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Viaggio nel cinema di Alberto Sordi — Storia di un italiano
«Non è un uomo colto. Non ha letto niente. Ma ha un colpo d'occhio infallibile. È un animale selvaggio, un animale del bosco che ci vede anche di notte». (Rodolfo Sonego)

A queste parole, attribuite allo sceneggiatore che più di ogni altri ha stabilito con lui un rapporto simbiotico di proporzioni quasi ancestrali, affidiamo l'incipit di un breve viaggio nellle interpretazioni fondamentali della sterminata carriera di Alberto Sordi, che nella nostra pagina-profilo dedifiniamo "simbolo di una romanità verace e sanguigna, è uno dei grandi interpreti della commedia nazionale ed evidenzia mediante il suo stile recitativo le meschinerie tipiche dell'italiano medio". Sordi, nato a Roma nel quartiere Trastevere esattamente un secolo fa (il 15 giugno 1920) è stato tutto questo e molto altro: un camaleonte, una maschera e un totem, ma anche un volto e un archetipo vivente, dal respiro al contempo infinito e infinitesimale. Un'icona popolare in grado di passare in rassegna ogni prototipo di italiano esistente in natura, cambiando sempre rimanendo sempre uguale a se stesso. 

A prescindere dai gusti di ciascuno, e dalla presenza di questo o quel film (inserirli tutti, data la mole della filmografia sordiana, sarebbe stato impossibile), ecco 20 film - e 20 scene - che non hanno alcuna pretesa di esaustività ma piuttosto il desiderio di evidenziare il metodo Sordi e le molteplici sfaccettature e declinazioni delle sue incarnazioni cinematografiche.

UN AMERICANO A ROMA, Steno (1954)

Nell'Italia del 1954, Nando Mericoni è un giovanotto romano che vuol vivere come un americano, parlando con frasi dei film di Hollywood, modificando il proprio accento e mangiando yogurt, marmellata e mostarda. Un personaggio nato da un episodio del precedente Un giorno in pretura (1953) e che è già un avamposto e una sintesi ideale delle più iconiche gigionerie di Alberto Sordi, qui buffo e logorroico, irresistibile e ridicolo, oltre che capace di catturare con leggerezza e ironia una degli assunti più paradossali dell'italianità di ogni tempo: l'esterofilia, molto spesso, è la più alta e disarmante forma di provincialismo. Ll'Italia pre-boom economico, ancora imberbe e satolla, nonché incurante delle conseguenze, guarda alla America, mentre Sordi condensa già qui tutti i suoi guizzi rapaci, da vero fuoriclasse della deformazione a effetto.


 
 L'ARTE DI ARRANGIARSI, Luigi Zampa (1954) 

Il catanese amante della bella vita Rosario Scimoni (Alberto Sordi), nipote del sindaco, è un maestro nell'arte di arrangiarsi: per raggiungere i propri obiettivi, l'uomo è disposto a diventare socialista, fascista o comunista solo in base alla convenienza, all'insegna di una esistenza composta esclusivamente da scorciatoie. Nello stesso anno della sua morte, Vitaliano Brancati (marito di Anna Proclemer) firma una delle sue ultime sceneggiature (qui al fianco di Zampa), chiudendo la trilogia composta da Anni difficili (1948) e Anni facili (1953). Sordi prende su di sé un personaggio ispido e meschino, dalle ricadute morali asperrime, in cui nessuno vorrebbe rivedersi ma nel quale fatalmente un po' tutti possono riconoscersi e specchiarsi. Al di là del facile o del difficile, della retorica dell'espediente e della dittatura dell'indigenza, per l'italiano qualunque sordiano conta indirizzare gli altri verso la propria convenienza e attraversare le ideologie come fossero fondali intercambiabili (uno schema, di pensiero e di azione, al quale il film di Zampa si assoggetta). Si guardi questa scena, in cui la follia e le nevrosi simulate la fanno da padrone per gli scopi più utilitaristici e personali, e la maschera di Sordi si erge a deus ex machina trattando la realtà come un punchball.



