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Favolacce: l’infanzia verde speranza, rosso fuoco (e nero pece) dei fratelli D’Innocenzo
Favolacce, l’opera seconda dei gemelli romani Fabio e Damiano D’Innocenzo, non è solo l’osservazione in vitro di una periferia allo sfacelo e priva di bussola morale. Non è soltanto la vivisezione, estetica e morale, di un’umanità simile al mondo degli insetti (come suggeriscono fin da subito le formiche e le atmosfere viscide del prologo), ancorata al soddisfacimento di bisogni esclusivamente parassitari. È, prima di tutto, un film sulla fatica di essere bambini in un universo parallelo e deformato, dove le sensazioni presentano, fin dalla più tenera età, il conto di una fisicità ineluttabile ed effimera, inevitabilmente crudele e selvaggia. 

Non a caso i D’Innocenzo, nel loro secondo film dopo La terra dell'abbastanza, hanno scelto di raccontare una fase di transizione che può essere tanto delicata e impalpabile, quanto dolorosa e marchiata a fuoco in chiave traumatica, come quella della pre-adolescenza: un limbo al quadrato, dove le trasformazioni tipiche della crescita si associano all’indeterminatezza di quell’età che da lì a poco condurrà - per intenderci - alle scuole medie, in una nuova fase della vita lontana dal conforto e dalla bambagia dell’essere ritenuti ancora bambini. 

All’interno di un’automobile, nell'incipit di Favolacce, intravediamo una scarpetta rossa che fa capolino fuori dall'abitacolo, inerte e quasi invisibile nell'ombra, ultimo vessillo di una presunta e supposta età dell'innocenza. Il verde della speranza infantile e il nero dell’orrore adulto si inghiottono e si confondono a vicenda intorno ad essa, seguendo un procedimento di giustapposizione cromatica presente e ribadito a più riprese lungo l'arco di tutto il film. E forse non è un caso se i momenti in cui la regia ricorre a immagini particolarmente sfocate sono proprio quelli in cui vengono inquadrate per la prima volta le aule scolastiche: la scuola, dopotutto, in Favolacce non viene quasi mai mostrata, se non rapidamente e se non nel finale, per far precipitare l’imbuto narrativo verso il basso e verso il suo apice rovesciato di drammaticità.
Essendo Favolacce uno film fatto solo di cattivi maestri, anche quando in buona fede, la scuola non può che essere uno spazio osceno in senso etimologico, dai confini slabbrati, non rappresentabile appieno. 




È, però, soprattutto in una sorta di fade out ideale (una dissolvenza metaforica a tutti gli effetti) tra il mondo dei bambini e quello degli adulti che i D’Innocenzo lasciano proliferare e attecchire il loro sguardo fertile e, al contempo, impietoso e insetticida. Una prospettiva che, come nella loro opera prima ma con una sapienza e una coscienza della catastrofe già molto più adulte (guarda caso), è anzitutto una vocazione in cui il manierismo degli steccati autoriali e di genere (la periferia, lo “sguardo da entomologi”, il cinismo alla Lanthimos e via di etichette) viene rifuggito da un approccio personale, vivido, epidermico

Il nero, il rosso e il verde, le tonalità cromatiche più presenti nella tavolozza di Favolacce, accostati gli uni agli altri convivono ad esempio in quanto colori panafricani, dove il nero rappresenta la popolazione africana, il sangue versato dai combattenti per la libertà e il verde la fertilità del paese.
In questo caso Fabio e Damiano, in una Roma marginale che sembra quasi l’Africa per il senso di torrido spaesamento che propone e la malinconia malsana e insopprimibile che porta con sé, ricorrono, guarda caso, allo stesso triangolo cromatico, in virtù di una coincidenza tanto sinistra quanto dannatamente evocativa. E in fondo, negli ultimi anni, ci siamo un po’ abituati, tra i commentatori più sarcastici e sprezzanti, a vedere associato il degrado di Roma all'Africa senza troppi complimenti (i fratelli D’Innocenzo, pur guardando i loro personaggi come mosche prigioniere in un bicchiere, sembrano però lasciarsi maggiormente tentare dalla possibilità di un pietà ultima e apocalittica).

