Tom Hanks incanta la festa del cinema di Roma: "Sono l'attore più fortunato del mondo"
14/10/2016

Tom Hanks ha inaugurato l’undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma col suo entusiasmo e le sue doti da intrattenitore di razza, dando spettacolo sia in conferenza stampa che nel corso dell’Incontro Ravvicinato che l’ha visto dialogare col direttore artistico della Festa Antonio Monda sulla sua gloriosa e lunghissima esperienza nel cinema e ricevere dalle mani di Claudia Cardinale un premio speciale alla carriera. Un vero e proprio uragano di contagiosa simpatia, un corpo e un volto eclettico e multiforme che ha segnato la storia e l’immaginario collettivo del cinema contemporaneo come nessun altro. L’attore di Oakland saluta in italiano, gigioneggia, imita l’accento maccheronico dei giornalisti italiani che ha incontrato nel corso degli anni e si gode le tante attenzioni che si riversano su di lui nel primo giorno della kermesse romana.

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Mister Hanks, che idea si è fatto delle presidenziali americane? 

Ogni quattro anni, negli Stati Uniti, arriva un vero e proprio circo che poi ci porta a decidere chi sarà il nostro nuovo presidente. Questa volta però, a differenza delle altre occasioni, stiamo assistendo al festival della merda 2016, perché non abbiamo mai avuto un candidato così autoreferenziale, con idee così assurde e spropositate. In particolare quest’anno c’è un candidato sul quale gli americani non vogliono né vorranno investire. L’ignoranza non è solo politica, ma soprattutto generale; è vero che la verità rende liberi, ma l’ignoranza altro non è che un’assenza di libertà. Quando alcuni giornalisti italiani mi chiedono: “Ma perché Trump?â€, io rispondo sempre: “Perché Berlusconi, allora?â€.

Se dovesse fare un bilancio dei suoi trent’anni di carriera, cosa direbbe?

Non ripenso mai ai miei film, tanto restano uguali e non c’è possibilità di cambiarli. Vista la mia carriera, oggi posso dire di essere l’attore più fortunato al mondo, ma il successo di un attore si misura sempre con la sua longevità artistica. Quando hai 14 anni devi andare a scuola, non hai scelta. Riuscivo a sopportare il fatto di non essere accademicamente dotato continuando a sorridere, era l’unica possibilità che avevo perché non c’era molto da divertirsi con la matematica, la sociologia e l’inglese. Poi ho scoperto la recitazione, ho colto il trucco che c’era dietro e mi sono divertito fin da subito, ottenendo il massimo dei voti. Ho iniziato divertendomi e non ho smesso mai più.

Qual è la cosa più difficile nell’essere un attore? 

Dire no. Dire di sì è invece facilissimo, perché ti pagano bene, perché puoi baciare una bella donna o visitare una nuova città che non conoscevi prima, ma bisogna stare attenti perché alcune volte, soprattutto per certi film, ci sono degli aspetti che non ti interessano e che non richiedono una passione assoluta, per cui devi sapere come relazionarti con le cose. Se la passione manca, in ogni caso, bisogna dire di no.

Lei è anche un nonno. Che rapporto ha con i suoi nipotini? 

Cerco, come tutti i nonni, di giocare con loro, di rendermi speciale e di sembrare tale ai loro occhi. Non ci riesco affatto, tento di far capire loro che sono una persona conosciuta e importante ma per loro sono sempre la voce di Woody, il cowboy protagonista di Toy Story, quella cosa che ogni tanto appare alla tv. Ad ogni modo adoro i miei nipoti, perché sono più divertenti di Fellini. Scrivete pure questa cosa, già che ci siete date pure questo titolo ai vostri articoli!

Lei ha recitato per Clint Eastwood nel suo ultimo film da regista, Sully.

