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I 5 migliori film di Paul Thomas Anderson

In occasione del suo 51esimo compleanno (26 giugno 1970), ripercorriamo la straordinaria carriera artistica di Paul Thomas Anderson attraverso la classifica dei suoi cinque migliori film. Un autore di importanza capitale all’interno del panorama cinematografico contemporaneo, capace di unire nobile rispetto per il cinema classico e innovative intuizioni orientate al futuro, minuziosa ricerca formale e densità di scrittura, sontuosa potenza espressiva e inebriante gusto per il dettaglio.

5) Vizio di forma (2014)


Paul Thomas Anderson adatta per il grande schermo l’omonimo romanzo di Thomas Pynchon, limando funzionalmente temi e situazioni ma rispettandone l’arguto e spiazzante spirito originario. Conscio della lezione altmaniana (si veda Il lungo addio del 1973), il regista statunitense stravolge gli stilemi del genere noir, contaminandoli (con inaspettata ironia) a inserti grotteschi che denotano uno spiccato gusto del nonsense, e riesce a riflettere la psichedelia di un mondo impazzito (siamo in piena era Nixon, tra contestazioni agguerrite e rifiuti nichilisti), in cui la verità sembra sempre più lontana e irraggiungibile, detonatore di evidenti rimandi a una contraddittoria contemporaneità. Opera complessa e strutturata, straniante e imprescindibile.

4) Magnolia (1999)


Accentuando ulteriormente un’impostazione drammaturgica che punta sulla coralità e mantenendo uno stile virtuosistico ma mai gratuito, Paul Thomas Anderson riprende sostanzialmente il blocco attoriale di Boogie Nights (1997) per raccontare ancora una volta una storia di miserie umane, di sofferenza e di inadeguatezza di fronte alle varie declinazioni di dolore e frustrazione. Accumulando personaggi, punti di vista, situazioni più o meno simili tra loro, il regista costruisce un racconto complesso, caotico, irrisolto e contraddittorio ma al contempo travolgente e spiazzante capace di dare forma (cinematograficamente) compiuta all’inafferrabile e affascinante confusione della vita. Orso d’oro a Berlino.

3) The Master (2012)


Il sesto film di Paul Thomas Anderson è il ritratto di un’America ferita, a caccia di certezze e maestri da seguire, in cui l’uomo americano, stretto tra gli orrori della Seconda guerra mondiale e l’imminente conflitto in Corea, si muove in cerca di qualcuno che possa guidarlo e aiutarlo a incanalare in maniera costruttiva forza e brutalità dettate dalla disperazione e da nervi a pezzi. Visivamente sontuoso (pensato e girato nel formato a 70 millimetri), un film complesso e sfaccettato, ai limiti dell’ermetismo, ostico ma non per questo meno affascinante e che richiede più di una visione per cogliere (o quanto meno provarci) tutte le sue molteplici sfumature e sensi reconditi. Leone d’Argento per la miglior regia e Coppa Volpi per i due protagonisti (Joaquin PhoenixPhilip Seymour Hoffman, straordinari) alla Mostra del Cinema di Venezia.

2) Il petroliere (2007)


Attraverso un magniloquente affresco, disincantato e profondamente cinefilo (con rimandi a Erich von Stroheim, John Huston e Stanley Kubrick), Anderson mette sullo schermo la perdita dell’innocenza di una Nazione, sottolineando le contraddizioni e gli eccessi di una grande potenza economica in divenire, con al centro le sue due anime più forti: il capitalismo e la religione, incapaci di dialogare tra loro e alieni a qualsiasi compromesso. Una delle opere cinematografiche più importanti degli anni 2000. Due Oscar: attore protagonista (un monumentale Daniel Day-Lewis) e fotografia (Robert Elswit). Orso d’Argento per la migliore regia e Orso speciale per il contributo artistico (alla colonna sonora di Jonny Greenwood) al Festival di Berlino.

1) Il filo nascosto (2017)


Cinque anni dopo The Master (2012), Paul Thomas Anderson torna ancora agli anni Cinquanta e a un rapporto ossessivo tra due personaggi, in cui le dinamiche di figura forte e figura debole si vanno a interscambiare nel corso della narrazione. Reynolds Woodcock, uomo austero e severissimo ma anche capace di inattese fragilità infantili, è ancora succube del fantasma di una madre, le cui reliquie (una fotografia, una ciocca di capelli) porta sempre con sé: lui, che conosce alla perfezione la femminilità e i desideri di ogni donna, sembra poter fare a meno di una compagna nella vita, fino a quando non conosce Alma, modella, amante e addirittura “nuova madre” pronta a prendersi cura di lui e a scacciare gli spettri nascosti tra i fili degli abiti che Reynolds tesse quotidianamente. È infatti un film di fantasmiIl filo nascosto, ma non sono soltanto quelli presenti a livello diegetico, ma anche quelli di una storia (del cinema) caratterizzata dal ricorso alla pellicola 35mm, capace di restituire atmosfere del tempo che fu e di ricordare film americani diretti da autori inglesi (molti i possibili rimandi a Rebecca – La prima moglie e Il sospetto di Alfred Hitchcock) o, allo stesso tempo, film inglesi di autori americani (Il servo e numerosi lavori successivi di Joseph Losey). Un grande melodramma, con al centro l’amore e le debolezze umane, impossibili da nascondere anche sotto la stoffa di un magnifico abito da sposa.

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