In tanti, al cospetto di quest'approccio estetizzante, potrebbero legittimamente parlare di hipsteria, di abbassamento dell'autorialità ai filtri Instagram, di compiacimento. Ma volgendo queste prerogative in positivo, quello dei D’Innocenzo risuona, in fondo, come uno sguardo fortemente identitario, anche in termini di appropriazione di strumenti estetici generazionali. Per questo motivo non ha molto senso parlare dei D’Innocenzo in rapporto a Pasolini e Caligari, riferimenti che loro stessi trovano stucchevoli se applicati al loro cinema (e di fatto lo sono, quantomeno per banalità). Risulta invece molto più sensato e stimolante ricondurre i gemelli a una nuova famiglia di cineasti in grado di trovare la loro voce a partire dalle fratture di microcosmi geografici circoscritti e ben precisi (Spinaceto in questo caso), che ambiscono però a essere asettici - e stagnanti - solo e soltanto in virtù di un grido liberatorio di universalità (“Siamo in un quartiere nuovo di Roma sud, che con le sue villette, il suo verde e i suoi garage può far pensare a centinaia di situazioni urbane simili, in Europa, in Nordamerica e perfino in paesi più poveri, latini o asiatici”, ha scritto Goffredo Fofi sul film).



Come se il cinema si facesse per la prima volta e, allo stesso tempo, tutto fosse già stato fatto (vale anche per le ambientazioni sospese, scabre e proto-fiabesche dei film di Alice Rohrwacher, insieme ai D’Innocenzo la regista di maggior talento e prospettiva del cinema italiano contemporaneo): non a caso Favolacce ricorre a uno strategemma da manoscritto manzoniano, quello del diario di una bambina ritrovato con voce narrante annessa (di Max Tortora), al servizio di una storia che si dispiega con implacabile e inesorabile armonia, centellinando la boccheggiante e stagnante claustrofobia morale dei propri personaggi (gli adulti, ovviamente) in una sorta di dolce stillicidio. Un meccanismo di alienazione in cui i bambini, per gli adulti che li osservano e li schiacciano, possono al massimo esistere come glaciali replicanti in miniatura della loro mediocrità travestita da voti eccellenti in pagelle lusinghiere: un circuito chiuso di abbrutimento al quale i bambini adeguano la propria innocenza, specie quando tentano di fare sesso riducendolo a simulazione e feticcio stucchevole.

È forse proprio in questa dilatazione del dolore, eternamente rimandato e probabilmente mai esperito se non nella tragedia smisurata e senza nome che tutto obnubila e cancella (parte dalla cronaca nera e ad essa ritorna, Favolacce), che i D’Innocenzo tentano di rintracciare una forma di empatia per i loro personaggi. Basti vedere la scena della cena, in cui il padre e la madre, interpretati da Elio Germano e Barbara Chichiarelli, e i loro figli vengono ripresi sempre in campo lungo, come fossimo in un film di Michael Haneke, dentro una cornice ancora una volta nero-verde. È una sequenza indubbiamente disperata, eppure la presa di distanza non somiglia mai a una telecamera a circuito chiuso come nelle scelte formali del maestro austriaco, ma incorpora al suo interno la familiarità tiepida e assorta del cicaleccio delle serate estive.




Il nero e il verde, ma anche il rosso, dicevamo. Un colore, quest’ultimo, che è anche quello cui i D’Innocenzo ricorrono nel momento in cui, per la prima volta, i due figli del pater familias di Germano vengono a contatto con le sue ire di padre stizzito e insofferente. La figlioletta è molto più vigile e risoluta del maschio, ed proprio è lei che Fabio e Damiano affogano in rosso riottoso nella prima sequenza in cui vi ricorrono. 




I gemelli D'Innocenzo, tra l’altro, sono anche degli ammiratori e dei lettori di quel grande romanzo americano che racconta così bene i sobborghi suburbani statunitensi e le miserie della borghesia a stelle e strisce, da Philip Roth a John Updike passando al grottesco pesto e suburbano di Rick Moody, autore di uno dei loro romanzi preferiti in assoluto e forse "quello che abbiamo consumato di più in assoluto" (parole loro), Rosso americano (per l’appunto). 

Il prologo del libro di Moody, che descrive una disperata, cupissima e volutamente respingente scena di accudimento materno, si conclude con una frase emblematica e sardonica relativa al protagonista: “Hex Raitliffe. E se costui è un eroe, allora gli eroi sono a bizzeffe, e il mondo ne è pieno come lo è di cani randagi, gomme lisce e chiavi smarrite”. Nel prologo di Favolacce c’è un’immagine analoga, anch’essa con al suo interno tre oggetti di sconfortante ma tridimensionale banalità: un tappo di bottiglia, del pane tostato, un accendino.
Una nuova generazione di narratori, che non ha più bisogno di eroi e alle quale è rimasto solo il conforto delle sue brutte favole, passa anche da immagini apparentemente irrilevanti e fluttuanti come questa, dalla loro sognante e misteriosa reticenza, “come se non tutto fosse effettivamente su carta eppure presente con pesantezza”.



Davide Stanzione
Maximal Interjector
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