Clint è una delle persone più straordinarie che abbia mai incontrato. Ha girato dei film classici come Mystic River che sono delle opere magnifiche, atemporali, terse, che sembrano calate direttamente da un’altra epoca. Clint lavora sempre con le stesse persone da tanti anni e sui suoi set regna una calma incredibile, un silenzio enorme, dove tutti conoscono a menadito il modo in cui lui si muoverà o quello che farà in un determinato contesto, visto che sui set le azioni si ripetono sempre uguali e si perde anche molto tempo. Lui ha passato talmente tanto di quel tempo su tantissimi set che oggi non ha voglia di sprecarne poi così tanto. Sul suo set Clint parla pianissimo, non strilla “Azione!†o “Stop!†ma pronuncia solo due parole, “Vai†all’inizio e “Ok†alla fine. Con lui non si fanno prove, non si parla del tuo personaggio. Ti guarda e ti dice semplicemente: “Fammi vedere che sai fareâ€, e poi al massimo: “Rifalloâ€.

Coma ha vissuto la tragica scomparsa di Philip Seymour Hoffman, che ha lavorato con lei ne La guerra di Charlie Wilson di Mike Nichols, anche lui scomparso di recente?

Il cinema ha subito una grande perdita quando è morto Philip. Lui era un mistero. Entrava nel personaggio, lo faceva suo, eppure era una persona a cui ci si poteva avvicinare con facilità. Tuttavia era come posseduto, i giorni che ho passato con lui sul set de La guerra di Charlie Wilson sono stati i più stimolanti della mia vita…

Cosa ricorda di Music Graffiti, suo esordio alla regia in un lungometraggio per il cinema?

L’ ho diretto perché amavo molto l’epoca in cui è ambientato, i primi anni Sessanta, ero interessato a quelle band e a cosa accade alle meteore che vengono fagocitate dal mondo dello spettacolo. Quando pensi a una band, la vedi come un insieme di persone legatissime, che vivono in simbiosi. Invece ho conosciuto tanti gruppi in cui tutti si detestavano tra di loro, era a dir poco incredibile. Chiunque fa il regista lo fa perché ha una profonda passione per una storia e lo fa assumendosi delle precise responsabilità della regia. Ogni attore dovrebbe fare il regista e viceversa, perché così ognuno capirebbe quant’è duro il lavoro dell’altro.

Cosa può dirci invece invece della telefonata con Di Caprio in Prova a prendermi, film del suo grande amico Steven Spielberg col quale ha girato ben quattro film?

Spielberg guarda il mondo da un punto di vista cinematografico e comunica per mezzo del cinema. Gli interessa sempre raccontare le storie visivamente e noi attori possiamo solo assecondare questa volontà. Ecco perché io e Leo ci siamo limiti a servire il flusso visivo ed emotivo voluto da Spielberg, trascendendo enormemente la dimensione consueta di una conversazione normale tra due uomini.

Una delle sue interpretazioni più iconiche resta indubbiamente Cast Away di Robert Zemeckis. 

Di quel film sono stato anche produttore e abbiamo impiegato cinque anni per terminare la storia perché non riuscivamo a sviluppare a dovere il terzo atto. Due terzi del film ce l’avevamo già ed era tutto perfetto: Fedex, l’incidente, la solitudine del personaggio. A un certo punto ci siamo detti tra di noi: “Ci sono cinque cose fondamentali nella vita di un uomo: l’acqua, il cibo, un riparo, il fuoco, l’amicizia”. Così abbiamo pensato a un amico per il naufrago. Prima ci è venuto in mente di costruire uno spaventapasseri, ma non ci ha convinto fino in fondo e dopo un anno abbiamo inventato Wilson, dicendoci mentre lo creavamo che doveva essere impregnato del sangue del protagonista, per cui la mia mano insanguinata è diventata il suo volto e lui è diventato anche mio figlio.

In chiusura, forse banalmente: cos’è per lei la vita?

La vita è una sequenza interminabile di eventi in cui si nuota o si affoga. C’è solo una cosa da fare: comportarsi bene, seguire le procedure ed essere in sintonia con quello che ti accade intorno.

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