Sempre alla ricerca di ospiti di grande richiamo che si raccontino all’interno degli incontri popolati dagli spettatori più attenti e curiosi, il Lucca Film Festival e Europa Cinema 2016 ha avuto modo di invitare e far raccontare di sé Paolo Sorrentino. Il premio Oscar italiano, durante la conferenza da lui presieduta, tra le risposte alle numerose domande del pubblico ha paragonato la vita umana a un lunghissimo piano-sequenza, ripercorrendo a grandi linee la sua carriera e svelando qualche piccolo aneddoto sul suo amore per il cinema.
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— LongTake (@LongTakeIt) April 8, 2016
Come è nato il suo amore per il cinema?
Il cinema è una passione che ho iniziato a coltivare dall’età di diciott’anni. Sentivo il bisogno di esprimermi ma le altre arti necessitavano di un impegno eccessivo. Una volta capito che col cinema avrei potuto fare tutto un po’ maluccio, allora è stato un colpo di fulmine. Ho iniziato come sceneggiatore perché a causa della mia pigrizia non pensavo di poter fare altri lavori: scrivere i copioni mi permetteva di non dover uscire di casa per le riprese (a proposito, un domani vorrei tornare semplicemente a scrivere). Mi sembrava inverosimile fare il regista perché non pensavo di avere l’indole adatta.
Da giovane chi erano i registi che la ispiravano maggiormente?
Fellini, Scorsese e Truffaut. Gli stessi registi che mi piacciono tutt’ora. Aggiungo anche Paul Thomas Anderson, Jim Jarmusch e i fratelli Coen. Come spettatore però ho molte lacune, a partire dal cinema orientale.
Come ha imparato a fare il regista?
Ho imparato vedendo molti film brutti e di conseguenza intuendo ciò che non si deve fare. La cosa più difficile è stata rapportarsi con gli attori, non avevo esperienza in quel campo e si tratta sicuramente di una componente di lavoro molto più complessa e delicata che realizzare delle inquadrature. Servillo mi ha aiutato molto sotto questo punto di vista. Io e lui siamo in ottima sintonia, ridiamo molto insieme e abbiamo lo stesso atteggiamento sul set: non ci prendiamo mai troppo sul serio.
Vorrei ora farle una domanda su Il divo: come mai ha deciso di realizzare un film simile in un delicato momento della Storia italiana come quello che stavamo vivendo alla fine degli anni Dieci?
L’idea mi è nata mentre sfogliavo un libro di Roberto Gervaso in cui vi era un’intervista a Giulio Andreotti nella quale si diceva che il politico rispondeva alle domande a occhi chiusi. L’ho trovata una curiosità molto suggestiva. Da lì, quindi, ho iniziato una lunga fase di ricerche e di documentazione e man mano che lavoravo al progetto ho subito diverse intimidazioni e proposte di baratto: “Se togli quella scena ti dirò una verità che non sai su Riinaâ€. Le riprese sono state rimandate più volte e le minacce di querela non sono tardate.
Veniamo a This Must Be the Place: come mai ha optato per girare un film in inglese a quel punto della sua carriera?
Volevo realizzare un’opera in inglese anche per imparare la lingua… Sean Penn era il presidente di giuria a Cannes quando venne proiettato Il divo. In quell’occasione l’attore mi confessò che avrebbe intrapreso qualsiasi cosa con me: l’ha detto alle 4 di notte, dopo molti superalcolici, ma in realtà era vero. Così approfittai e gli mandai la sceneggiatura. Realizzare quel film è stata una delle esperienze più belle della mia carriera ed è stato molto avventuroso lavorare con lui che per me è uno dei migliori attori di sempre.
Può ora raccontarci qualcosa su La grande bellezza?
La grande bellezza è stato proprio un momento felice, il sentimento della città è esattamente il sentimento che noi vivemmo facendo quel film. Abbiamo girato in estate mentre tutti erano via per le vacanze e tutto quello che si vede nel film corrisponde allo stato d’animo che avevamo mentre lo realizzavamo. Inoltre, la stagione dei premi è stata indimenticabile: è un lavoro a parte accompagnare il film alle varie premiazioni.
Che rapporto ha con Roma, lei che invece è di origini napoletane?
Ho un rapporto turistico, ci sono arrivato tardi, pochi anni fa. Per questo motivo mi sento ancora un turista. Per me Roma è una continua scoperta.
Youth – La giovinezza è il suo secondo film in inglese: è stato più facile gestire i rapporti con gli attori rispetto a This Must Be the Place?
È stato facile, ma il merito è della grandezza degli interpreti che si sono rivelati ottimi anche per la loro capacità di riuscire a relazionarsi al meglio con il regista. Michael Caine, ad esempio, condivide con me le stesse passioni, quindi è stato davvero semplice rapportarmi con lui. Con Harvey Keitel invece ho avuto qualche difficoltà in più perché lui è un attore molto legato al metodo e a dei procedimenti di lavorazione totalmente americani che io conosco solo in parte.