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I migliori film di Bernardo Bertolucci: la nostra Top 10

«Il cinema? Lo chiamerei semplicemente vita. Non credo di aver mai avuto una vita al di fuori del cinema; e in qualche modo è stato, lo riconosco, una limitazione.»

Autore fondamentale nel panorama della settima arte, il più internazionale tra i registi italiani, artista che ha immortalato sul grande schermo le inquietudini giovanili, l'ideologia politica, la disillusione post-Sessantottina, l'amore, la morte, la tragedia: osteggiato e incompreso, costretto ad affrontare scandali entrati di prepotenza nell'immaginario collettivo, Bernardo Bertolucci si è fatto portatore di un cinema militante senza compromessi, ormai considerato testimonianza artistica fondamentale. Il 16 marzo Bertolucci avrebbe compiuto ottant'anni: per omaggiarlo, una classifica dei suoi 10 migliori titoli!



10) L'assedio (1998)



Un'opera delicata e struggente sull'incomunicabilità e sulla lotta tra due pulsioni: quella di abbandonarsi alle proprie passioni e quella di reprimerle. Un incontro tra due solitudini, diverse culturalmente e socialmente, ma accomunate da un desiderio d'amore e letteralmente assediate da un passato di sofferenza troppo presente e da inibizioni psicologiche. L'assenza di esterni è costante e sottolinea così una condizione claustrofobica che porta a isolarsi per interrogarsi su se stessi e al contempo prendere consapevolezza della necessità di aprirsi al mondo, relazionandosi col prossimo per riuscire a superare le proprie paure.



9) L'ultimo imperatore (1987)



Dopo Novecento, Bernardo Bertolucci si cimenta nuovamente con il genere kolossal, ispirandosi all'autobiografia di Pu Yi, Sono stato imperatore, e ad alcuni testi di Reginald Johnston. Raccontando la fine dell'impero cinese, Bertolucci mette in scena la dissoluzione di un mondo arcaico, affascinante ma autoreferenziale e la storia di un uomo di potere irrimediabilmente solo che cerca il proprio posto in un mondo che non comprende in quanto gli è completamente estraneo. L'imperatore è quindi un personaggio profondamente bertolucciano nel suo essere confinato in una prigionia spaziale (sia essa la magnificente reggia della Città proibita o la più infima galera) che ne pregiudica la crescita come individuo, sperduto e fragile, che vive con conflittualità il contrasto tra la pulsione ad aprirsi al cambiamento e alla conoscenza di tutto ciò che gli è ignoto e la necessità di far conto con gli inevitabili compromessi e le delusioni che l'esistenza di ciascun individuo comporta.



8) Prima della rivoluzione (1964)



Secondo film di Bernardo Bertolucci e liberissimo adattamento da La certosa di Parma di Stendhal. Tra ricordi personali, citazioni cinefile (celeberrima la frase «Non si può mica vivere senza Rossellini», pronunciata dal co-sceneggiatore e interprete Gianni Amico), suggestioni musicali (la lunga sequenza al Teatro Regio accompagnata dalle note del Macbeth di Verdi) e utopie rivoluzionarie, il regista, all'epoca poco più che ventenne, racconta con passione, delicatezza e partecipazione la dissoluzione di un mondo borghese e provinciale, oltre che le smanie sentimentali e ideologiche di un giovane, emblema di una generazione che rivendica il proprio posto nel mondo, cercando di superare il proprio smarrimento identitario.



7) Il tè nel deserto (1990)



Seconda grande produzione internazionale per Bernardo Bertolucci dopo il trionfo de L'ultimo imperatore. Adattamento dell'omonimo romanzo di Paul Bowles, è un viaggio alla scoperta di un universo tanto affascinante quanto misterioso, nonché un percorso introspettivo che porta i tre personaggi principali a interrogarsi su se stessi, sul legame che li lega e a mettere in dubbio certezze e modi di comportamento acquisiti. L'esotismo del film rimane l'elemento superficialmente più incisivo e memorabile (anche grazie alla strepitosa fotografia di Vittorio Storaro), ma Bertolucci firma una delle sue pellicole più complesse, ostiche e criptiche che altro non è che un melodramma privo di romanticismo, una riflessione sull'amore e sul carico di solipsismo che ciascuna relazione sentimentale porta con sé, un'opera profondamente intimista rivestita da una confezione da kolossal.



6) Strategia del ragno (1970)



Ispirandosi al racconto Tema del traditore e dell'eroe di Jorge Louis Borges, Bernardo Bertolucci dà vita a un racconto metafisico e astratto, colorato da inserti psicoanalitici attraverso cui riflette sulla percezione di smarrimento identitario oltre che sulle contraddizioni insolute dell'antifascismo e, per estensione, della natura umana. Affascinante e ambiguo, surreale e inquietante, il film è ricco di rimandi pittorici (dai quadri di Antonio Ligabue che accompagnano i titoli di testa, fino ai richiami iconografici alle opere di René Magritte e Giorgio de Chirico) e di un citazionismo (cinematografico e musicale soprattutto) mai gratuito e sempre intellettualmente stimolante.



