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Cinema e calcio: i 10 migliori film
Non sono pochi i registi che nel corso della storia hanno deciso di raccontare il calcio all'interno delle loro opere: chi raccontando storie di formazione, chi con un approccio documentaristico, chi utilizzando lo sport per parlare di periodi storici delicati e dolorosi. Naturalmente non mancano le biografie, e in proposito ci sono due film emblematici in tal senso: Zidane, un ritratto del XXI secolo - che con stile sperimentale ha seguito una delle leggende del calcio in ogni minuto che Zizou ha passato in campo il 23 aprile 2005 - e Best, capace di banalizzare e avvilire uno dei giocatori più interessanti della storia. La filmografia sul calcio ha regalato molti titoli, tanti non pienamente riusciti, e ne abbiamo scelti 10 per stilare una speciale classifica:

10) Eccezzziunale... veramente (Carlo Vanzina, 1982)



Carlo Vanzina si affida all'istrionico e apprezzato Abatantuono, mattatore unico che monopolizza la scena. La scelta è però controproducente: nonostante diverse trovate divertenti, l'attore milanese spesso esagera nel gigioneggiare affidandosi a ripetitive gag da tormentone. Rimane la commedia trash calcistica più conosciuta inseme a L'allenatore nel pallone (1984) di Sergio Martino.

9) Ultrà (Ricky Tognazzi, 1991)



Un lungometraggio che affronta il tema della violenza negli stadi, ma con un respiro sociale che si ferma spesso alla superficie del problema, accontentandosi di confermare quell'immagine (legata all'ignoranza e al degrado) che ci si aspetta di trovare. Un approfondimento più analitico e meno didascalico sarebbe stato apprezzabile, seppur ci sia anche qualche pregio da segnalare, grazie a un cast credibile, una messinscena realistica e un certo coraggio che Ricky Tognazzi, alla seconda prova dietro la macchina da presa, ha dimostrato nel trattare un argomento tutt'altro che semplice. 

8) Il campione (Leonardo D'Agostini, 2019)



Alternando momenti profondamente drammatici a sequenze più distensive e serene, il film scorre liscio senza evidenti intoppi, abusando eccessivamente di musiche di repertorio ma riuscendo a mantenere un buon ritmo nonostante l'assenza di originalità e di sorprese degne di questo nome. D'Agostini procede con il pilota automatico, facendo leva sulla buona alchimia tra i suoi due attori protagonisti e ingolosendo il pubblico con una cornice sportiva tutto sommato ben confezionata e riuscita. 

7) Diego Maradona (Asif Kapadia, 2019)



Asif Kapadia si cimenta con un altro documentario di repertorio, dedicato questa volta a Maradona e nella fattispecie alla sua celebre e indimenticabile parentesi napoletana, iniziata quasi per caso dopo l’abbandono dal Barcellona e tramutatasi in uno dei rapporti d’amore più mitici e viscerali tra un campione e una piazza sportiva. Ricorrendo come d’abitudine a molto materiale d’archivio, il regista assembla una narrazione generosa e ricca d’immagini, che restituisce appieno il dualismo tra Diego, il ragazzo fuoriuscito dalla periferia di Buenos Aires e divenuto una stella dotata di un talento senza precedenti, e Maradona, la maschera pubblica vittima di eccessi, derive autodistruttive, scarsa capacità di trovare un equilibrio e di gestire al meglio un talento di proporzioni immani e perfino divine.

6) Il maledetto United (Tom Hooper, 2009)



Basato sull'omonimo romanzo di David Peace pubblicato nel 2006 e a sua volta ispirato alla vicenda personale di Brian Clough, è un asfittico trattatello biografico-sportivo, godibile ma abbastanza irrilevante, ben recitato da Michael Sheen, che però non riesce a risollevare del tutto le sorti di un'operazione deboluccia e priva di grandi motivi d'interesse.

5) Maradona – El pibe de oro (Emir Kusturica, 2008)



Un prezioso mezzo non solo per entrare in contatto con uno dei personaggi più affascinanti, ben oltre il calcio, dell'ultimo scorcio di Novecento, ma anche per indagare il profondo solco scavato nell'immaginario dalla sua carriera e dalla mistica che la circonda (clamorose in tal senso le sequenze girate in Argentina durante i riti della Iglesia Maradoniana, ovvero la Chiesa di Maradona).

4) Fuga per la vittoria (John Huston, 1981)



Diretto da John Huston e liberamente ispirato alla “partita della morte”, tenutasi a Kiev nel 1942 tra calciatori ucraini e ufficiali tedeschi, Fuga per la vittoria rilegge la storia da una prospettiva immaginaria e prettamente sportiva. La sceneggiatura (di Evan Jones e Yabo Yablonsky) sfrutta furbescamente una spettacolarità elementare, che faccia presa sulle emozioni primarie dello spettatore (la celebre rovesciata dell'asso Pelé, mostrata da svariate prospettive per accrescere il pathos).

3) I primitivi (Nick Park, 2018)



Un mondo ingenuo e lontanissimo nel tempo, che si traduce in una preziosa occasione, per le menti ironiche e affilate degli autori Aardman, di mettere in campo – è proprio il caso di dirlo – una quantità come sempre notevole di situazioni naif e lampi comici spiccatamente inglesi (la caccia al coniglio), lontanissimi dal conformismo di tanti prodotti analoghi. Anche in questo caso le trovate al fulmicotone non mancano, fin dal prologo e dal susseguirsi immediatamente successivo di invenzioni legate all’immaginazione dell’uomo primordiale e ai suoi utensili, ma col passare dei minuti la vicenda si assesta su binari più tradizionali del solito, anche a causa di una sceneggiatura poco armonica nel gestire la presenza invasiva del gioco del calcio, che cannibalizza ben presto il discorso preistorico e si fa centrale. 

2) L'uomo in più (Paolo Sorrentino, 2001)



La giustapposizione delle due vicende è resa in maniera credibile, poco coesa risulta essere l'opera nel complesso, offrendo buoni spunti ma troppo dispersi. Comunque ottima la performance di Servillo che, da qui in poi, diventerà l'attore-feticcio per eccellenza dell'autore napoletano. Il personaggio di Toni Pisapia tornerà nel romanzo dello stesso Sorrentino Hanno tutti ragione del 2010 (dove si chiamerà Tony Pagoda), mentre la figura del calciatore è ispirata alla tragica vicenda di Agostino Di Bartolomei, ex campione della Roma morto suicida. 

1) Il mio amico Eric (Ken Loach, 2009)



L'Eric di Loach è divertente e incisivo, grazie all'agilità dello script del fidato Paul Laverty, all'interpretazione di Evets e soprattutto all'epifania con cui lo stesso Cantona si concede all'occhio dello spettatore in qualità di Virgilio, nume filosofico da seguire per ambire a un'esistenza migliore, libera dagli spettri di un passato ricco di errori. Attorno al rapporto tra i due (strutturato con forme e modalità da manuale), si staglia un universo di gangs, figliastri ed ex amori che fanno da moquette, o, per meglio dire, da spartiacque definitivo alla redenzione del protagonista.

Fuori dalla classifica, proprio perché il focus del film non riguarda il calcio in senso stretto, è impossibile non citare una delle sequenze più iconiche di Fantozzi: la partita tra Scapoli e Ammogliati

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