UN EROE DEI NOSTRI TEMPI, Mario Monicelli (1955) 

Alberto Menichetti (Alberto Sordi) è un fifone patentato che vive con l'anziana zia e un'attempata domestica. Più l'uomo cerca di stare lontano dai guai, più li attira e ne rimane coinvolto. Al grido di «Allora me volete incastrà!» il protagonista, incarnato magistralmente da Alberto Sordi, è il simbolo di un italiano fastidioso e timoroso che cerca di affermarsi con furbizia e meschinità. Sono lontani anni luce i poveri diavoli di Guardie e ladri (1951): quella che fotografa Monicelli (qui alla sceneggiatura con Sonego) è una società trasformata dall'arrivismo più spietato. Sordi e Franca Valeri dividono la scena con la sua abilità nell'intrattenere con maestria affilando contemporaneamente gli artigli della critica sociale e di costume (il dialogo tra i due sulla tomba del marito defunto è senza scampo) e Albertone ci regala una piccola, folgorante sequenza non così ricordata ma da antologia, quella dell'ovetto: raffigurazione plastica di quei vezzi culinari ombelicali e immarcescibili, invocati con la voce che si spezza e la tensione della propria mediocrità che si scioglie teneramente nell'appagamento del feticcio infantile (una scena da ricollegare assolutamente a quella del baccalà in Detenuto in attesa di giudizio, segnalata più avanti).



ACCADDE AL PENITENZIARIO, Giorgio Bianchi (1955)

Bollare "la tipica inesperienza di colui che fa le veci" con atteggiamento provocatorio è la miccia di una delle scene comiche più piroteniche e spassose di tutto il cinema di Sordi, recitata con una scioltezza forsennata e una fluidità dei tempi (non solo comici) che da sole basterebbero a sancirne la grandezza. La "laurea presa in India a tempo di guerra" del vice-commissarrio e la sfacciataggine beona e contagiosa, ma con un lato oscuro decisamente sinistro e pronunciato, del personaggio di Sordi - tal Giulio Parmitoni - parlano da sole, ma l'attore in quest'occasione porta sullo schermo anche una delle sue caratterizzazioni giovanili più efficaci, sintesi di simpatia e sgradevolezza: Giulio è un ragazzo che si aggira bighellonando per Roma, dando fastidio a guardie notturne, tassisti e prostitute, rimanendo invischiato anche in una rapina. E naturalmente non è uscito dal suo rifugio quando è finita la guerra, ma quando è finito il vino: peccato che in lui, da ubriaco o da sobrio, cambi davvero poco. Il Sordi alticcio, tuttavia, è a dir poco memorabile, tanto che a lui s'ispirò anche Robert De Niro, affermando di non aver mai visto un attore recitare così bene da ubriaco. "Chiamalo goccetto, chiamalo".



PICCOLA POSTA, Steno (1955) 

Intorno a una seguita rubrica in cui Lady Eva (Franca Valeri) dispensa consigli a donne di ogni età e classe si dipanano varie vicende: un vigile urbano (Peppino De Filippo), esasperato dagli effetti dei consigli della donna sulla moglie, e i magheggi del cinico proprietario (Alberto Sordi) di un'elegante (all'apparenza) casa di riposo. Commedia scatenata, a tratti irresistibile anche se un po’ troppo sgangherata, che conferma il talento artigianale di Steno e funge da vetrina per interpreti in forma smagliante. È caratterizzata da una comicità spesso cinica e che talvolta sfiora il surreale (la famosa sequenza del coro delle vecchiette, ma in generale tutti i momenti ambientati nell’ospizio), non così frequente nelle commedie italiane dell’epoca. L'interpretazione di Sordi è perfettamente raccordata a questo valzer in bilico tra sofisticherie e veleno per topi (per favore, non toccate le vecchiette avrebbe detto Mel Brooks in relazione alla scena che segue), con dalla sua un cinismo untuoso e funambolico che si riversa nell'eloquio del personaggio e nelle sue forbite bassezze: dalla "casa del Gaudio", paradiso di vecchie, al tormentone del "barone Rodolfo Vanzino di Castelfusano d'Arezzo" passando per la minaccia del "gelato da passeggio". Il suo personaggio di fatto entra in scena a metà film, ma ruba sguaitamente la scena diventando, forse, il vero focus morale della storia (e Franca Valeri, come sempre, è come minimo divina). 



