Uno e centomila: il Silvio Berlusconi di Loro
16/11/2020

Prima, appare come immagine: è un tatuaggio che marchia il fondoschiena di una ragazza. 
Poi, è parola orale e scritta (LUI) che orienta i discorsi e accende lo schermo di un cellulare.
Infine, è corpo e voce femminile, maschera sorridente truccata da odalisca.

È attraverso forme suppletive di presenza che viene presentato Silvio Berlusconi nella prima parte di Loro 1 di Paolo Sorrentino: l’uomo di potere, fuori campo e fuori fuoco, è icona simbolica, illuminazione schermica e travestimento giocoso. La sua assenza è il centro magnetico attorno cui ruotano loro, come pianeti attorno al sole che, in un falso movimento (si spostano sempre, senza andare da nessuna parte), aspettano di essere illuminati dalla luce dei suoi raggi. 

Durante l’intero film, Silvio Berlusconi si fa altro da sé e la camaleontica assunzione di apparenze molteplici diviene il tratto distintivo della sua messinscena. L’unica cosa che importa, come dice al nipote, è essere creduti. E se la mentalità media del pubblico italiano – spirato intellettualmente come quella pecora che, per sineddoche, rappresenta il gregge umano – è quella di uno studente che non siede nemmeno nei primi banchi, il gioco manipolatorio della verità è ancora più semplice.

In Loro 2, il vero protagonista è lui, in una caleidoscopica moltiplicazione della propria presenza. 
Nel campo-controcampo che apre il film, Toni Servillo interpreta sia Silvio Berlusconi, sia Ennio Doris, come se l’ego ipertrofico dell’uomo di potere potesse vedere nell’altro da sé sempre e solo una conferma positiva di se stesso. Silvio diventa Augusto Pallotta quando vende telefonicamente un sogno e promette una vita che può farsi fiction televisiva. La cancellazione di ogni differenza tra reale e finzionale è la strategia persuasiva per continuare a vivere senza rivelarsi. È in questa logica che l’altruismo è il miglior modo per essere egoisti. È in base a questa coincidenza di significati che i brandelli di spazzatura possono tramutarsi in pillole di mdma e che la cacca pestata potrebbe essere terriccio, ma anche qualsiasi altra cosa. L’irruzione del reale (lo sporco e il fetore) può sempre essere sospesa in ralenti nelle forme immaginarie dell’apparire e tramutarsi in onda pervasiva anestetizzante e disinibente.

Non è un caso che due riferimenti letterari presenti nel film guardino all’universo narrativo di José Saramago: se L’uomo duplicato si fa primissimo piano che demistifica l’unicità identitaria dell’essere umano, Cecità è il campo lunghissimo che inquadra quell’epidemia trentennale di egoismo e narcisismo che ha appannato i loro (ma anche i nostri) sguardi.

Ennio Doris dice che nessuno cambia e che nessuno è in grado di uscire da se stesso. 
Veronica Lario accusa il marito di essere una lunghissima e ininterrotta messinscena. 
La vita come fiction, intrappolata nella ragnatela del gioco delle parti, è eterno ritorno dell’uguale, camuffamento dell’identico che è destinato a perdere il proprio incanto per accartocciarsi nella ripetizione di un patetico disincanto. Un po’ come quel vulcano artificiale che, alla fine, dopo tante promesse, erutta: l’unico a ammirare e a specchiarsi in quel getto, spettacolare, ma finto, è lui. Rimasto ormai solo, in un primo piano che lo mostra con più capelli e più cerone che mai. Eternamente sorridente, come da copione.

Sara Colombini

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