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Guillermo del Toro: una fiaba dark per esorcizzare gli spettri del passato
Il 9 ottobre compie gli anni uno dei Three Amigos, trittico di autori messicani che, negli ultimi vent’anni, hanno contribuito alla rinascita del cinema messicano. Stiamo parlando del premio Oscar Guillermo del Toro, regista dal tratto peculiare che ha saputo dare vita a un tipo di cinema che unisce fiaba e realtà storica, horror gotico e fantasy steampunk. In occasione del cinquantasettesimo compleanno del regista di Guadalajara proponiamo un approfondimento su tratti e tematiche che hanno reso grande il suo cinema.



Cortocircuito tra universo fiabesco e realtà storica, dicevamo, è una delle caratteristiche che più saltano all’occhio nella poetica di del Toro. È questo il caso di due film in particolare: La spina del Diavolo (2001) e Il labirinto del fauno (2006). Storia di fantasmi la prima, fiaba dark la seconda; entrambe accomunate da un evidente legame con fatti storici che hanno gettato la Spagna in 40 anni di terrore. La spina del Diavolo è un film di spettri ambientato durante la guerra civile spagnola. Tutto ciò che resta in sospeso, altro non è che un fantasma: è questo il pensiero del regista. Quale altro genere, se non quello fantasmatico, poteva trasporre sul grande schermo la storia del trauma che il popolo spagnolo non è mai riuscito a esorcizzare (quello della guerra civile che sconvolse il paese dal ‘36 al ‘39)? Una ferita mai del tutto cicatrizzata, insomma, un trauma sepolto negli angoli più oscuri della memoria che, inevitabilmente, è diventato una sorta di tabù. Il film si ambienta all’interno di un orfanotrofio in cui la morte stessa sembra essere un tabù: non solo i bambini continuano a ricevere lettere da genitori ormai non più in vita (un tentativo di negare la morte), ma anche il mistero del fantasma di un ragazzo che infesta l’orfanotrofio viene osteggiato da un’omertà che tutto vuol mettere a tacere.



Ne Il labirinto del fauno Del Toro ci riporta agli anni del terrore franchista, anni in cui si cerca di imporre un’unica narrazione e, così facendo, si perde la capacità di vedere oltre, o da altre prospettive. È questo il caso del comandante Vidal, incapace di vedere oltre la narrazione imposta dal regime totalitarista. Nel film, i mostri altro non sono che il corrispettivo fantastico dei gerarchi fascisti (le scene del banchetto sono, per l’appunto, speculari). Del Toro non lesina i rimandi visivi a opere artistiche: è il caso dell’Uomo Pallido, evidentemente ispirato al dipinto di Goya, Saturno che divora i suoi figli (come il titano uccideva i propri figli per stroncare sul nascere una futura minaccia, anche la spagna franchista soffocava le voci delle nuove generazioni sul nascere per mantenere il proprio status quo). Altro rimando visivo sono le scarpette che Ofelia trova ammassate: rimando alla tragedia dell’olocausto. È interessante notare come Guillermo del Toro remi contro al diktat dell’unica verità imposta dal regime totalitario: il film, infatti, è aperto a molteplici interpretazioni. Il mondo fantastico potrebbe essere una creazione di Ofelia: un rifugio in cui evadere da quell’incubo che è la realtà. È interessante notare come il regista instilli il dubbio nello spettatore: i sensi di Vidal vengono infatti alterati da una particolare sostanza, del Toro ribalta così un elemento narrativo: una droga solitamente genera allucinazioni, ma, in questo caso, potrebbe avere l’effetto opposto: quello cioè di celare il fantastico. La scelta narrativa del regista di non avvalorare una solo interpretazione è di per sé un atto di ribellione. Spetta a noi spettatori quindi decidere se credere, o meno, al mondo fiabesco che si nasconde dietro una cupa realtà.

Simone Manciulli

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