LO SCAPOLO, Antonio Pietrangeli (1955) 

Roma. Paolo Anselmi (Alberto Sordi), ragioniere, è uno scapolo irriducibile che si circonda di donne sempre diverse, lavorando di fantasia per aumentare il numero delle sue conquiste. Dopo un malore notturno, si convincerà che è giunto il momento di trovare la compagna giusta. L'incontro tra il giovane Antonio Pietrangeli e Alberto Sordi, icona della commedia italiana, sortisce un piacevole effetto sorpresa, grazie anche alla collaborazione, in sede di scrittura, di Ruggero Maccari ed Ettore Scola (che firmano la sceneggiatura insieme al regista e ad Alessandro Continenza). Sordi vince anche il Nastro d'Argento come miglior attore protagonista e viene apprezzato dalla critica: il duetto con Nino Manfredi è tutto da gustare, per non parlare della scena del quiz al ristorante con la gag su Petrarca e della battuta sui Musei Vaticani, ma la scena più significativa del film è forse questa. In essa Sordi si ritira in sé stesso, si dà al soliloquio, si guarda e s'interroga letteralmente allo specchio; una sequenza che testimonia le possibilità riflessive e auto-riflessive della sua maschera in rapporto alla società italiana, e che Pietrangeli qui asseconda con la finezza di cui era capace, contenendo con amarezza l'istrionismo. "Uno non può mica sposare una donna solo perché è innamorata di lui. Ma poi che c'entra, fossi innamorato anch'io...Ma che sei innamorato? Sei innamorato?".
 


IL SEGNO DI VENERE, Dino Risi (1955)

C'è poco da fare: gli anni '50 sono forse il decennio che meglio rispecchia l'anima profonda di Sordi, le sue sottigliette più affilate e prodighe di sfumature, il carattere performativo della sua verve e del suo estro recitativo al servizio di meschinerie e piccinerie assortite, di vezzi così spesso (e volentieri) prossimi ai vizi. Ne è la prova anche questa deliziosa commedia di Dino Risi in cui Sordi non è protagonista, ma a esserlo sono Agnese Tirabassi (Sophia Loren) e Cesira Colombo (Franca Valeri), due cugine molto diverse: la prima è di una bellezza prorompente che non può evitare i pretendenti, mentre la seconda, ormai non più una ragazzina, cerca in tutti i modi di sistemarsi. Sordi, in cappello e cappotto, appare particolarmente in forma nei duetti con Peppino De Filippo, come in questa scena, nella quale la doppiezza delle sue locuzioni ed espressioni è amplificata dagli specchi presenti in scena, dal selvaggio e arruffato gioco a rimpiattino di offerte e proposte di vendita e naturalmente dalla maestria di Sordi, cui basta una vocale troncata a fine parola per aumentare a dismisura le ricadute comiche della sequenza. "Per la semplice ragion"



LA GRANDE GUERRA, Mario Monicelli (1959)

I soldati Oreste (Alberto Sordi) e Giovanni (Vittorio Gassman) sono chiamati al fronte nel 1916 per combattere la Prima guerra mondiale. Con scarsa volontà e senza nessun ideale, i due cercheranno in tutti i modi di stare lontani dalla prima linea, nel tentativo di tornare a casa vivi. Grande successo di pubblico e critica, a dimostrazione che la linea, seguita con personalità dal regista, non solo è coraggiosa (di fatto, questo è uno dei primi film italiani che racconta il primo conflitto mondiale, all'epoca ancora tabù), ma anche rappresentativa di una precisa corrente cinematografica. Straordinarie le prove di Sordi e Gassman, capaci di dare vita a due personaggi codardi ma profondamente umani che fanno spassosamente a gara per imboscarsi lontano dagli scontri, e memorabile sequenza finale in cui il regista riporta drammaticamente lo spettatore di fronte alla cruda realtà della guerra. In questa sequenza Sordi conferma la capacità di tirare le fila dell'economia delle singole e scene sempre e comunque, anche quando subalterno e impegnato a lavorare di rimessa. Anche se attore avvezzo a lavorare sopra le righe, spesso sapeva ottenere anche il massimo col minimo. Ottimo e abbondante. 



