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Cinema e razzismo: venti film americani
«I can’t breathe»: una frase che negli ultimi gorni si è trasformata in triste e terribile metafora di un episodio, la morte di George Floyd, che ha lasciato un segno profondo in chiunque abbia visto quelle immagini. Spike Lee, da sempre impegnato nella lotta ideologica contro il razzismo, ha deciso di offrire il suo contributo con il cortometraggio 3 Brothers: diverse le sue pellicole nel nostro speciale sulle opere più importanti che hanno toccato questo tema così delicato.

1) Il buio oltre la siepe (Robert  Mulligan, 1962)



Il racconto di formazione è la chiave che conferisce alla pellicola un'aria quasi fiabesca, mostrando le complesse vicende degli adulti attraverso gli occhi di un gruppo di ragazzini in cerca di avventura, che non riesce a spiegarsi l'accanimento della cittadina nei confronti di un innocente. Puntuale ritratto di un'America che, per fortuna, non dovrebbe più esistere, il film inquadra alla perfezione i bifolchi privi di cultura, animaleschi, che dal basso del proprio degrado pretendono di trattare la comunità nera con disprezzo e superiorità, strumentalizzandola a loro piacimento. 

2) Indovina chi viene a cena? (Stanley Kramer, 1967)



Titolo indubbiamente scolpito nell'olimpo del cinema hollywoodiano, oltre che maggior successo di pubblico per Stanley Kramer, Indovina chi viene a cena? non è solamente il film che per la prima volta tratta apertamente della questione dei matrimoni misti nell'America degli anni Sessanta, ma è anche entrato di diritto nell'immaginario collettivo, tanto da essere una delle pellicole più citate della storia. 

3) Fa' la cosa giusta (Spike Lee, 1989)



«Non si può scindere l'odio dall'amore, sono due mani dello stesso corpo». Così ammoniscono in chiusura le citazioni delle due principali coscienze nere d'America: Martin Luther King e Malcolm X. Corre un'elettricità cattiva per le strade di Brooklyn, un odio strisciante, una marea montante come la colonnina di mercurio, come le note di Fight the Power sempre più alte dagli altoparlanti di Radio Raheem (Bill Nunn): «Most of my heroes don't appear on no stamps» («La maggior parte dei miei eroi non appare su nessun francobollo»). Spike Lee, poco più che trentenne, filma nel suo quartiere quello che resta probabilmente il vertice insuperato della sua carriera: affresco corale, fotografia spietata della facilità dell'odio e dell'impossibilità della convivenza, del rispetto reciproco e della comprensione in America.

4) Malcolm X (Spike Lee, 1992)



Un kolossal che evita di scolpire il busto di un eroe senza macchia, ma ne racconta diffusamente l'evoluzione e la crescita, dando grande spazio alla gioventù criminale e alle fasi più controverse (ma debitamente circostanziate) dell'attivismo politico, dal separatismo nero alla contrapposizione anche violenta con la cultura bianca. Il finale, che segue la definitiva conversione all'Islam e l'acquisizione di una consapevolezza più forte verso la convivenza pacifica e il movimento per i diritti civili, è disperato come una grande occasione mancata dall'America nera, che piange il salvatore perduto, ma che pure ha armato il suo assassino.

5) Amistad (Steven Spielberg, 1997)



Due le figure chiave in questo episodio: il nero Cinque (Djimon Hounsou) e il bianco John Quincy Adams (Anthony Hopkins), anziano ex presidente degli Stati Uniti. Partendo da posizioni culturali e sociali opposte, gli sforzi di entrambi convergono verso il comune obiettivo di una prima, radicale messa in discussione del concetto stesso di schiavitù. Più defilata la figura di Theodore Joadson (Morgan Freeman), abolizionista di colore che supporta la causa. 

6) American History X (Tony Kaye, 1998)



È uno strano oggetto il film d'esordio di Tony Kaye, specializzato fino ad allora nella regia di videoclip musicali: è essenzialmente un'opera che mostra il lato peggiore di certe derive nazionaliste e di estrema destra in seno alla società benestante americana e, di certo, l'interpretazione di Edward Norton mette d'accordo tutti su quello che è uno dei talenti più incisivi della sua generazione.

7) The Help (Tate Taylor, 2011)



È uno di quei film in cui “tutto è a posto e niente è in ordine”: a posto sono la professionalità e il discreto livello di fondo, che coinvolgono ogni elemento del filmico e del pro-filmico e che permettono al film di scorrere senza scossoni e di essere gradevole (regia compresa, onesta, senza fronzoli e convenzionale); il “niente in ordine” è invece riferito all'impatto complessivo, che vorrebbe essere medio e che in realtà tende al mediocre, per quanto nell'immediato la visione sia abbastanza piacevole.

