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75 anni di David Lynch: i suoi cinque migliori film

Sommo indagatore dell’incubo e dell’inconscio, David Lynch è una delle figure cardine del cinema contemporaneo e uno dei massimi e più dibattuti registi del nostro tempo. Cineasta unico e peculiare, capace di sconvolgere in profondità le certezze dello spettatore e di lavorare su un registro surreale che l’ha reso celeberrimo e inimitabile, fin dalla sua travagliata opera prima, Eraserhead – La mente che cancella, Lynch si è imposto come il cantore di universi visionari onirici, macabri e malsani.

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Lynch si è rivelato, nel corso di una carriera lunga e fascinosissima, un innovatore a più livelli, riuscendo a coniugare, con incredibile crudezza e spiccata originalità, squarci angoscianti e cupissime immersioni nel perturbante, monumentali riflessioni sulla mostruosità (The Elephant Man) e mirabili parabole sulla deformità e sul grottesco che da sempre abita gli eccessi del nostro immaginario (Cuore selvaggio, Palma d’oro a Cannes nel 1990).


Per non parlare del ragguardevole lavoro sul sonoro che da sempre caratterizza le sue opere e della capacità di destabilizzare a più livelli immergendosi nel mare dell’ignoto e dell’inconoscibile, partendo dalla provincia (Velluto blu, Twin Peaks, il solo in apparenza più solare Una storia vera) o da grandi, intricate aree urbane americane (Strade perdute, Mulholland Drive, INLAND EMPIRE – L’impero della mente).


Pittore, musicista e artista eclettico, questo sublime indagatore della mente umana, dei suoi anfratti e delle sue estensioni più violente e inquiete, ha cambiato radicalmente anche il linguaggio televisivo all’inizio degli anni novanta con la serie tv I segreti di Twin Peaks per poi accettare, molti anni dopo la serie originale e a seguito di un lungo corteggiamento del network Showtime, di tornare a dirigere in prima persona gli episodi di una terza stagione, che ha visto la luce nel 2017.


Ecco la nostra Top 5 dei film del regista di Missoula.

5) Velluto blu (1986)



Dopo il disastro commerciale di Dune (1984), David Lynch torna a realizzare un lungometraggio personale, inquietante e ricco di tematiche scomode e coraggiose. Aperto da un incipit memorabile, il film è ambientato nell’immaginaria cittadina di Lumberton, luogo-simbolo di quella provincia americana dove tutto è in apparenza perfetto: dai colori pastello delle abitazioni fino ai pompieri che salutano mentre passano. In realtà è proprio in questi spazi, come dimostrerà anche nella serie televisiva I segreti di Twin Peaks (1990-1991), che secondo David Lynch si nascondono i misteri più terribili, le perversioni e il sadismo: elementi tutti ben rappresentati dal personaggio interpretato da Dennis Hopper. Velluto blu è un’opera esplosiva, che vive di guizzi importanti alternati a momenti più statici, totalmente incentrata sull’atto del vedere e sul piacere che questo può provocare.

4) The Elephant Man (1980)



Dalla vera e struggente vicenda di Jonathan Merrick, narrata dal professor Treves nei suoi appunti, David Lynch trae la sua seconda opera e, probabilmente, la più umana, fiabesca e pura della sua intera filmografia. La storia incredibile di Merrick è quella di un autentico mostro, marchiato da un destino perverso, che vuole solo essere accettato entro i confini di una società che, a ben vedere, è assai più mostruosa di lui. Che lo vedano come zimbello, come caso clinico o come divertissement per acquietare i sensi di colpa di una borghesia annoiata, Merrick non è che un fenomeno di costume, la cui natura umana viene continuamente negata e calpestata da tutti, tranne che da altri freaks come lui. Impossibile non emozionarsi davanti al dramma di John e alle sue meravigliose, quotidiane, scoperte: l’arte, il teatro, il bacio di una bella dama.

