John Carpenter: tre sequenze per capire il suo stile
01/02/2021

Quando si pensa al cinema di John Carpenter, alle sue qualità, alla sua straordinaria unicità e grandezza, sono tante le cose che vengono in mente: tra queste, certamente, c’è la sua capacità di coinvolgere lo spettatore, di farlo riflettere e in qualche modo farlo uscire dalla sua comfort-zone, mostrandogli la realtà da un punto di vista nuovo, che mai si sarebbe immaginato prima di entrare al cinema e sedersi per vedere un suo film.

Il bello della vera arte è dato dal talento del suo autore e dalla sua abilità nello smuoverci, nell’arricchirci di quella scintilla in grado di farci porre delle domande anche dopo il tempo della mera fruizione.
Carpenter è uno di questi artisti.

Quando si osserva un suo lungometraggio si rimane affascinati dalla sua capacità descrittiva, tipica di quei cineasti che meritano di diritto di stare nell’Olimpo della settima arte.
Sono molte le scene e le sequenze che rimangono impresse delle sue opere.

Come non ricordarsi dei suoi straordinari finali, da quello di 1997: Fuga da New York, passando per quello de La Cosa, e arrivando a quello de Il Seme della Follia, in cui a essere sotto attacco è il ruolo dello spettatore stesso.
Immagini vivide, pugni in faccia in grado di svegliarci e a cui è difficile rimanere indifferenti. Riguardando e riguardando i suoi film, però, si nota sempre di più come, fin dalle prime battute, dagli incipit, fosse già tutto lì.
Significati profondi sciorinati in pochissimi frame grazie a un'innata qualità di condensare in brevissimo tempo ciò che molti registi non riuscirebbero a fare in un’intera carriera.

Prendiamo come esempio le sequenze iniziali di tre delle sue maggiori opere: Halloween - La Notte delle StregheLa Cosa e Il signore del Male.

In questi tre film, seppur in maniera differente, Carpenter tende ad agire per sottrazione di immagini, valorizzando allo stesso tempo ciò che viene da noi visionato. Una prova tangibile è il caso di Halloween in cui, dopo i titoli di testa, il regista ci immerge immediatamente nell’azione grazie a una soggettiva che, dall’esterno, ci fa avvicinare a piccoli passi verso una casa della periferia borghese americana.



Ci troviamo in questo momento, grazie a tale scelta, nelle stesse condizioni di quello che scopriremo essere il principale protagonista del film, Michael Myers: condividiamo il suo punto di vista e, insieme a lui, spiamo due fidanzati intenti a passare una serata insieme.
A poco a poco ci accorgiamo che le intenzioni del personaggio, e così anche le nostre ,non sono delle migliori: quando vediamo una mano impossessarsi di un coltello da cucina veniamo trasportati nella sua furia omicida.
Il regista costruisce la tensione quasi solamente con l’elemento visivo, se escludiamo poche note dissonanti che ci accompagnano durante la visione; il tutto è orchestrato magicamente dal cineasta in quello che sembrerebbe essere un vero e proprio piano sequenza in soggettiva, in realtà, fittizio, vista la presenza di alcuni tagli ottimamente mascherati dall’estro dell’artista.
L’utilizzo della Panaglide, una steadicam ante litteram in grado di supportare il formato Panavision, rende possibili movimenti che con i più classici carrelli non sarebbero stati fattibili, permettendo al regista di seguire in maniera efficace la prospettiva del personaggio. Indossata la maschera, l’omicida entra in azione e ancora una volta siamo costretti a seguirlo.
L’indugiare della macchina da presa sulle coltellate rende ancor più cruda e macabra la scena a cui stiamo assistendo. Continuiamo a seguire i movimenti dell’assassino fino al pianerottolo d’ingresso e vediamo giungere un auto; in quell'istante uno stacco e un movimento di gru all’indietro svelano definitivamente l’identità dell'omicida: Michael è un bambino, il fratello di Judith, la ragazza da lui uccisa.
Finisce così la simbiosi tra noi e il giovane assassino, la breve costrizione a cui siamo stati sottoposti da parte del regista nel visionare questo atto di violenza. In pochissimi passaggi Carpenter riesce a rendere narrativamente esplicativa una sequenza, sintetizzando concetti ed elementi che verranno approfonditi lungo l’intera durata della visione.
In realtà il film è tutto racchiuso in queste immagini: la maschera, il coltello da cucina e, soprattutto, Michael che possiede già le stigmate del Male assoluto; il fatto che assuma le sembianze di un bimbo dai tratti angelici rende, per contrasto, ancor più forte la scena a cui abbiamo assistito.

Passano solo quattro anni e Carpenter, ormai entrato nel novero dei registi più ambiti dalle major, si appresta a dirigere il suo primo film ad alto budget: La Cosa.
Seppur disponendo di maggiori finanziamenti il regista decide di rimanere estremamente fedele al suo stile autoriale. Ancora una volta il cineasta scalfisce la materia filmica fino all’osso, lavorando sull’essenziale. Stavolta però lo fa attraverso l’utilizzo del montaggio.

