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I film che rompono la quarta parete - Una crepa nel sogno di un voyeur
La “rottura della quarta parete” è un espediente tramite il quale il pubblico diventa improvvisamente parte integrate dello spettacolo e viene meno quel patto di sospensione dell’incredulità che intercorre tra l’opera e il lo spettatore: una vera e propria scossa, dunque, capace di frantumare quel limbo onirico nel quale lentamente e inconsciamente sprofonda il voyeur. Espediente narrativo da dosare con cura, quindi, e che risale addirittura ai tempi del teatro romano (Plauto fu infatti uno dei primi a inserire il pubblico all’interno dello spettacolo). Questa tecnica stilistica, molto amata dal pubblico, trovò definitiva consacrazione durante l’epoca del teatro vittoriano (periodo in cui si iniziò a prendere piede il box sets: un palcoscenico delimitato da tre pareti; la quarta parete consisteva invece nel muro immaginario che separava l’artista dal pubblico). Questo confine che separa la finzione dalla realtà ha trovato ulteriore impiego con la nascita della settima arte dove, specialmente nella commedia, sono stati proposti stratagemmi sempre più originali in grado di turbare la finzione narrativa

Uno dei più celebri ed esilaranti momenti in cui l’artista si rivolge allo spettatore, invitandolo a empatizzare con una situazione in cui si vede costretto ad ascoltare le sentenziose sparate di un professore, lo troviamo ovviamente in Io e Annie (1977), diretto da Woody Allen. Sagace trovata del regista newyorkese che, di punto in bianco, ci rende partecipi di una situazione in cui, prima o poi, chiunque di noi si è ritrovato. Chi, infatti, non ha sognato azzittire gli sproloqui di un sentenziatore tirando fuori dal cilindro proprio l’autore e bersaglio di tali improperi.



Altra scena memorabile che possiamo trovare nella filmografia alleniana è l’inizio di Basta che funzioni (2009): il folgorante monologo che Boris Yellnikoff rivolge alla platea, e che genera le perplessità dei suoi amici (ai loro occhi Boris sta parlando da solo), è soltanto un assaggio delle caustiche e irriverenti battute con cui questo cinico protagonista ci accompagnerà per tutta la pellicola.



Ne La rosea purpurea del Cairo (1985) Allen utilizza la rottura della quarta parete come elemento di metafinzione: viene infatti aggiunto un ulteriore passaggio fra la realtà e la finzione; l’avventuriero Tom Baxter si rivolge al pubblico in sala, e nello specifico a Cecilia, andando a intaccare la sospensione dell’incredulità dello spettatore che, in questo caso però, appartiene anch’esso alla finzione narrativa.



Lo stesso stratagemma verrà poi riproposto in Last Action Hero (1993), diretto da John McTiernan, in cui il giovane Danny riuscirà a interagire con il suo eroe, Jack Slater, grazie a un biglietto magico.



Altra trovata geniale la troviamo in Balle Spaziali (1987), diretto da Mel Brooks. La scena in cui Lord Casco visiona la videocassetta pirata dello stesso Balle Spaziali ci proietta in un caleidoscopico gioco di riflessi. 



Allontanandoci dal mondo della commedia, troviamo l’utilizzo di questa tecnica anche tutt’altri generi. Basti pensare all’utilizzo che ne fa Tarantino in Pulp Fiction (1994), film dalla narrazione talmente mesmerizzante da far sprofondare lo spettatore totalmente nella finzione narrativa. Il regista di Knoxville è ben consapevole della carica magnetica della pellicola e si diverte a scuoterci nel momento in cui Mia Wallace disegna un rettangolo tratteggiato proprio sullo schermo. 



Spostandoci invece nel mondo del thriller impossibile non citare lo sguardo che Norman Bates lancia in macchina nel finale di Psyco (1960), occhiata scomoda e pruriginosa che costringe il pubblico a puntare i riflettori su quelle che sono le ombre della propria mente.



Anche Fincher gioca con noi spettatori: in Fight Club (1999) Tyler Durden si rivolge direttamente in camera in una delirante scena in cui la pellicola stessa inizia a oscillare, palesandoci quella che è la finzione cinematografica: “Tu non sei il tuo lavoro. Non sei la quantità dei soldi che hai in banca. Non sei la macchina che guidi né il contenuto del tuo portafogli. Non sei i tuoi vestiti di marca. Sei la canticchiante e danzante merda del mondo”.



Ultima menzione per quanto riguarda il thriller spetta a Personal Shopper (2016) di Olyvier Assayas. Lo sguardo finale in macchina di Kristen Stewart coinvolge lo spettatore con i dubbi di una protagonista tormentata e alla ricerca di un’identità. L’attesa di un segnale che potrebbe non arrivare mai spalanca un abisso di riflessioni: Chi sei tu? Chi sono io? Siamo forse tutti ombre (o spettri) legate unicamente dal nervoso battere dei tasti sulla tastiera dei nostri smartphone? 



Non solo film in live action ma anche il mondo dell’animazione si è divertita a giocare con il sogno sospeso degli spettatori, basti pensare a Le follie dell’imperatore oppure (2000) all’inizio di Aladdin (1992) in cui il mercante di spezie (divenuto poi oggetto di illazioni sulla sua vera identità: ha preso infatti piede la teoria secondo la quale sarebbe il Genio stesso) si rivolge direttamente al pubblico per raccontare la storia di Aladdin.



Simone Manciulli
Maximal Interjector
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