News
«Fair is foul, and foul is fair»: da Orson Welles a Joel Coen, i Macbeth del grande schermo

«Have we eaten on the insane root that takes the reason prisoner?»


She should have died hereafter. | There would have been a time for such a word– | Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow, | Creeps in this petty pace from day to day | To the last syllable of recorded time; | And all our yesterdays have lighted fools | The way to dusty death. Out, out, brief candle! | Life's but a walking shadow, a poor player | That struts and frets his hour upon the stage | And then is heard no more. It is a tale | Told by an idiot, full of sound and fury, | Signifying nothing

Sarebbe dovuta morire prima o poi. | Ci sarebbe dovuto essere un tempo per (usare) questa parola | domani, domani, domani, | si insinua a piccoli passi giorno per giorno | fino all'ultima sillaba del tempo prescritto; | e tutti i nostri ieri hanno rischiarato agli stupidi | la strada verso una morte polverosa. Consumati, consumati, corta candela! | La vita è un'ombra che cammina, un povero attore | che si agita e pavoneggia per un'ora sul palco | e poi non se ne sa più niente. È un racconto | narrato da un idiota, pieno di suoni e furore, | che significa niente


Cupa apologia sui pericoli derivanti dalla sete di Potere, ambigua analisi dei rapporti umani e del significato di Destino, rappresentazione avvolta da una malsana aura di maledettismo (tant'è che nell'ambiente teatrale anglo-sassone è considerata di malaugurio, la superstizione porta a non citarla esplicitamente ma a usare perifrasi come The Scottish Play): Macbeth, tra le più note tragedie di William Shakespeare, parla di errori, di orrori, di morte, insomma, dell'essere umano in ogni sua negativa potenzialità e tensione verso il Male. Forse per questo il cinema è sempre stato attirato, in modo quasi irresistibile, da un coacervo di pulsioni irreprimibili, nonostante la fosca consapevolezza di un Fato avverso pronto a giudicare e punire senza pietà, e ha usato più volte le parole del drammaturgo inglese trasformandole in immagini iconiche; regalando, di fatto, opere di rara potenza.


Dopo il deludente Macbeth di Justin Kurzel con Michael Fassbender, ora tocca a Joel Coen (per la prima volta dietro la macchina da presa senza il fratello Ethan) sviscerare l'anima di una tragedia apocalittica, entrata ormai nel tessuto dell'immaginario collettivo ma al tempo complessa, strutturata e non ancora totalmente decifrata: The Tragedy of Macbeth è disponibile su Apple TV+ dal 14 gennaio 2022.

Nel frattempo, tra parole, immagini e grandi autori, quali sono stati i più celebri Macbeth dello schermo?


Macbeth (1948) di Orson Welles


«Macbeth! Be bold, bloody, and resolute; laugh to scorn the power of man; for none of woman born shall harm Macbeth»
 

Girato in 21 giorni con un budget ridotto all'osso: ma le traversìe produttive diventano per Orson Welles stimolo creativo e ricerca di soluzioni formali tanto audaci quanto affascinanti. Così la scelta ricade su un abbondante uso dei piani-sequenza per restituire un senso di realtà e l'unità di tempo (e in parte anche di luogo) tipica della rappresentazione teatrale, sfruttando al contempo scenografie essenziali e una fotografia lugubre (dominata da nebbia e ombre) per dare alla narrazione una dimensione onirica e allucinata. Welles sceglie di non mostrare le scene di violenza e i vari omicidi di cui Macbeth si macchia nel corso della sua scalata al potere, ma ciononostante il senso di morte e di tragedia incombente sono resi attraverso una costruzione immaginifica di impetuosa potenza espressiva e una libertà stilistica sempre sorprendente.

Il trono di sangue (1957) di Akira Kurosawa


«Men are vain and death is long, And pride dies first within the grave, For hair and nails are growing still, When face and fame are gone, Nothing in this world will save, Or measure up man's actions here, Nor in the next - for there is none, This life must end in fear, Only evil may maintain, An afterlife for those who will, Who love this world - who have no son, To whom ambition calls, Even so - this false fame falls, Death will reign - man dies in vain»

 
Affascinato storicamente dal XVI secolo, che tornerà come fulcro centrale negli splendidi Kagemusha – L'ombra del guerriero (1980) e Ran (1985), Akira Kurosawa sceglie di mettere in scena Macbeth apportando alcuni sostanziali cambiamenti (meno dialoghi in favore dell'azione) per condensare lo sviluppo narrativo e inserendo al tempo riconoscibili stilemi della cultura nipponica. Il risultato è un incisivo apologo su un'epoca degenerata e sulla rovina morale dettata dalla sete di potere: il regista dilata e stigmatizza la tragedia di Washizu, contaminando il climax di degenerazione con la rarefazione tipica del teatro Nō (i personaggi, simili a statue di cera, in balìa di un fato incomprensibile e incontrollabile) ed enfatizzando l'inadeguatezza del protagonista, soverchiato da una consorte assai più ambigua e glaciale dell'originale.

Macbeth (1971) di Roman Polanski


«By the pricking of my thumbs, something wicked this way comes!»


Reduce dal successo di Rosemary's Baby e traumatizzato dalla morte della moglie Sharon Tate, assassinata per mano dei seguaci di Charles Manson mentre era incinta di quasi nove mesi, Roman Polanski rilegge in modo personale la più cupa delle tragedie di Shakespeare: estremizza la violenza con abbondanza di effetti da grand guignol (che al tempo fecero discutere), spinge sul pedale dell'onorismo visionario e macabro e, soprattutto, dà vita a un Macbeth (quasi) padrone del proprio destino e non semplice pedina in balia degli eventi. Solo la sua volontà, ispirata da un vaticinio, infatti, lo porterà a compiere i noti misfatti. Picchi visivi da manuale e ossessioni autoriali spinte all'estremo: il che, dati i notori fatti di cronaca, rende assai più concreto e disturbante il significato ultimo del film.


Macbeth (1982) di Béla Tarr

«Present fears | Are less than horrible imaginings»

 

Trasposizione del breve dramma in cinque atti di William Shakespeare, realizzato dal regista ungherese Béla Tarr per la TV del proprio paese e messo in onda nel 1982. Opera su commissione, Macbeth rivela comunque una certa aderenza per forza e radicalità ai codici formali dell'autore e alla sua idea di cinema da camera dai contorni onirici ed espressionisti che portava avanti all'epoca. Quasi una rivisitazione in chiave surreale dei melodrammi di Fassbinder, partendo però dal sostrato di base purissimo e moralmente limpido fornito dalla lezione bergmaniana. Per l'utilizzo espressivo e straniato del colore, ma anche per altri aspetti relativi al respiro della messa in scena, anticipa ciò che Tarr farà col successivo Almanacco d'autunno (1984), tentando di restituire la spietata visceralità e il pessimismo cupo delle pagine di Shakespeare esasperandone i tratti. Composto da due piani-sequenza: uno di 5 minuti in apertura (la prima e la terza scena del primo atto) e l'altro a seguire, che va a coprire il resto del dramma per un'ora circa di durata, orchestrata in maniera ovviamente millimetrica vista la complessità e la laboriosità della singola ripresa.


Maximal Interjector
Browser non supportato.