I MAGLIARI, Francesco Rosi (1959)

Ad Hannover per cercare lavoro, l'operaio toscano Mario Balducci (Renato Salvatori) si imbatte nel compatriota romano Totonno (Alberto Sordi), losco venditore di tessuti. Totonno è alle dipendenze di un gruppo di napoletani ma presto, con l'aiuto di Mario, deciderà di mettersi in proprio. Nel suo secondo lungometraggio, dopo La sfida (1958), Rosi torna a raccontare un fallimentare tentativo di scalata individuale ai vertici di una organizzazione malavitosa. Come Vito Polara nel film precedente, Totonno è l'elemento estraneo a un sistema di collusione che tenta di inserirsi nelle gerarchie esistenti. Romano dentro un gruppo di napoletani, non potrà che finire umiliato e offeso, emarginato dai capi del clan. Unica e insolita collaborazione tra Rosi e Alberto Sordi, qui al culmine della sua carriera e perfettamente calato nei panni dell'istrionico imbroglione italico, sospeso tra comicità e tragedia. Un Sordi dichiaratamente sociale, al servizio di un autore dichiaratamente d'impegno, civile senza smarrire la vocazione d'avanspettacolo. Come in questo monologo, collocato proprio all'inizio del film, in cui il personaggio di Sordi cita e ricita, si divide tra il fare e il disfare, enumera e cita, simula e dissimula, fa l'accento teutonico ed esalta il suo (presunto) eclettismo: un perfetto compendio del Sordi più scatenato e lanciato a mille all'ora, in controllo totale dei propri mezzi a prescindere da ogni coordinata e scansione.



IL VEDOVO, Dino Risi (1959)

Il vedovo è la commedia (all'italiana, e non solo) perfetta, un alternanza caustica di leggerezza e stoccate amare, divertita goduria e critica sociale. Alberto Nandi (Alberto Sordi) è uno scapestrato industriale romano che spera nella morte della ricca coniuge milanese Elvira Almiraghi (Franca Valeri) per ereditarne il patrimonio e salvarsi dai debiti. Quando la moglie parte per Ginevra e il suo treno precipita in un lago, Alberto è convinto di aver finalmente risolto i suoi problemi. Ma Elvira, per puro caso, ha perso il treno...Da un lato c'è lo sgradevole imprenditore romano trapiantato nel capoluogo lombardo interpretato da Sordi: un abile venditore di fumo, capace di dribblare qualsivoglia impegno economico sfoggiando un divertentissimo dialetto milanese. Dall'altra c'è la mordace e altrettanto sgradevole, per pignoleria e puntualità, Franca Valeri, perfettamente in parte nei panni della milanesotta di buona famiglia che non sopporta il marito, anzi lo compatisce (memorabile l'appellativo “cretinetti” con cui Elvira si rivolge abitualmente al marito). I due attori si divertono e divertono, giocando sui più comuni difetti degli italiani, in bilico costante tra dramma e commedia: Sordi, a conti fatti, non poteva che conservare il suo nome di battesimo in un ruolo così quintessenzialmente romano. Il finale, con ogni probabilità, è stato omaggiato anche da Woody Allen in Irrational Man, data la comune rilevanza data all'ascensore... 



TUTTI A CASA, Luigi Comencini (1960)

8 settembre 1943. Il generale Badoglio annuncia l'armistizio e scappa, lasciando l'esercito senza alcuna direttiva e allo sbando. I soldati esultano nelle caserme, pregustando già il ritorno a casa, ma non hanno fatto i conti con la nuova realtà appena mutata: i tedeschi adesso sono i nemici e il paese è spaccato in due dalla guerra civile. Il sottotenente Alberto Innocenzi (Alberto Sordi), disinteressato alle questioni politiche, cerca di tornare a casa, ma il viaggio attraverso un'Italia divisa gli aprirà gli occhi. C'è chi, come lui, pensa solo a se stesso e ai propri interessi, ma anche chi si prodiga e aiuta come può, donando vestiti, rifugio, vitto e alloggio, ma le cose cambieranno. La superba interpretazione di Alberto Sordi nei panni del protagonista esprime il meglio e il peggio dell'italiano medio e la sua evoluzione nel corso del lungometraggio lo porterà a una consapevolezza e a un senso di responsabilità che prima non aveva, dando al personaggio una componente dinamica da non sottovalutare. Questo film, oltre a essere una delle pietre miliari del Sordi attore, è il film che ne eleva a potenza la statura, qui al contempo dolce, tragica e funerea, trasformandolo in una sorta di maschera chapliniana con addosso le scorie e gli strascichi del conformismo e delle sue lusinghe e maledizioni da scongiurare. Perché non si può, e non si deve, stare sempre a guardare. 



