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Alberto Sordi e l'incubo kafkiano di Detenuto in attesa di giudizio

«La logica del sistema è questa: agire metodicamente sull’uomo, disgregarlo psicologicamente finché non prenda coscienza della sua esclusione»

Emilio Sanna, Inchiesta sulle carceri (1970)


 

Film di indiscussa importanza storica, Detenuto in attesa di giudizio può essere considerato il portabandiera della produzione cinematografica italiana votata alla trasposizione sul grande schermo della realtà carceraria. Presentata in concorso al Festival di Berlino nel 1972, all’uscita in sala l’opera-denuncia di Nanni Loy destò grande scalpore presso l’opinione pubblica, in quanto primo lungometraggio apertamente schierato contro l’arretratezza e l’inadeguatezza dei sistemi giudiziario e carcerario italiani: «una delle ombre più cupe distese sul paese dall’anacronismo dei codici» (Giovanni Grazzini).

La scelta di Alberto Sordi come protagonista di un’opera che, tra le prime in Italia, rivolgeva la propria attenzione alla problematica carcere e all’uso indiscriminato dell’incarcerazione preventiva, mirava a un duplice obiettivo: assicurarsi il favore del pubblico in sala e ricorrere a un doppio registro espressivo, sospeso tra la caricatura realista e l’allucinazione. In tal maniera, Detenuto in attesa di giudizio poteva essere venduto anche come commedia: «la commedia amara di Loy» come amava definirla lo stesso Sordi. Questi è il cittadino medio e anonimo alla mercé di un meccanismo giudiziario impietoso, di una burocrazia resa ancor più spaventosa dal suo essere tanto dilatoria quanto lacunosa. Non è un caso che il cognome del personaggio interpretato da Sordi sia Di Noi: quello portato in scena è un incubo giudiziario dalla veste nazionalpopolare; un singolo errore all’interno del quale lo spettatore è in grado di rintracciare le molteplici disfunzioni dell'intero sistema. 

Alberto Sordi raccontò che il primo spunto per Detenuto in attesa di giudizio lo ebbe in Svezia, agli inizi degli anni Sessanta, durante le riprese del film Il Diavolo (Gian Luigi Polidoro, 1963):

Una signora che lavorava alle Belle Arti e che mi aveva aiutato a «rubare» alcune scene della consegna del Nobel, mi portò a visitare Stoccolma. Nei dintorni, mi colpì una struttura molto ampia, ridente, circondata dal verde. «Un hotel a quattro stelle?» domandai. «No» mi risposero «è il carcere dove i detenuti in attesa di giudizio aspettano il processo, liberi di ricevere i familiari e seguire i propri interessi». Io pensai: e in Italia cosa succede a uno che aspetta di venire giudicato? Soprattutto in considerazione dei tempi lunghissimi della nostra giustizia.

Ad ispirare Sordi, Rodolfo Sonego e Sergio Amidei, suoi stretti collaboratori, intervenne tuttavia un secondo, fondamentale contributo: Dentro il carcere, documentario sulle strutture carcerarie italiane realizzato da Emilio Sanna, Arrigo Montanari e Mario Masini e trasmesso da Rai 2 nel gennaio 1970. Il film, trasposizione per il piccolo schermo di un’indagine condotta dallo stesso Sanna tra la primavera e l’estate del 1969, ebbe un fortissimo impatto sull’opinione pubblica dell’epoca: per la prima volta nella storia del nostro sistema mediatico le porte dell’universo carcere venivano aperte al grande pubblico, chiamato a conoscerne i meccanismi interni e le complesse dinamiche psicologiche che vi prendono forma. 

La custodia preventiva in carcere provoca sulla personalità guasti inestinguibili. È un’esperienza atroce che mette in gioco le basi stesse sulle quali un individuo ha creato il suo equilibrio emotivo; mette in crisi la concezione che ciascuno ha di se stesso e del suo ruolo nel mondo; cancella ogni sentimento di sicurezza intima; costringe l’individuo alle peggiori umiliazioni e lo degrada agli occhi propri e del mondo. La carcerazione ha una sua procedura precisa le cui conseguenze sono state acutamente analizzate da Erving Goffman. È la progressiva spoliazione di ogni attributo personale, la perdita di identità, la nullificazione dell’individuo. La logica del sistema è questa: agire metodicamente sull’uomo, disgregarlo psicologicamente finché non prenda coscienza della sua esclusione. A questo punto non avrà che questa alternativa: o mettersi in disparte come un rottame, o reagire con la violenza alla violenza, con il risultato di tornare, prima o dopo, in galera.



