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Alberto Sordi e "Lo scopone scientifico", tra lotta di classe e scontri attoriali

«Trovo che Lo scopone scientifico sia una favola molto giusta sulla lotta dei deboli contro i potenti.» (Luigi Comencini)

Era il 1972 quando Luigi Comencini realizzò Lo scopone scientifico, sorta di fiaba moderna inserita in un contesto politicamente e storicamente assai difficile per l'Italia: gli anni di piombo, con tutto il loro carico di instabilità e violenza, iniziavano a premere feroci, destabilizzando le basi sociali. Comencini, però, coadiuvato da Rodolfo Sonego in sede di scrittura, non era interessato a un film prettamente politico: ciò che lo spingeva era la volontà di delineare la condizione desolata dei più indifesi, quelli più esposti alle brutture del mondo. E bruttura, nel caso specifico, significa capitalismo: ovvio, quindi, che l'intenzione iniziale, pur pensata come apologo favolistico, viene in parte, e coerentemente, tradita per far emergere violentemente il concetto di lotta di classe.

Una lotta di classe per i proletari Peppino e Antonia, i quali ogni anno attendono con trepidazione l'arrivo di un'anziana miliardaria che, puntualmente, li sfida a un tour de force di scopone scientifico. Un ciclo continuo e infinito, perché l'illusione di poter uscire dalla povertà grazie a una vincita da capogiro si trasforma sempre in cocente sconfitta: la volontà e l'impegno dei due coniugi nulla possono contro la forza del denaro posseduto dalla vecchia (la quale incarna significativamente le caratteristiche di una fiabesca strega).

A prestare un volto dimesso ed emaciato a Peppino, uno straordinario Alberto Sordi, lontano da eccessi caricaturali che tanto lo resero celebre e pronto a trasformarsi in un differente tipo di maschera, la maschera della disperazione che si fonde e confonde con la voglia di riscatto; lo affianca Silvana Mangano, splendida e aristocratica sotto le vesti del basso proletariato, amica di una vita e compagna sempre desiderata dall'attore romano, che per lei nutriva una vera e propria venerazione. Il comparto americano è formato da Bette Davis e Joseph Cotten, di nuovo insieme dopo Peccato (1949) e Piano... piano, dolce Carlotta (1964): la prima crudele e dittatoriale, il secondo fragile e sottomesso (richiami wilderiani da Viale del tramonto), pronto a tutto pur di compiacere l'amata padrona. Italia contro America: molta critica ha voluto vedere in questa lotta una scoperta metafora dei rapporti tra i due Paesi, e ciò è senz'altro in parte veritiero. Ma ciò che colpisce maggiormente è la sfida attoriale che viene messa in scena, con riverberi anche nella vita reale: «Alberto Sordi lo avevo soprannominato Alberto Sordid. Ho trovato imperdonabile il suo rifiuto di parlare in inglese con me, visto e considerato che parlava un ottimo inglese», queste le parole di una risentita Davis. D'altra parte è nota l'avversione di Sordi per certe tecniche interpretative targate USA: si racconta che, sul set di Un borghese piccolo piccolo, Albertone guardasse con comico scetticismo (e mentre mangiava un panino con la mortadella) la collega Shelley Winters impegnata ad adottare il metodo Strasberg per calarsi nella parte.

Il fallimento del mito della seconda occasione: elemento tratteggiato quasi con furore da Comencini, ed esaltato da un linguaggio spiccatamente dialettale. E qui sta la vera svolta del film: l'assegnazione della parlata romanesca anche al mondo infantile, da sempre guardato con molta attenzione dal regista. Non a caso, la svolta narrativa è compiuta grazie alla piccola Cleopatra (Antonella Di Maggio), «l'unica a possedere la verità. Ha un senso preciso della realtà, vede le cose come sono, non vive nella stessa illusione della sua famiglia e di tutto il tessuto sociale della baraccopoli in cui si trova: illusione che li porta tutti alla follia».


Sara Barbieri

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