IL VIGILE, Luigi Zampa (1960) 

Otello Celletti (Alberto Sordi) è un disoccupato che riesce a farsi assumere dal corpo dei vigili urbani. L'uomo, tronfio dell'inaspettata opportunità, dovrà però cavarsela con le ire del sindaco farfallone (Vittorio De Sica), multato per eccesso di velocità. Ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto, Il vigile è una commedia genuina e divertente che vale soprattutto per l'ennesimo personaggio iconico plasmato da Alberto Sordi. L'immagine dell'attore romano che veste goliardicamente la divisa della guardia municipale è rimasta nei decenni, anche per merito di una sceneggiatura (di Rodolfo Sonego, Ugo Guerra e lo stesso Zampa) capace attraverso l'ironia di raccontare amaramente un malcostume dilagante. Gli scambi tra Sordi e Vittorio De Sica sono ancora graffianti e di stretta attualità. Si tratta di uno degli esempi cristallini del Sordi più proteiforme, capace attraverso un singolo personaggio di inglobare limiti e contraccolpi morali di un numero indefinito (e ovviamente ennesimo, elevabile a potenza all'infinito) di persone, come ne Il medico della mutua
 


UNA VITA DIFFICILE, Dino Risi (1961) 

L'ex partigiano Silvio Magnozzi (Alberto Sordi) fa il giornalista in una testata di sinistra e ha sposato la provinciale Elena Pavinato (Lea Massari). Una vita fatta di pochi alti e tanti bassi, sempre all'insegna della dignità. Dino Risi racconta l'Italia dall'8 settembre '43 fino al boom economico, e lo fa lasciandosi (quasi) completamente alle spalle la commedia per gettarsi nelle fauci di un dramma malinconico senza precedenti. Silvio ed Elena sono due straordinari archetipi di un paese che con gli anni scompare nella nebbia del progresso, dimenticato dalle abbaglianti luci dell'opulenza ritrovata. Personaggi dalla dignità unica, che per loro natura, sono inevitabilmente costretti a fare la scelta più giusta (che però nella realtà equivale alla più dolorosa). Il merito va a una delle sceneggiature più intense e ficcanti del cinema italiano del dopoguerra, scritta da Rodolfo Sonego, solito geniaccio. Oltre a una Lea Massari asciutta e chirurgica nel calarsi in parte, è impossibile dimenticare uno dei personaggi a cui lo stesso Sordi era più affezionato (si tratta forse, in effetti, del suo ruolo e del suo film più bello): il suo Magnozzi spiazza fin da subito il pubblico, abituato a vedere l'attore sempre nei panni dell'egoista disposto al sotterfugio. Qui invece, a parte qualche tentennamento intrinseco e qualche sciagura involontaria, Sordi reagisce coraggiosamente d'istinto preferendo muoversi entro i limiti della sua coscienza. In questo senso, è indimenticabile la sequenza in cui l'attore romano sputa ubriaco e deluso sulle auto che passano nell'alba di Viareggio o l'esilarante cena dai nobili durante la proclamazione della Repubblica (galleria straordinaria di nostalgici mostri opportunisti).



IL BOOM, Vittorio De Sica (1963)

Bisognoso di liquidi per mantenere la moglie Silvia (Gianna Maria Canale) e incapace di gestire affari remunerativi, l'imprenditore Giovanni Alberti (Alberto Sordi) valuta l'anomala proposta del ricco Bausetti (Ettore Geri), che vuole acquistare un suo occhio. La decisione avrà ovvie e notevoli ripercussioni sulla vita dell'uomo. Vittorio De Sica mette in scena un soggetto del fedele Cesare Zavattini (anche sceneggiatore) al fine di smascherare le contraddizioni di un'Italia in pieno boom economico. I propositi del film, satirici e grotteschi, sono assecondati dalla prova di Sordi, che sgrana gli occhi come non mai e provvede addirittura a vendere il suo al commendar Bausetti lavorando su corde pazze senza smuoversi come di consueto dal suo proverbiale birignao. Il film è davvero troppo cinico con la borghesia del tempo, che lo rifiutò, ma Sordi, nei panni di un uomo che non dispiace (a se stesso prima che agli altri), da archetipo insuperato della romanità, ribadisce anche il valore di un risaputo proverbio vernacolare romanesco: Beato chi c'ha n'occhio. Non il miglior De Sica, ma un film fondamentale tra quelli che più hanno decostruito la maschera comica sordiana. 