8) 12 anni schiavo (Steve McQueen, 2013)



Steve McQueen, trova la definitiva consacrazione internazionale con questo affresco magistrale su un'infame pagina di storia, tratto dalle memorie del vero Northup. In un momento in cui lo schiavismo nordamericano sembra essere un argomento in voga (il film esce pochi mesi dopo Django Unchained di Quentin Tarantino, 2012), l'afro-britannico McQueen lo affronta rifuggendo ogni retorica e pomposità, scansando i cliché razziali, distendendo la narrazione nell'infinita, straziante, odissea di Solomon (ottimo Ejiofor, premiato con il Golden Globe): non un eroe, ma un uomo deciso a restare tale, a “vivere” anziché a “sopravvivere”. 

9) 42 – La vera storia di una leggenda americana (Brian Helgeland, 2013)



Raccontando la storia di Robinson, con il baseball presente solo come cornice, Brian Helgeland presenta uno spaccato della società statunitense degli anni ’50, dove la discriminazione razziale era ancora accentuata e dove un giocatore di baseball afroamericano diventa simbolo di un cambiamento tanto necessario quanto inevitabile.

10) Selma – La strada per la libertà (Ava DuVernay, 2014)



Sorta di prototipo del film di impegno civile promosso dall'amministrazione Obama, Selma è un'elegante benché prevedibile opera semi-agiografica sulla figura di Martin Luther King, dove viene abbozzata un'analisi che trascura l'uomo per dedicarsi direttamente al Mito.

11) Il diritto di contare (Theodore Melfi, 2016)



Il film di Theodore Melfi racconta la storia vera di un gruppo di donne che, in un’America immersa fino al collo nella discriminazione razziale, seppero ritagliarsi uno spazio per fare emergere le proprie straordinarie abilità di scienziate, contraddicendo i dettami dell’epoca che avrebbero voluto bollarle come esseri umani di categoria inferiore, ai quali destinare servizi igienici e mezzi di trasporto ad hoc. Una vicenda poco nota e dal valore estremamente paradigmatico anche per gli Usa di inizio 2017, alle prese con una delicata transizione presidenziale e con gli echi di un razzismo che il primo Presidente afroamericano alla Casa Bianca ha affatto silenziato.

12) Moonlight (Barry Jenkins, 2016) 



Dramma a stelle e strisce che ha fatto molto parlare di sé fin dalle prime presentazioni ai Festival di Telluride e di Toronto, Moonlight è un triste racconto di formazione che segue le peripezie di un ragazzo che non riesce a essere accettato da (quasi) nessuno: dalla madre tossicodipendente ai compagni di classe, fatta eccezione soltanto per una coppia che lo proteggerà e per un compagno di scuola che ritroverà anche da adulto. Non è tanto un film sul razzismo (anche se si fa sentire il peso delle numerose morti subite in strada dagli uomini di colore), quanto sull’identità, sessuale in primis ma non solo, di un giovane come tanti, che prova a capire quale sia il suo posto nel mondo e scopre sulla propria pelle che per poter sopravvivere dovrà combattere e, forse, arrivare a negare la sua vera natura. 

13) Barriere (Denzel Washington, 2016)



Le tematiche sono di grande spessore, a partire dai cambiamenti sociali nell’America degli anni Cinquanta, passando per i rimpianti, i rapporti coniugali e le difficili relazioni genitori-figli: non si parla solo di razzismo, ma di argomenti universali che vengono ben sottolineati da dialoghi fitti e capaci di far riflettere. Solo a piccoli tratti verboso ed eccessivamente statico nella sua teatralità, Barriere è un film capace di sorprendere per la sua messinscena delicata e quasi minimale, che anche quando rischia di sfiorare la retorica (nel finale, ad esempio) riesce sempre a fermarsi un momento prima di risultare stucchevole.

14) The Birth of a Nation  - Il risveglio di un popolo (Nate Parker, 2016)



Basato su una storia vera tutt’altro che nota, The Birth of a Nation segna l’esordio alla regia dell’attore Nate Parker, che per il suo passaggio dietro la macchina da presa ha scelto una vicenda black fortemente impregnata di temi come la rivalsa razziale e l’autonomia nera in America, della quale l’operazione prova a tracciare una sorta di precedente storico immerso nel sangue della violenza e dell’insurrezione armata. Niente di più attuale e scottante, soprattutto data la recrudescenza degli omicidi ai danni della popolazione di colore che il paese ha conosciuto in misura sempre maggiore fino alle ultime battute del secondo mandato di Barack Obama.