5) La tragedia di un uomo ridicolo (1981)



Attraverso l'uso di una fotografia (di Carlo Di Palma) dai colori spenti e funerei, il far vagare i suoi personaggi in ampi e desertificati spazi e la dilatazione dei tempi narrativi che dà al tutto una dimensione surreale e vagamente onirica, Bernardo Bertolucci dà forma visiva a uno stato confusionale e di profonda incertezza che accomuna tutti i personaggi dinnanzi alla fase transitoria tra la fine degli anni bui del terrorismo e un inizio di decennio (gli anni Ottanta) gravato da dubbi e paure. Il protagonista è emblema di una classe borghese profondamente inadeguata, amareggiata e malinconicamente legata al passato, sfiduciata dinnanzi al futuro (e alle giovani generazioni che «non ridono ma sghignazzano o sono cupi e soprattutto non parlano più e dai loro silenzi non si capisce se chiedano aiuto o stiano per spararti addosso»), egoista e grottescamente stordita nei momenti di difficoltà.



4) La commare secca (1962)



Esordio alla regia per Bernardo Bertolucci partendo da un soggetto di Pier Paolo Pasolini. Bertolucci aveva lavorato come assistente alla regia in Accattone (1961) e l'eco pasoliniana è percepibile anche in questo primo film del cineasta parmigiano: vengono usati attori non professionisti, privilegiati i primi piani e le inquadrature dalla composizione pittorica, la descrizione ambientale e sociale ha la meglio sull'intreccio. Ma Bertolucci sa imprimere alla messa in scena un piglio personale e non eccessivamente derivativo, grazie a un'estetica che guarda alle ricerche formali della Nouvelle vague. Il titolo fa riferimento a un sonetto del poeta romano Gioacchino Belli: la commare secca è il nome della morte.



3) Novecento (1976)



Bernardo Bertolucci sceglie la chiave kolossal per raccontare la storia d'Italia dall'inizio del ventesimo secolo alla liberazione dal nazifascismo. Il regista fonde drammi personali e drammi storici, imprimendo la narrazione di alcuni suoi temi ricorrenti, in modo particolare l'amore per l'opera e per Verdi: non è un caso, infatti, che i due protagonisti nascano lo stesso giorno, il 27 gennaio 1901, data di morte del genio di Bussetto. Il respiro melodrammatico delle opere storiche verdiane (come Nabucco, Il Trovatore o Rigoletto sulle cui note si apre il lungo flashback iniziale) è percepibile in una vicenda che racconta la ricerca di un'identità, nazionale e individuale. Sono, inoltre, messe in evidenza le ambiguità di una classe borghese mediocre e prepotente, repressa e repressiva, portata per natura ad abbracciare la causa del totalitarismo e al contempo vengono sottolineate le inconciliabilità insolute tra l'ideologia e la sua applicazione pratica che non può prescindere da variabili umane (con corrispettivo campionario di sentimenti, pulsioni e fragilità) e ne snatura gli assunti teorici.



2) Il conformista (1970)



Libero adattamento dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia attraverso cui Bernardo Bertolucci opera una feroce critica alla borghesia italiana e alla sua ignavia. Marcello Clerici/Jean-Louis Trintignant è una figura tipica del cinema di Bertolucci, in quanto cerca con forza il proprio posto nel mondo, eppure diversa in quanto elude qualsiasi impeto rivoluzionario e si rifugia nel conformismo, alla ricerca di una normalità di facciata sotto cui si nascondono colpe e paure inconfessabili, oltre ad avere una repulsione per qualsiasi anomalia e debolezza personale (la propria latente omosessualità) o collettiva. Il protagonista vive un conflitto psicologico tra il proprio essere e la necessità di apparire, aderendo a una massa che disprezza, cercando di reprimere qualsiasi attrazione per tutto ciò che è sofisticato, seducente e anticonvenzionale. Strepitosa la messa in scena ricercata, spiazzante e ricchissima in cui abbondano i riferimenti alla decorazione e all'iconografia novecentesca, specie al futurismo e alle opere di De Chirico richiamate dalla splendida fotografia di Vittorio Storaro.



1) Ultimo tango a Parigi (1972)



Il film più celebre, discusso e controverso di Bernardo Bertolucci, nonché l'opera più pessimista del regista parmense. Il profondo disagio esistenziale dei due protagonisti viene sublimato attraverso il sesso che, nella sua forma più libera e sostanzialmente perversa, è contemporaneamente strumento di ribellione e annichilimento di se stessi. Il sesso declinato dunque come ultima possibilità espressiva di una vitalità che va esaurendosi, come negazione di un male di vivere straziante e come abbandono delle inibizioni e convenzioni borghesi. Grande scandalo all'uscita del film in Italia per via delle scene di sesso esplicito, in particolare quella in cui Paul sodomizza Jeanne con del burro. La pellicola fu sequestrata dalla censura, condannata al rogo e poi riabilitata con sentenza di non oscenità nel 1987 e quello stesso anno fu rieditata. Opera entrata nell'immaginario collettivo, spesso citata, omaggiata e anche parodiata: Bertolucci confessò di non aver mai voluto vedere Ultimo tango a Zagarol (1973) con Franco Franchi, temendo che fosse meglio del suo film.

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