IL MEDICO DELLA MUTUA, Luigi Zampa (1968)

Guido Tersilli (Alberto Sordi), giovane appena laureato in medicina, è intenzionato ad aprire un proprio studio e a strappare una convenzione con la mutua, nel tentativo di accaparrarsi più pazienti possibili. La morte di un collega fa scattare la caccia ai suoi mutuati. Tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe D'Agata, Il medico della mutua è uno dei più grandi successi popolari di Alberto Sordi (campione d'incassi nella stagione 1968-69). Il famoso incipit in cui la macchina da presa piazzata sul tettuccio di un'ambulanza ci mostra tutta Roma, sulle note indimenticabili di Samba fortuna scritta da Piero Piccioni (collaboratore abituale di Sordi), anticipa un lungo e grottesco flashback che, come in quasi tutte le commedie all'italiana, mette in scena una vicenda legata alla più stretta realtà del periodo. Il film di Zampa si scaglia infatti contro il sistema sanitario organizzato dalla mutua, in cui i numeri contano più dei malati e il rapporto medico-paziente vive di rituali meccanici e ripetitivi. In questa disumanizzazione che reifica l'essere umano, Sordi ci sguazza allegramente, esaltando con godimento sornione la crudeltà cinica e disincantata celata dietro l'apparente pietismo del suo Tersilli (uno dei contrassegni chiave della comicità capitolina tout court, tra l'altro). 



DETENUTO IN ATTESA DI GIUDIZIO, Nanni Loy (1971)

Giuseppe Di Noi (Alberto Sordi) si è trasferito in Svezia, dove svolge la professione di geometra e vive con la moglie (Elga Andersen) e i figli. Per le vacanze torna in Italia ma, appena passata la frontiera, viene arrestato senza saperne il motivo. È solo l'inizio di un'odissea da incubo tra carceri e umiliazioni. Il film nasce su una suggestione di Alberto Sordi, che aveva letto Operazione Montecristo, scritto da Lelio Luttazzi durante la sua incarcerazione, e ne era rimasto colpito. L'arretratezza della giustizia italiana, il degrado degli istituti di detenzione nazionali, dietro le cui mura si nascondono storie di abusi e sadismo, la lentezza e la fallacia di un sistema giudiziario arrugginito e incomprensibile: sono tutti temi toccati da una pellicola che mostra un violento cambio di prospettive per il protagonista, da nostalgico del Bel Paese a vittima di un incubo kafkiano. Sordi, vincitore dell'Orso d'argento a Berlino e del David di Donatello, offre una delle sue interpretazioni più convincenti, misera e prostrata, tragica e in disarmo. La scena che segue è da applausi, ma non è da meno il finale, dove Albertone riesce a reggere alla grande una grammatica di primi piani dal sapore addirittura leoniano (un motivo ricorrente di tutto il film, come se Loy inseguisse una prossimità virile da western più che da dramma carcerario: è presente, una volta di più, anche in questa sequenza). 



LO SCOPONE SCIENTIFICO, Luigi Comencini (1972) 

A Roma, ogni anno, i proletari Peppino (Alberto Sordi) e Antonia (Silvana Mangano) attendono con trepidazione l'arrivo di un'anziana miliardaria americana (Bette Davis), grande appassionata di carte, per giocare a scopone scientifico e vincere una grossa somma di denaro. Tra continui colpi di scena e la partecipazione di tutta la borgata, l'ultima sfida si consumerà inesorabile. Luigi Comencini mette in scena una spietata lotta di classe, caratterizzata dal costante braccio di ferro tra plebe e alta borghesia, e tratteggia l'utopica ansia di rinnovamento e l'illusione di una seconda occasione (non a caso, tipicamente americana) impossibile da ottenere. Spingendo il pedale della veridicità (con un furore quasi neorealista, evidente anche nel linguaggio spiccatamente dialettale), il regista delinea la degenerazione morale e materiale dei due protagonisti, pronti a tutto (Antonia che arriva a contattare il suo ex amante Righetto, interpretato da Domenico Modugno, per battere l'arcigna riccona) pur di scampare alla povertà. Sordi vinse il David di Donatello insieme alla Mangano, meritatamente (in coppia sono fenomenali, e il loro feeling privato, oltre alla venerazione di Sordi per lei, era nota e destinata a pochissime altre donne). La sua interpretazione confluisce in un personaggio dal volto tragico e disfatto, arraffone e al colmo qui di una flebile, sussurrata, lacrimevole disperazione, proletaria e dunque oscena e inconfessabile, goffa e umanissima come sempre. 



