Hunger: 4 anni dopo

La distribuzione italiana fatica a scommettere sugli esordi di registi che risultano poi molto talentuosi. Infatti Hunger, opera prima di Steve McQueen, ufficialmente uscito nel 2008, raggiunge le sale italiane soltanto nel 2012. I diritti di distribuzione vengono acquistati da Bim che vuole sfruttare la scia del successo di Shame, secondo film del regista.
Il film è ambientato nel carcere di Long Kash, Irlanda del Nord, dove alcuni detenuti, capeggiati da Bobby Sands (Michael Fassbender), vengono brutalmente maltrattati e internati senza processo. La loro lotta prevede continui scioperi con lo scopo di ottenere lo status di prigionieri politici.
Nel cosiddetto conflitto nordirlandese, conosciuto meglio come the troubles (i disordini), scaturirono forti tensioni e scontri tra la minoranza irlandese cattolica e la maggioranza protestante. Tuttavia gli eventi storici vengono trattati in modo velato, fungendo da contorno di un’opera che potrebbe risultare, agli occhi dello spettatore, un ordinario prison movie.
Tutto sembra rientrare nell’intento del regista che ha come obiettivo quello di trasmettere una percezione fisica durante la visione. Ragione per cui lo spettatore non viene informato, in modo specifico e dettagliato, sulle dinamiche storiche, ma si ritrova immerso in una dimensione claustrofobica dove non esiste più dignità nei confronti dell’essere umano. Il rumore dei manganelli che battono sugli scudi, la scopa che spazza gli escrementi dei prigionieri, le percosse e le grida di dolore sono la colonna sonora del film che alimenta l’esperienza sensoriale traumatica dello spettatore.
La quasi totale assenza di dialoghi è sintomo di un’umanità disumana, che non è più in grado di comunicare affinché si possa trovare un comune accordo. L’unico essere vivente con la facoltà di proferire parola regredisce ad uno status primordiale, dove tutto si conquista con la violenza. Rimane solo il sangue sulle nocche dolenti, tanto più sanguinanti quante sono le percosse inflitte, l’odore di escrementi e di urina e un silenzio assordante.

Questo silenzio viene rotto nella scena del dialogo tra il prete e Bobby: un longtake sbalorditivo dove le parole riacquistano un senso, scorrono impetuose come un fiume in piena, e dove si intravede un bagliore di umanità che rifiorisce. Bobby mostra fermezza morale nel comunicare la decisione di uno sciopero della fame.
Lo spettatore, nell’ultima parte di Hunger, assisterà a un lento e tedioso decomponimento del corpo, sempre più osseo, del protagonista. Steve McQueen sceglie di tornare al silenzio, dove le parole non servono più, in quanto lascia spazio al raccontare attraverso l’enorme potenza espressiva di immagini e suoni. Michael Fassbender, in stato di grazia, ci dona una delle sue interpretazioni più riuscite, arrivando a perdere 18kg, trasmettendo tutto il suo lacerante dolore.
The Handmaiden: 3 anni dopo

Nella corea degli anni Trenta, sotto la dominazione giapponese, Sook-Hee viene assunta come domestica nella sontuosa dimora di Lady Hideko, un’ereditiera giapponese. Sook-Hee è segretamente coinvolta, sin dall’inizio, dal conte Fujiwara nella messinscena di un piano diabolico per defraudarla.
Il film di Park Chan-wook approda nelle nostre sale il 29 Agosto 2019, ben tre anni dopo, distribuito da Altre storie con il titolo di Mademoiselle, nonostante si tratti, per questa volta, di un regista abbastanza noto e affermato nel nostro paese grazie anche al successo di Old Boy (distribuito, tra l’altro, due anni dopo l’uscita ufficiale in Corea del Sud).
The Handmaiden è suddiviso in tre capitoli in cui assistiamo a continui colpi di scena, dati dai continui giochi di ruolo che i personaggi mettono in atto per raggiungere i loro scopi.

Il canone estetico è elevato a potenza grazie a una cura estrema della messinscena delle scenografie, del trucco, dei costumi e della simmetria delle immagini. Questa perfezione nella forma potrebbe essere un simbolo della volontà dell’essere umano di mostrarsi, in apparenza, come un essere impeccabile, senza sbavature. Ma dietro stanze arredate ineccepibilmente, dietro il trucco di affascinanti visi e dietro un abito che calza a pennello si cela tutta la falsità dell’uomo, abile nel fare il doppiogioco per ingannare e giungere, così, ai propri scopi individuali.
Park-Chan Wook dipinge un mondo misogino dove le figure maschili, fortemente negative, vogliono affermare a tutti i costi la loro superiorità. Fin da piccola orfana dei genitori, Hideko, subisce un’educazione totalitarista da parte del sadico zio, un collezionista di libri erotici, che vuole sposarla per impossessarsi della sua eredità. Saranno le donne il polo positivo della vicenda. L’uomo ambisce avidamente a esaudire i propri desideri e obiettivi per il bene individuale, riducendo gli altri (soprattutto le donne) a meri oggetti da manipolare, escludendo dalla propria vita ogni autentico rapporto umano. La donna, invece, porta con sé l’idea di un mondo dominato dall’amore reciproco.
Il castello nel cielo: 26 anni dopo

Nel 1986 usciva in Giappone il terzo lungometraggio di Hayao Miyazaki. In italia nel 2012, ben 26 anni dopo, approda finalmente nei nostri cinema Il castello nel cielo, distribuito da Lucky Red.
Il film è ispirato liberamente a due romanzi che appartengono alla letteratura europea: I viaggi di Gulliver e L’isola del tesoro.
Pazu, un bambino rimasto orfano, mentre lavora in miniera vede cadere dal cielo la fanciulla Sheeta, sfuggita dalle grinfie dall’avido colonnello Muska. Quest’ultimo desidera bramosamente la pietra preziosa che Sheeta porta al collo, poiché si rivela la chiave per raggiungere Laputa: un antico castello nel cielo ricco di tesori e di curiosi segreti. I due bambini decidono quindi di spiccare il volo alla ricerca di Laputa, cercando di sfuggire all’esercito del colonello e dai pirati, anch’essi interessati alla pietra.
Miyazaki dà sfoggio a tutta la sua creatività, dirigendo un film di un elevato livello d’intrattenimento, dotato di un’eccezionale animazione, con effetti visivi davvero virtuosi. La bellezza dell’opera risiede anche nelle sue tematiche molto adulte e pessimiste: il falso progresso industriale, la precarietà delle masse operaie, l’avidità dell’uomo e la grande perdita di un rapporto primordiale con la natura.
Le tematiche ambientali, d’altra parte, sono uno degli elementi sempre presenti nel cinema di Miyazaki, insieme alle tematiche del volo, la sua traccia stilistica più personale, metafora di libertà e autonomia (non a caso la sequenza iniziale si apre con una battaglia in cielo).

I robot muti, difensori di Laputa e quindi dell’habitat naturale, sono l’emblema del discorso legato all’ambiente. Essi in una scena del film proteggono un nido d’uccelli, trasmettendo una sensibilità maggiore rispetto a quella degli esseri umani.
La speranza dell’umanità non deriva dal mondo adulto, anzi, è sempre quello infantile a impartire lezione etiche e morali: proprio per questo lo spettatore è pronto a volare via insieme ai protagonisti per sfuggire da un mondo crudele.
Matteo Malaisi