Kuroneko
Yabu no naka no kuroneko
1968
Paese
Giappone
Generi
Horror, Drammatico
Durata
99 min.
Formato
Bianco e Nero
Regista
Kaneto Shindō
Attori
Kichiemon Nakamura
Nobuko Otowa
Kei Satō
Kiwako Taichi
Taiji Tonoyama
Periodo Heian. Derubate, violentate e uccise da un gruppo di samurai, Yone (Nobuko Otowa) e Shige (Kiwako Taichi) tornano come vendicativi fantasmi dai tratti felini. A sconfiggerle verrà inviato Gintoki (Kichiemon Nakamura), valoroso samurai appena tornato dalla guerra nonché figlio di Yone e marito di Shige. Liberamente tratto da un antico racconto tradizionale intitolato La vendetta del gatto, il film di Kaneto Shindō si inserisce nell'ampia categoria del kaidan eiga (film di fantasmi giapponesi) e più precisamente nel cosiddetto bakeneko eiga (film di gatti fantasma) di cui, insieme a Black Cat Mansion (1958) di Nobuo Nakagawa, costituisce uno degli esempi più riusciti. Come già in Onibaba (1964), anche qui Shindō racconta di due donne spietate — una madre e una nuora — che vivono in una casa circondata dalla vegetazione uccidendo brutalmente ogni samurai di passaggio. Che nel primo caso siano vive e nel secondo morte, o che da una parte agiscano per istinto di sopravvivenza e dall'altra per sete di vendetta, poco importa. Per il regista la questione presenta importanti risvolti sociali se non addirittura politici: circondate da una guerra che non le riguarda e che le ha ridotte in miseria, le donne si riprendono ciò che è loro direttamente dai responsabili della loro rovina, samurai arroganti, cialtroni e in ultima battuta anche codardi: va finalmente in scena la violenta reazione femminile nei confronti dei secolari soprusi maschili. Ricco di contaminazioni teatrali che vanno dalla presenza della danza all'utilizzo di corde per sollevare i personaggi, il film ricorre abilmente a un vasto campionario di strumenti prettamente cinematografici (dissolvenze, sovrapposizioni, trasparenze, montaggio ellittico, bianco e nero contrastato) per creare efficaci atmosfere sospese e fantasmatiche, restituendo allo spettatore momenti di intensa inquietudine. Rigoroso e ieratico come non mai, Shindō realizza una pellicola dolente e malinconica, dal carattere impalpabile e rarefatto, a suo modo unica e dotata di un fascino semplicemente straordinario. Con i dovuti aggiornamenti — le vittime non saranno più samurai ma funzionari pubblici — il regista riutilizzerà una struttura narrativa simile nel suo tardo e poco noto Fukurō (2003), che con questo e il precedente Onibaba costituirà un'ideale trilogia.
Maximal Interjector
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