UN BORGHESE PICCOLO PICCOLO, Mario Monicelli (1977) 

Giovanni Vivaldi (Alberto Sordi) è un orgoglioso impiegato del Ministero che cerca in tutti i modi di trovare un lavoro al figlio Mario (Vincenzo Crocitti), appena divenuto ragioniere. Purtroppo però il destino della famiglia sarà bruscamente scosso da un tragico evento. Tratto dall'omonimo romanzo di Vincenzo Cerami (sceneggiato dal regista e da Sergio Amidei), un intenso dramma travestito (inizialmente) da commedia. Quando Monicelli decide di imprimere alla vicenda il definitivo cambio, persino una maschera come Sordi risulta sgradevole nel cupo panorama che lo circonda e con questo film il regista decide coscientemente di porre fine a un capitolo della propria storia sul grande schermo: il giovane Renzo Carboni (che qui alla prima esperienza presta il proprio volto al rapinatore) è per Monicelli l'incarnazione stessa della commedia all'italiana ormai morente, della quale si mette qui in scena il funerale. Nessun sorriso amaro, nessuna indulgenza: gli italiani del “volemose bene” spariscono dallo schermo nell'esatto momento in cui l'attore muore sanguinante tra le braccia di Sordi. L'attore giusto e forse l'unico possibile per questo film, dalle spalle sufficientemente larghe per sobbarcarsi una deformazione del pater familias italico così lugubre e disperata, diabolicamente affine alle zone d'ombra, ormai indistinguibili, tra le vittime e i carnefici. In questo dialogo col dottor Spaziani, dal sapore dichiaramente post-fantozziano (il primo Fantozzi di Villaggio era uscito appena due anni prima), il "grazie" di Sordi al suo superiore è un coacervo indimenticabile di servilismo e disperazione.



I NUOVI MOSTRI, Mario Monicelli - Dino Risi - Ettore Scola (1977) 

In questo memorabile film a episodi diretto dal tridente delle meraviglie della commedia all'italiana, Sordi ne interpreta due: in First Aid (Pronto soccorso), è un nobile che abbandona un pedone investito perché non riesce a farlo ricoverare; ne L'elogio funebre è un comico che rallegra il funerale di un collega appena deceduto. Non esiste, in tutta la filmografia di Sordi, un personaggio più estremo e guittesco di Giovan Maria Catalan Belmonte (Sottotenente di Cavalleria Pinerolo), protagonista del primo dei due, nei cui contorni viscidi e slabbrati l'attore furoreggia, concedendo una delle sue prove più sregolate e macchiettistiche: il birignao mimico e linguistico, che trova in questa scena il suo massimo e più lussurioso sfogo, è stordente. Le esequie poste a compimento dell'operazione collettiva, tuttavia, non sono affatto da meno: raramente l'espressione "sto c****" è stata un fulmen in clausola più efficace, senza contare il lavoro quasi metafisico su pernacchie e motteggi che lo accompagna. Un Sordi totalmente mostrificato, e dunque imperdibile. 



IL MARCHESE DEL GRILLO, Mario Monicelli (1981)

Il marchese del Grillo è un omaggio di Monicelli ad Alberto Sordi, uno dei suoi attori feticcio. Film costruito sulle corde dell'ormai maturo interprete romano, il film è una commedia in costume ispirata ad alcuni racconti popolari capitolini, e all'omonimo libro di Luca Desiato, incentrati sul defunto nobile bontempone. Sempre in bilico tra crudeltà e goliardia, il protagonista ci guida alla scoperta di una serie di personaggi tipicamente monicelliani, antieroi alla ricerca di una condizione migliore. Un divertissement che è perfetto esempio di teatro popolare riprodotto sullo schermo, sebbene a tratti un po' prolisso e di una cupezza leggermente manierista. Molte sequenze restano impresse: il negozio murato o le monete arroventate lanciate ai mendicanti, così come alcune battute («io so' io... e voi non siete un cazzo!»), frutto di una sceneggiatura puntuale e consapevole. Questo marchese arci-italiano è anche l'ultima vera grande interpretazione di Sordi, e sotto molti punti di vista è anche giusto (e inevitabile) che sia così. 



Davide Stanzione

(foto di copertina di Pierluigi Praturlon)
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