Dopo i titoli di testa, in cui vediamo una navicella precipitare sul nostro pianeta, parte l’incipit vero e proprio. Un cane corre in mezzo alla neve inseguito da due uomini a bordo di un elicottero che tentano di braccarlo. Le riprese a bordo del velivolo risultano perfette, intente a mostrarci non solo la posizione di svantaggio da parte dell’animale, ormai quasi privo delle sue forze, ma anche l’ambientazione in cui si svolge l’azione.

Siamo in Antartide, dispersi nel nulla più assoluto. Sembra quasi che questo inseguimento non debba mai terminare, ma, a un tratto, compare un edificio: è la base scientifica U.S. Outpost 31.
A poco a poco ci vengono mostrati i vari componenti della spedizione, che immediatamente si riversano fuori dalla struttura per vedere che cosa stia succedendo: i due uomini a bordo dell’elicottero, due norvegesi di una base vicina, come scopriremo nel corso del film, stanno sparando e lanciando esplosivi contro il cane, tentando di comunicare con gli americani per avvisarli di qualcosa.



C’è inevitabilmente uno scontro a fuoco e un’esplosione in cui i due norvegesi rimangono tragicamente uccisi.
È vero che lo sviluppo del plot porterà a galla aspetti differenti e approfondirà i significati alla base del film, ma ancora una volta, già in queste prime battute, emergono moltissimi spunti condensati in brevissimi attimi, gestiti registicamente in modo magistrale.
Primo fra tutti il tema dell’incomunicabilità tra gli uomini, parte essenziale della critica dell’opera, che si rende evidente in questi istanti. Seppur a livello linguistico, l’incomprensibilità e l’incapacità di collaborare tra i norvegesi e gli americani porta questa crisi anche all’interno del gruppo dello U.S. Outpost e contribuisce al suo successivo disfacimento.
L’anticonformismo e la solitudine di MacReady, personaggio cardine del film, interpretato dall’attore feticcio di Carpenter per eccellenza, Kurt Russell, vengono riassunti in brevissimi passaggi, come la sua frustrazione nei confronti della scacchiera computerizzata e il suo isolamento dal resto del gruppo quando lo vediamo uscire dalla sua baracca, al suono degli spari, mentre il resto dei suoi compagni è insieme a riposarsi in altre stanze. Certamente il lavoro di sceneggiatura questa volta ha aiutato Carpenter nell’attuare tale disamina ma è altrettanto vero che la regia mette in evidenza questi aspetti.
Narrativamente il regista presenta i dodici personaggi principali in questa breve scena. Per esempio, scopriamo visivamente, non attraverso il dialogo, che Clark (Richard Masur) è l’addetto ai cani e che Gary (Donald Moffat) è il comandante e possiede una pistola. Ancora una volta sono la descrizione visiva, la prossemica e il comportamento dei personaggi a rendere comprensibili certi aspetti dei caratteri presenti all’interno del film.

Con il passare degli anni emerge sempre più nel cinema carpenteriano l’indagine di nuovi modi di vedere la realtà, grazie anche alla ormai nota passione del regista verso la fisica quantistica.
Uno dei primi e principali film in cui l’autore affronta tali argomenti è sicuramente Il signore del Male. In tale lungometraggio Carpenter ripropone molti degli stilemi che hanno caratterizzato la sua intera filmografia. L’inizio del film questa volta segna, da un punto di vista puramente rappresentativo e registico, il perfetto utilizzo del montaggio alternato: i titoli di testa sono intervallati da immagini che racchiudono immediatamente elementi significativi dell’opera.



Durante lo scorrere dei nomi degli attori principali, il regista, in pochissimi passaggi, riesce a farci capire l’interesse dello studente Brian Marsh (Jameson Parker) verso la collega Catherine (Lisa Blount), ma anche a farci percepire come la morte del sacerdote della chiesa di Saint Godard’s sia, in qualche modo, avvolta nel mistero, indugiando più volte sullo scrigno da lui tenuto in mano.
In questo caso risulta importantissimo l’utilizzo della colonna sonora e la sua variazione di motivi in base ai quali riusciamo sia a capire che qualcosa di oscuro si nasconde attorno al decesso del prete, sia a percepire l’attrazione e la curiosità di Brian nei confronti di Catherine. Ad altri registi sarebbero serviti più dialoghi e scene per mostrare tali elementi ma Carpenter, ancora una volta, comprime al minimo la loro rappresentazione, riuscendo a risultare estremamente esplicativo nonostante il tutto si svolga ancor prima della fine dei titoli di testa.

Analizzando queste tre sequenze si può comprendere molto dello stile con cui l’autore affronta il passaggio scenico tra lo script e lo sviluppo filmico della storia, caratterizzando il proprio cinema con un’efficacia descrittiva eccellente, senza per questo perdersi in vani e superflui eccessi che ne appesantirebbero la fruizione, ma, anzi, sublimando la propria arte in un compendio visivo di assoluta fattura, prediligendo la sottrazione all’addizione forzata di elementi inutili.


Andrea Ravasi

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