Agire sull’uomo e disgregarlo psicologicamente affinché prenda coscienza del proprio status di reietto. Ancora una volta risuona la dura lezione di Michel Foucault e del suo celebre Sorvegliare e punire: pietra miliare della letteratura sul carcere, si tratta di un testo classico che riscostruisce l’evolversi dell’«ortopedia sociale» con cui si è arrivati alla nascita della prigione. Un mostro sociale versus il corpo sociale: colui che infrange la legge non solo calpesta l’autorità del legislatore, dei garanti della giustizia e di coloro che la amministrano, ma manca anche di rispetto nei confronti dell’intera comunità che lo “ospita”. Egli è un freak che, secondo il comune sentimento, merita l’emarginazione: reclusa la mela marcia dietro le sbarre e scongiurato il rischio del sovvertimento, il corpo sociale può proseguire nella propria quotidianità mantenendosi ligio alle regole.

Seppur non accreditato come fonte diretta, ad ispirare il film intervenne anche il fatto di cronaca che nel 1970 vide come sfortunato protagonista Lelio Luttazzi, volto noto della televisione. Vittima di un errore giudiziario, Luttazzi dovette subire ventisette giorni di carcere preventivo, ai quali seguì un’umiliante gogna mediatica che, inevitabilmente, ne segnò profondamente la carriera. Una terribile esperienza dalla quale scaturì il suo primo romanzo, Operazione Montecristo: «la testimonianza in prima persona di un lento ma inesorabile naufragio psicologico, resoconto di una reclusione drammatica e mortificante, di cui peraltro Luttazzi non era nemmeno in grado di ricostruire le motivazioni».
Il trauma subito dallo showman servì da perfetta ispirazione per il ritratto di un detenuto che fosse diametralmente opposto a quello del carcerato medio italiano.

Detenuto in attesa di giudizio vede infatti come protagonista il malcapitato Giuseppe Di Noi (Alberto Sordi), geometra originario di Tivoli e residente in Svezia che, tornato in Italia per un viaggio di piacere, viene brutalmente e senza alcuna spiegazione prelevato alla dogana e successivamente incarcerato perché accusato di omicidio colposo preterintenzionale ai danni di un cittadino tedesco. 

«Tutto quello che vedete è meraviglioso, perché l’Italia è il paese più bello del mondo!» 


Curiosamente, facciamo la conoscenza del personaggio attraverso una serie di immagini riconducibili al filone vacanziero (genere d’evasione peraltro tutt’altro che estraneo al Sordi degli anni Cinquanta), accompagnate dalle spensierate note di un valzer: Giuseppe Di Noi non è più l’italiano che parte per qualche luogo esotico, ma l’emigrante ormai felicemente integrato nel paese straniero che ora fa ritorno in Italia per una breve vacanza, destinata a trasformarsi in un "pellegrinaggio di reclusione". 
Così come la volante che scorta Giuseppe dopo l’arresto si immette in un tunnel nero di cui non è lecito scorgere l’uscita, ugualmente il protagonista, sballottato da un carcere all’altro, deriso e vessato da secondini, agenti e marescialli, andrà incontro a un’oscura metamorfosi segnata dalla depersonalizzazione e dal depauperamento fisico e psicologico. Un vero e proprio incubo kafkiano che trasforma Giuseppe da nostalgico amante della terra natìa a fantoccio prostrato sotto il peso di quelle istituzioni che, anziché garantire la tutela del cittadino, si rivelano talmente inadempienti da arrivare a negare allo stesso i diritti fondamentali. 
È in questo capovolgimento che si innesta anche la trasformazione dell’artista da maschera comica a tragica. Alberto Sordi, votatosi anima e corpo a un ruolo inconsueto per sé e per il pubblico, offre un’interpretazione memorabile: non a caso, si aggiudicò l’Orso d’Argento a Berlino e il David di Donatello come migliore attore. Nell’incarnare il processo involutivo e corrosivo cui “il” Di Noi si vede condannato, Sordi si sottopone a un processo di svestizione demitizzante: se nelle prime sequenze gigioneggia e canta spensierato, il progressivo stringersi della morsa carceraria fa sì che l’attore abbandoni quel costume rassicurante cui tutti noi siamo abituati e affezionati per accartocciarsi sempre di più su se stesso, piangere straziato di fronte alle più vili umiliazioni, vagare disilluso alla ricerca di una risoluzione alla quale gli sarà lecito accedere solo una volta privato della propria umanità.




Non tutto il film è verosimile, questo è da specificare, ma ciò non va a inficiarne l’aderenza a certi costumi e atteggiamenti prevaricatori esercitati da coloro che detengono il potere all’interno delle carceri. Proprio per questo motivo Detenuto in attesa di giudizio è ancora capace di sbalordire – e ferire – per la sua palpabile e indiscutibile contemporaneità: a quasi cinquant’anni dalla sua uscita lascia profondamente amareggiati e affranti la presa di coscienza che, nonostante i tentativi di "umanizzazione" della detenzione, alcune delle criticità ritratte nel film siano tuttora riscontrabili all’interno di diverse strutture carcerarie.

 

Viola Franchini

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