15) Detroit (Kathryn Bigelow, 2017)



Il film racconta una delle pagine più cruente di tutta la storia americana concentrandosi nello specifico su ciò che accadde all’Algiers Motel, dove tre afroamericani furono uccisi e altri sette, più due donne bianche, furono massacrati da alcuni agenti di polizia che li presero di mira e li pestarono a sangue, venendo in seguito scagionati. Quello della Bigelow è un lavoro febbrile e durissimo, girato con sensazionale perizia quando scende sul terreno degli scontri, ricostruiti con efficace ma anche livida spettacolarità, ma che non manca, allo stesso tempo, di sviscerare le radici storiche e culturali della violenza razziale che racconta.

16) Scappa – Get Out (Jordan Peele, 2017)



In un momento storico in cui la tematica razzista è sempre più trattata dai lungometraggi a stelle e strisce – si pensi, tra i tanti, ai coevi Moonlight (2016) o The Birth of a Nation – Il risveglio di un popolo (2016) – ancora una volta è il genere horror-thriller a rappresentare efficacemente un tema tanto complesso sul grande schermo. Sfruttando un clima di paranoia crescente col passare dei minuti e alcuni inserti ironici in grado di smorzare opportunamente la tensione quando le cose si fanno troppo serie, Peele descrive l’incubo a occhi aperti vissuto da Chris con notevole spessore e lascia più di qualche spunto su cui riflettere al termine della visione. Il razzismo della famiglia, inizialmente sottile e poi a dir poco esorbitante, nasce nascosto sotto luoghi comuni («se avessi potuto avrei votato ancora Obama», dice il padre di Rose, dopo aver commentato a Chris il perché della presenza di soli servitori di colore in casa propria) prima di esplodere tanto nella mente del protagonista quanto negli occhi degli spettatori. 

17) Green Book (Peter Farrelly, 2018)



Ambientato nella New York degli anni ’60, ma costruito come un lungo viaggio on the road attraverso le diverse anime dell’America e in particolar modo degli Stati del Sud, notoriamente i più razzisti, Green Book è una contagiosa e irresistibile commedia che trova nella dimensione da buddy movie - una sorta di A spasso con Daisy (1989) al contrario - e nel sodalizio tra i due protagonisti un’alchimia preziosa e appagante. I due personaggi al centro della vicenda possiedono infatti degli spiccati tempi comici, al servizio di una sceneggiatura a orologeria in cui anche le gag più gustose ed esilaranti sono puntualmente mirate alla connotazione psicologica di entrambi e al loro essere esemplificativi di due anime dell’America, quella spudoratamente bianca e quella sommessamente di colore.

18) BlacKkklansman (Spike Lee, 2018)



Al regista di Atlanta sembra interessare esclusivamente il versante "politico", messo in scena attraverso alcune scelte di grande impatto (il montaggio alternato nel prefinale) che però sono in parte vanificate da momenti troppo enfatici. Tutto questo viene esplicitato in maniera estremamente invadente (non si contano, ad esempio, le elementari stoccate alla presidenza Trump).

19) Il diritto di opporsi (Destin Daniel Cretton, 2019)



Basato su una storia vera dal forte impatto civile realmente accaduta in Alabama, Il diritto di opporsi punta il dito contro le discriminazioni ottuse e razziste ai danni dei cittadini di colore negli Stati Uniti del Sud, area geografica dell’America da sempre fortemente legata a questo tipo di ricadute storiche e sociali. Lo fa raccontando la vicenda dell’avvocato afroamericano Bryan Stevenson: un giovane uomo della legge che, piuttosto che soffermarsi su una carriera tradizionale nell’ambito della giurisprudenza, decise di dedicarsi alle cause di quei cittadini, di colore come lui, contro quella "giustizia" dei bianchi americani che aveva dimostrato un atteggiamento pressappochista e crudelmente sommario, elargendo condanne a morte con immorale disinvoltura. 

20) Noi (Jordan Peele, 2019)



Ragguardevole è la vena dissacrante di Peele e la sua capacità nel tenere insieme affilatezza critica, sforbiciate malevole e appeal presso il grande pubblico, passando dal clima già post-obamiano del suo esordio agli apocalittici echi trumpiani di Noi. Il 1986, come ci ricorda la prima inquadratura, è anche l’anno dell’evento di beneficenza Hand Across America, in cui oltre sei milioni di americani si tennero per mano da Santa Monica a New York, utilizzato come punto di partenza per un discorso sugli Stati Uniti impietoso e radicale, allo stesso tempo sotterraneo e sfacciato, portato avanti attraverso gli strumenti del più puro e scatenato cinema di genere.
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