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Fellini, il circo dei ricordi tra realtà e immaginazione

Regista, sceneggiatore, scrittore e fumettista, Federico Fellini (Rimini, 20 gennaio 1920 – Roma, 31 ottobre 1993) è, con tutta probabilità, colui che meglio di chiunque altro rappresenta la sconfinata grandezza del cinema italiano che fu, al di là di qualsiasi coordinata spazio-temporale. Radicata al tessuto storico, politico, sociale e culturale della camaleontica Italia tra i primi anni '50 e la fine degli anni '80, l'opera di Fellini è un tonitruante, fiabesco, sboccato, satirico, nostalgico, mostruoso e poetico fiume in piena che travolge gli argini dei confini nazionali per imporsi come una irripetibile forma d'arte universale.

«È stato Fellini a spingermi verso il mio cinema. Ci sono pochi registi che hanno allargato il nostro modo di vedere e hanno completamente cambiato il modo in cui sperimentiamo questa forma d'arte. Fellini è uno di loro. Non basta chiamarlo regista, era un maestro». (Martin Scorsese)


Un'avventura, quella di Fellini, che parte dalla riviera romagnola, da quel natìo luogo dell'anima in cui i giovani sfaccendati passavano le giornate gironzolando senza una precisa meta come in ogni paese di provincia segnato da noia, incapacità di realizzarsi e desiderio di evasione. Vitelloni da portare nel cuore e ricordare con affettuosa nostalgia, che si rivedevano specchiati nel tedio della stagione morta invernale e non nella spensieratezza dell'estate balneare. Dietro tutta la miseria delle giornate passate al bar, della passeggiata fino al molo, dell'amico che si traveste da donna e poi si sbronza e piange, c'è tutto il sentimento di insoddisfazione di un preciso momento della vita di ciascuno di noi. «Rimini: una parola fatta di aste, di soldatini in fila. Non riesco a oggettivare. Rimini è un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, con questo vuoto aperto del mare. Lì la nostalgia si fa più limpida, specie il mare d'inverno, le creste bianche, il gran vento, come l'ho visto la prima volta».

I vitelloni (1953)
I vitelloni (1953)


Disegnatore e umorista
fin dalla giovanissima età, Federico Fellini fa del bozzetto il punto di partenza per la creazione di un soggetto, ritrovando a sua volta in fumetti e caricature gran parte degli elementi necessari alla mise en scène del suo mondo magico e sospeso. Uno degli elementi di congiunzione tra il Fellini vignettista e il Fellini cineasta è la figura di Giulietta Masina, ovvero quella poesia, fanciullesca e disincantata, che rimanda al mondo del circo, alla malinconia del clown e al desiderio mai nascosto di voler rifiutare le responsabilità dell'età adulta.

Giulietta degli spiriti (1965)


Il mondo grafico della carta stampata di cui si nutre Fellini, non è solo quello infantile vissuto da ragazzo, ma è anche quello sguaiato e volgare delle vignette popolari (fondamentale per la sua formazione l'esperienza alla rivista satirica Marc'Aurelio, a cavallo tra gli anni '30 '40, pochi mesi dopo il suo arrivo a Roma). L'aggressività ridondante della grafica giornalistica non è mai venuta meno nel cinema anti-intellettuale felliniano: anche nelle opere più sofisticate, la cultura bassa, come referente, rimane un elemento essenziale.

«Fellini può andare molto avanti sulla strada della ripugnanza visiva, ma su quella della ripugnanza morale si ferma, recupera il mostruoso all'umano, all'indulgente complicità carnale. Tanto la provincia vitellona quanto la Roma cinematografara sono gironi dell'inferno ma sono anche insieme godibili Paesi di Cuccagna. Per questo Fellini riesce a disturbare fino in fondo: perché ci obbliga ad ammettere che ciò che vorremmo di più allontanare ci è intrinsecamente vicino». (Italo Calvino) 


Il cinema di Fellini, sulla base di un armonioso corto circuito, si nutre di ricordi che sono essi stessi artificio metalinguistico, deformazione iconoclasta filtrata dalla lente della memoria che porta a galla avvenimenti verosimili contaminati dalla Storia e dalla fantasia, dal freak e dal sublime, dal fumetto e dal testo storico, dalla cultura pop e dalla mano greve di una educazione religiosa poco permissiva. «Dal giorno in cui sono nato fino al mio primo ingresso a Cinecittà, la mia vita mi pare sia stata vissuta da qualcun altro; da uno che, solo a tratti e quando meno me lo aspetto, decide all'improvviso di parteciparmi qualche frammento dei suoi ricordi. Debbo quindi ammettere che i miei film della memoria raccontano ricordi completamente inventati. E del resto, che differenza fa?».

Sacro e profano, poli opposti non mutuamente esclusivi, convivono in una forma d'arte che fa della trasversalità un elemento centrale. Ciò che per qualsasi altro autore sarebbe un accumulo bizzarro e anche un po' scellerato di elementi eterogenei, in Fellini diventa sublime mappatura metafisica, dove la ricerca visiva forza l'immagine nella direzione che dal caricaturale porta al visionario.

Con il passare degli anni, in Fellini, lo stile barocco assume i tratti di una figurazione debordante, facendosi carico di una complessità che ancora oggi è oggetto di studio. Secondo il grande autore riminese, quando il cinema ricorre a un testo letterario, il risultato, nel migliore dei casi, sarà sempre e soltanto una trasposizione di tipo illustrativo che con l'originale conserva coincidenze semplicemente anagrafiche. Le parole e il dialogo hanno uno scopo informativo per permettere di seguire la vicenda in maniera razionale, mentre il film muto ha una sua misteriosa bellezza, una potente seduzione evocativa che lo rende vicino alle immagini vissute in sogno.

Fellini Satyricon (1969)

 

E per Fellini, che cos'è Roma? Un luogo in cui il peso della Storia e della religione gravano su una moltitudine brulicante di individui diversissimi tra loro, una Babele contemporanea che inghiotte le persone come in un vortice, ma anche un luogo sicuro che culla chi vi si adagia mollemente e si perde nelle sue distrazioni. Ma ogni possibile descrizione a parole è destinata a essere inopportuna. Fellini non si è mai ritenuto capace di rispondere alla domanda "Che cos'è Roma?". Ha dato però forma ai suoi pensieri, descrivendo cosa pensa quando sente la parola "Roma". «Penso a un faccione rossastro che assomiglia a Sordi, Fabrizi, la Magnani. Un'espressione resa pesante e pensierosa da esigenze gastrosessuali. Penso a un terrone bruno, melmoso: a un cielo ampio, sfasciato, da fondale dell'opera, con colori viola, bagliori giallastri, neri, argento; colori funerei. Ma tutto sommato è un volto confortante. [...] Roma è una madre, ed è la madre ideale, perché indifferente. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai, come il tribunale di Kafka. Sappiamo che Roma è una città carica di Storia, ma la sua suggestione sta proprio in un che di preistorico, di primordiale, che appare netto in certe sue prospettive sconfinate e desolate, in certi ruderi che sembrano reperti-fossili, ossei, come scheletri di mammut».

Grazie, Federico.


Bibliografia

• Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, 1980

• Italo Calvino, Autobiografia di uno spettatore, Einaudi, 1974

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