3) Una storia vera (1999)


Ispirato a fatti realmente accaduti, l’ottavo lungometraggio di David Lynch sembra rappresentare un netto cambio di stile rispetto alle visioni angoscianti dei suoi film precedenti: da Eraserhead – La mente che cancella (1977) a Strade perdute (1997). In realtà è vero soltanto in parte: seppur la storia sia perfettamente lineare e molti passaggi piuttosto tradizionali, diverse tematiche che il regista aveva portato avanti in passato sono ancora presenti. La natura idilliaca e rassicurante della vicenda di Alvin Straight ricorda l’inizio di Velluto blu (1986), dove i colori pastello e un’atmosfera rilassata nascondevano orrori e perversioni tenuti nascosti dietro le facciate delle ville della provincia americana. E anche Una storia vera porta con sé i germi di quel perturbante di stampo freudiano, che Lynch ha spesso rappresentato nelle sue opere: si pensi all’inizio, dove il semplice tonfo del protagonista è messo in scena come se si stesse assistendo a una tragedia imminente. Ma anche la natura circostante e l’incedere lent(issim)o della pellicola, che segue il passo del tosaerba del protagonista, hanno tratti ben poco convenzionali e, in un certo senso, inquietanti.

2) INLAND EMPIRE - L'impero della mente (2006)



Una donna (Laura Dern) in pericolo. È lo stesso David Lynch ad aver suggerito questa sinossi, forse l’unica possibile per un film da vivere più che da raccontare. Un’esperienza di visione unica, torrenziale, dove si annega consciamente negli abissi della mente umana. Nikki, la protagonista, è un’attrice che si ritrova coinvolta nel remake a stelle e strisce di una pellicola polacca mai portata a termine. È un’opera, quindi, di riflessi e di doppi, come lo erano Strade perdute (1997) e Mulholland Drive(2001): l’identità di Nikki è frammentata, totalmente decostruita. L’attrice arriva presto a confondere la sua esistenza con quella di Sue, il suo personaggio, ma non è tutto: c’è anche il “fantasma” dell’attrice/personaggio del film polacco, prigioniero in un limbo dal quale solo la stessa Nikki (portando a termine la pellicola) riuscirà a liberarlo. Ma INLAND EMPIRE – L’impero della mente è anche una maestosa riflessione su Hollywood come luogo simbolo di tale confusione identitaria: il remake altro non è che un doppio di un altro film, sintomo di quell’assenza di creatività che ha attraversato il cinema americano con l’avvento del nuovo millennio. Lynch ha girato tutto con videocamere digitali (la morte della pellicola come sintomo della morte del cinema?) e ha scelto in cabina di montaggio quali sequenze tenere e come inserirle all’interno della sua opera. E la creatività certo non manca al grande regista nato a Missoula, nel Montana: è meraviglioso perdersi in un film – di non facile fruizione – come INLAND EMPIRE – L’impero della mente, per poi ritrovarsi più consci delle potenzialità di quella settima arte che Lynch continua a esplorare con forza.

1) Mulholland Drive (2001)



Quello che inizialmente doveva essere il pilot di una nuova serie tv, è diventato il più importante capolavoro che David Lynch abbia mai girato: Mulholland Drive era, nelle intenzioni, un nuovo progetto per il piccolo schermo, firmato dal regista che aveva rivoluzionato la storia della televisione con I segreti di Twin Peaks (1990-1991). I produttori però bloccarono l’episodio pilota e l’idea venne abortita: Canal Plus, qualche mese dopo, acquistò la puntata e stanziò altri due milioni di dollari per filmare del materiale aggiuntivo e trasformarlo in un lungometraggio memorabile. Lynch affronta per la prima volta il mondo di Hollywood, la Mecca del cinema, mostrandone inizialmente il lato più luminoso e trasognante e, in seguito, gli aspetti più torbidi, corrotti e marcescenti. Il cambio di prospettiva è affidato a due donne che sono sempre la stessa, due facce di un’unica medaglia: Betty, attrice in erba pronta a una grande carriera, e Diane, disillusa interprete di quart’ordine. Nel passaggio dalla vita di una a quella dell’altra c’è un Club (chiamato Silencio), una scatola blu e un brusco risveglio che fa ripiombare la protagonista nell’incubo della realtà. Prima era tutto un sogno (forse) costruito ad hoc da quella Fabbrica dei sogni chiamata Hollywood. Lynch gioca con il tema del “doppio”, scambiando identità e dimensioni parallele, azzardando una narrazione intricata ma mai macchinosa, e dando così vita a una delle storie più coinvolgenti e inquietanti dell’intera storia del cinema.

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