palude e Non aprite quella porta, Wes Craven in Le colline hanno gli occhi) . Là dove c’era sole e grano appena falciato, ora c’è notte, buio e inquietudine. Ciò che Avati riprende da Fellini è la stralunata dimensione della campagna in chiave favolistica, inquinandola ancora più del maestro con elementi di mistero e terrore. Perché tutto quello che in Fellini viene stravolto in chiave ironica, surreale, solare e grottesca quando non malinconica, in Avati diventa tetro e minaccioso, o apertamente fantastico, favoloso, come se tali aspetti fossero necessariamente le due facce della stessa medaglia. L’intuizione più grande di Avati fu questa: un thriller costruito sulle sfumature e senza effetti, per di più ambientato in un paesino sperduto, all’indomani del clamoroso successo delle carneficine di Dario Argento, peraltro realizzate in allucinate location metropolitane.

Probabilmente ciò che favorisce il fiorire di opere di tutto rispetto nell’ambito del folk horror è proprio la sua natura principale: quella di mettere in discussione le certezze dell’ordine costituito. Negli anni Venti l’horror che conta è ancora quello che gira il coltello nella piaga, che rifiuta di fornire risposte preferendo piuttosto interrogarsi e interrogare sulle domande che non trovano soluzione. Quello che mette a nudo la fallacia del reale facendone emergere i nervi scoperti, ripristinando la funzione primaria dell’irrazionale come motore e forza centripeta di un mondo, il nostro, dove l’Orrore è tanto più grande quanto non lo si riesce a spiegare e a rappresentare né a ridurre attraverso la parola, ma solo a percepirlo con l’emozione. È per questo che quando l’horror si riappropria della sua natura, dell'innata dimensione profondamente politica, il risultato è la presa di coscienza della sconfitta che riguarda tutti, una sconfitta fisica, umana e soprattutto sociale. La messa in scena mostra l’ordine che alza le mani e cede il passo all’avanzare del Caos; una brillante riflessione sul Potere che soccombe al Male del quale è servo.

Negli ultimi anni, con il fiorire di una rigogliosa cretività nelle produzioni seriali, anche la TV sembra essere stata contagiata dalla paura rupestre. Ultimo, solo in ordine di tempo, Equinox (disponibile in streaming su Netflix), la cui ricchezza sono le atmosfere rarefatte e vischiose che restituiscono l’immobilità emotiva forzata dei protagonisti, fermi in uno stallo psicologico dovuto all’interferenza nelle loro vite del re Lepre e del mito di Ostara. Ed è anche quest’innesto a rendere particolarmente interessanti i sei episodi della serie, la (ri)scoperta di una storia del folklore nordico da cui nacque la ricorrenza delle uova di Pasqua: Ostara era una donna umana di cui il Re Lepre si innamorò perdutamente durante un equinozio, appunto. Furono tuttavia costretti a separarsi, ma lei cominciò a percepire la di lui presenza ovunque appena iniziò a notare le famose uova nei luoghi in cui loro erano stati insieme. Le uova poi si schiudono, con la conseguente proliferazione di coniglietti/leprotti. Equinox (così come il già citato Midsommar) riporta a una dimensione altra non solo in senso metafisico, ma anche e probabilmente soprattutto da un punto di vista sacrale, mettendo al centro della sua indagine il senso del sacrificio inteso come compimento di un’azione sacra che, in quanto tale, celebra il sacro, ciò che importa, il valore che dà un senso a noi stessi e alla vita. La storia del Re Lepre che si fa uomo, di Ostara che si incarna ogni 21 anni in una donna, riportano allora al sacrificio come gesto rituale con cui dei beni (o anche esseri umani) vengono tolti dalla condizione profana e consegnati al sacro: senza dimenticare l’accuratezza psicologica dei personaggi e un gusto sottile e intelligente per l’horror giocato sull’assenza. 

Interessante anche la miniserie The Third Day (su Sky Atlantic) con una storia che corre sui binari già visti ma sempre avvincenti dei misteri che si sommano ad altri misteri - personaggi che ritornano da una storia all’altra e legano con un filo rosso due trame apparentemente distinte -, però con una scrittura che confonde i limiti tra realtà e psicosi allucinogena, utilizzando abilmente la scenografia e i colori della fotografia. Così come Osea esiste in un limbo indefinito tra tradizione celtica, Cristianesimo e satanismo, i diversi personaggi sono declinati attraverso i colori: verde per i Martin (tra gli indottrinati della sbilenca religione del luogo), un verde denso smeraldo che riecheggia la rigenerazione celtica delle coscienze; si spinge sul rosso invece per dipingere Jess, la straniera appassionata che si porta dietro un passato ingombrante, collegata al sangue e alla guerra, alla ribellione. Colori cangianti invece per Sam, che passa da un cromatismo verde ad uno blu cobalto che lo trasporta su un piano onirico e soffocante, fino al grigio che lo circonda nei momenti epifanici dove scopre di essere uno sciamano predestinato (il grigio veniva associato dai celti al viaggio sciamanico). Un simbolismo parareligioso che conclude la terza puntata (con la quale finisce l’Estate) con un’invasione di cavallette, che intitola i primi tre episodi Padre, Figlio e Spirito; che coincide con il suggello definitivo tra The Third Day e la tradizione festiva celtica che divideva le stagioni a seconda del loro significato (Estate: Alban Hefin, rigenerazione o luce estiva, corrispondeva al solstizio d’estate del 21 giugno, dove Hefin poteva significare anche riva, poiché quel giorno la luce risplendeva sugli specchi d’acqua in maniera molto più diffusa, quasi a fondersi insieme al cielo in un’unica luce; Inverno: l’Oimelc o Imbolc, 31 gennaio-1º febbraio, invece indicava il tempo dell’allontanamento dall’inverno, caratterizzato da un breve periodo di assenza di feste, ad eccezione di quelle femminili legate alla fertilità).

Metafore e sottotesti che emergono anche dai colori desaturati, attraverso i quali sembra emergere dall’illusione del paradiso naturale il marcio che incrosta il mondo.


GianLorenzo Franzì

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