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Il cinema del maestro Paul Thomas Anderson: i fantasmi e le ossessioni dell’animo umano

Paul Thomas Anderson è sicuramente uno dei registi contemporanei più prolifici, un enfant prodige che ha già donato al cinema numerosi capolavori. In trepidante attesa di Licorice Pizza, uscito oggi venerdì 26 novembre nelle sale americane, volevamo raccontare le caratteristiche fondamentali che contraddistinguono il suo personalissimo cinema autoriale.


Paul Thomas Anderson nasce il 26 giugno 1970 a Studio City, un quartiere di Los Angeles dove spesso ha ambientato i suoi film. Dopo aver abbandonato il college e la scuola di cinema, trova lavoro come assistente di produzione per film televisivi e video musicali, e successivamente intraprende la carriera da regista esordendo con il cortometraggio Cigarettes and Coffee (1993), arrivando a dirigere il suo primo lungometraggio Sidney (1996) a soli 25 anni.

P. T. Anderson giunto all’ottavo film, ambientato nella San Fernando Valley degli anni Settanta, sceglie di raccontare la storia di un giovane liceale che ha intrapreso la carriera di attore sin dall’infanzia. Il titolo Licorice Pizza fa riferimento a una catena di negozi di dischi celebre negli anni Settanta. Già da queste piccole informazioni si può cogliere parte della poetica del regista. Uno dei marchi di fabbrica del suo cinema, infatti, è quello della scelta di una colonna sonora preponderante, come le vibranti percussioni in Ubriaco d’amore simbolo dello stress emotivo e di quel senso di inadeguatezza provato dallo strepitoso Adam Sandlar nei panni dell’imprenditore Barry.

I personaggi sono interpretati spesso da attori con cui ha già lavorato in passato, perché come ha rilasciato in una recente intervista: “Una volta che lavoro con qualcuno, voglio lavorarci ancora e ancora. Voglio lavorare con ogni persona in questo film”. La scelta del protagonista del film, Cooper Hoffman, figlio del compianto Philip Seymour Hoffman è sintomo probabilmente di una certa nostalgia, per la scomparsa, in primis di un amico, e in secondo luogo di un attore che con Anderson ha brillato di luce propria. E come lui tanti altri come Joaquin Phoenix, Daniel Day-Lewis, Julienne Moore.


Anderson dimostra di non voler rinunciare mai alla sua firma autoriale, imponendosi artisticamente su ogni elemento che compone il film. Per questo motivo, è sempre curiosa e affascinante la scelta meticolosa dell’immagine di copertina dei suoi film. La scelta delle locandine è frutto della collaborazione di Anderson in stretto contatto con un gruppo di grafici, poiché in essa risiede tutta l’essenza del film, tutto il suo profondo contenuto. Il film in un’immagine. Ci riesce eccome!

In Vizio di forma il volto di “Doc” (Joaquin Phoenix) è illuminato dalle luci a neon di Los Angeles: il mosaico di personaggi incontrati sono raffigurati dentro la sua testa, e infine la mano di Shasta, la sua ex-compagna da cui partiranno le indagini, che si appoggia sul suo capo come una figura in grado di controllare e manipolare il protagonista. Vizio di forma è a tutti gli effetti un noir psichedelico e allucinatorio in grado di ribaltare i canoni di genere, del classico detective virile e del though guy: “Doc” è un forte richiamo al detective Philippe Marlow del Lungo addio di Robert Altman piuttosto che a un Humphry Bogart.

Ne Il petroliere invece, il profilo di Daniel Plainview (Daniel Day-Lewis) si sovrappone a un giacimento petrolifero in fiamme, comunicando l’idea di un personaggio avido e maligno. Un gioco interpretativo che funziona con molte delle magnifiche locandine dei suoi film.


I personaggi spesso fungono da sineddoche e da metafore che raccontano qualcosa di molto più ampio. Daniel ne Il petroliere incarna, nella sua avidità e nella brama di potere, il capitalismo americano in contrasto con un’istituzione che non rinuncia anch’essa a una forma di dominio: la Chiesa (è il personaggio di Paul Dano a rappresentare l’universo religioso). Potenza economica e religione sono i due elementi conflittuali su cui si erge la Storia degli Stati Uniti d’America: attraverso gli scontri tra Daniel Plainview e Eli Sunday dipinge la perdita dell’innocenza di una Nazione.

È noto quanto Anderson, insieme al suo amico Quentin Tarantino, si schieri a favore dell’utilizzo della pellicola, poiché fermamente convinto che la patina visiva della pellicola sia ancora insostituibile rispetto al digitale. In merito a The Master sceglie di girare addirittura con la pellicola 70 mm in uso durante il periodo in cui è ambientato il film. La “pasta” della pellicola è un valore aggiunto alla componente estetica dei suoi film che esplode sicuramente ne Il filo nascosto (ricorrendo alla pellicola 35 mm), in cui la raffinatezza e la cura maniacale della messinscena innalzano il cinema di Anderson a un livello alquanto insuperabile, nel racconto di questo melodramma sensazionale alla scoperta delle ossessioni e dei fantasmi insiti nell’animo umano. I piani-sequenza virtuosissimi (stupefacente l’incipit di Boogie-night) sono la dimostrazione delle abilità tecniche di un regista che, seppur ammetta l’influenza dei suoi padri artistici, Martin Scorsese e Robert Altman, si afferma come una vera e propria figura autoriale.

 
Il regista californiano ha dimostrato di non volersi rinchiudere in un genere specifico, bensì di voler spaziare passando dal dramma, al noir, alla commedia romantica, mantenendo, però, una costante contenutistica e stilistica. Il suo cinema è un epico mosaico di personaggi in cerca d’amore, di perdono e di redenzione perché in qualche modo consapevoli delle proprie debolezze - dinamiche riscontrabili soprattutto in Magnolia (1999), considerato il suo film più drammaturgico - e del bisogno di ricercare una figura paterna che possa smuoverli, aiutarli ad affrontare meglio le intemperie della vita. Probabilmente, l’opera che pone in primissimo piano questo rapporto paternalistico tra seguace e mentore è l’incredibile The Master, in cui Freddie (Joaquin Phoenix) vive in un disperato rapporto con sé stesso e col mondo, in seguito al il ritorno dalla Seconda Guerra Mondiale, in un’epoca in cui l’essere umano ha perso l’etica e la morale. Per questo motivo, Lancaster (Philip Seymour Hoffman) si pone come il nuovo faro da seguire. I rapporti umani dipinti da Anderson non sono mai riduttivi e approssimativi, ma carichi di attrazione e repulsione tra individui. È proprio per questo concetto molto comune nei suoi film, che il risultato eccellente è di un’assoluta empatia con i personaggi, supportata da una sospensione morale e una sospensione del giudizio da parte dello spettatore, poiché in fondo è difficile non affezionarsi al complesso di caratteri creati da Anderson, tutti così “dannatamente” umani.

Prevale un senso di solitudine, una solitudine amara, ma che risulta funzionale affinché ci si possa imporre come individui per distinguersi dalla coralità del mondo. L’individuo, tuttavia, fermo sulle sue convinzioni, pronto a riscattarsi e determinato a raggiungere i suoi scopi, arriva allo scontro con gli altri, ma soprattutto con sé stesso, e specchiandosi nella propria solitudine ne comprende tutta la fragilità e la limitatezza umana. 

A cura di Matteo Malaisi

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