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I capolavori dal 2015 al 2020, tra Paul Thomas Anderson, Bong Joon-ho e la Disney Pixar
Tutta la magia del grande cinema racchiusa in un decalogo che è un autentico concentrato di emozione allo stato puro. Ecco la nostra classifica dei migliori film dal 2015 al 2020, in un viaggio alla scoperta dei dieci titoli che più ci hanno entusiasmato negli ultimi anni.

10) Soul (Pete Docter, 2020)



In maniera senza dubbio coerente e coraggiosa, la Pixar Animation prosegue a trattare uno dei temi più delicati per eccellenza, quello della morte, come aveva già fatto in Coco (2017) o nel quasi contemporaneo Onward – Oltre la magia (2020), riuscendo ancora una volta nell’impresa di proporre riflessioni complesse e per nulla scontate, capaci di offrire più strati di lettura tanto ai bambini quanto agli adulti. Un film ad alto tasso psicanalitico sul senso dell’esistenza, sul capire il valore delle cose realmente importanti e sulla facilità con cui si rischia di finire per essere una “anima perduta”. La filosofia di fondo, che arriva anche a ribaltare le basi innate che guardano a Platone per abbracciare l’importanza delle esperienze che guardano ad Aristotele, è paradossalmente tanto semplice quanto complessa, classica eppure modernissima, esattamente come la struttura drammaturgica del film stesso. Con fondali di stampo quasi sperimentale, linee cubiste e rimandi al disegno a mano di un tempo lontano, il risultato è un prodotto avanzatissimo da un punto di vista formale, che rispetta e guarda al passato dell’animazione per capire come creare davvero qualcosa di nuovo.

9) Paterson (Jim Jarmusch, 2016)



Da sempre interessato a indagare storie di vita anonime e marginali, Jim Jarmusch si conferma un regista in grado di trattare tematiche alte con uno stile (apparentemente) semplice. Essenziale e fin minimalista, Paterson è un “film zen”, in cui ogni inquadratura, ogni parola, ogni suono porta con sé un carico di significati di notevole spessore: se da un lato la pedante routine del protagonista (un Adam Driver perfettamente in parte) viene amplificata dalla riflessione numerologica presente in tutto il film, dall'altro la voglia di un riscatto e di un'azione fuori contesto costituiscono il vero cuore pulsante dell'opera così come della vita del protagonista. La poesia, diegeticamente parlando, ma l'arte più in generale, sembra essere la soluzione suggerita dall'autore per superare un simile ostacolo. E di arte, effettivamente, il film si nutre costantemente, tra richiami cinematografici (la presenza di nuovo insieme di Jared Gilman e Jara Hayward, protagonisti di Moonrise Kingdom di Wes Anderson), musicali (efficace il cameo di Method Man nella lavanderia) e letterari (da Dante a William Carlos Williams, passando per Petrarca). Un mantra messo in immagini, capace di attingere alla tavolozza dei registri per spostarsi repentinamente dal dramma alla commedia, dalla malinconia al divertimento più puro nei siparietti con protagonista il cane Marvin. Il film che avrebbe dovuto portarsi a casa la Palma d'oro al Festival di Cannes 2016, andata invece a Io, Daniel Blake di Ken Loach.

8) Mektoub, My Love: Canto Uno (Abdellatif Kechiche, 2017)



Dimostrando una invidiabile coerenza tematica e stilistica, Abdellatif Kechiche, a quattro anni da La vita di Adele, Palma d'oro a Cannes 2013, torna a esplorare un preciso quanto fugace momento di esistenza vissuta, portando l’amore per la vita e per il cinema nell’incantevole scenario della riviera francese baciata da sole. Tratto da un romanzo di François Bégaudeau (anche se la sensazione è che Kechiche abbia preso molta ispirazione anche dalla sua storia personale), Mektoub, My Love: Canto Uno è un fluviale racconto di emozioni autentiche e dettagli colti in una ordinaria quotidianità che ha i tratti del grande romanzo di formazione, costruito come una successione di maxi sequenze che passano in rassegna la spontaneità del sentimento amoroso, il piacere della convivialità più spensierata e la forza accentratrice dei rapporti umani. Straordinario lo studio sui corpi (femminili), simbolo di bellezza formosa e fertilità, ripresi con una grazia che non viene mai meno neanche nel lungo amplesso che apre il film. Il quadro impressionista offerto dal regista tunisino trova nell’assolato paesaggio costiero una tela di rara forza espressiva che spesso si tinge di malinconia, senza però mai suggerire l’ipotesi di una svolta brusca volta a una innaturale drammaticità. Un monumentale inno alla libertà e al puro godimento delle occasioni, più o meno mancate, che ci offre la vita. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.

7) Dunkirk (Christopher Nolan, 2017)



Il regista britannico Christopher Nolan porta sul grande schermo la cosiddetta Operazione Dynamo, una pagina non troppo nota ma fondamentale della Seconda guerra mondiale, strettamente connessa al patrimonio culturale e identitario del popolo inglese. Per la prima volta, l’autore della trilogia del cavaliere oscuro si cimenta con una storia vera e il risultato è stupefacente e maestoso: Dunkirk è infatti un war movie senza precedenti che riscrive il genere e i suoi codici espressivi in modo sorprendente; un concerto audiovisivo in cui l’epicità assordante della resistenza e della battaglia convive costantemente con una notevole attenzione alla commovente specificità di ogni essere umano. Il miracolo di Dunkirk, nelle mani di Nolan, cineasta da sempre ossessionato dal Tempo come massima unità di misura dell’esistente, diventa un’estrema corsa contro la morte e lo scorrere dei giorni. Una fuga sincopata scandita da tre elementi naturali fondamentali, ai quali si raccordano altrettanti scenari bellici, basati su scale temporali differenti, che fungono anche da sezioni narrative vere e proprie: la terra (le persone sulla spiaggia di Dunkirk), l’acqua (l’imbarcazione civile Moonstone) e l’aria (la cabina di pilotaggio di un aereo Spitfire) sono infatti il trittico attraverso il quale Nolan imbandisce un sensazionale montaggio scandito alla maniera di un metronomo, elettrizzante a tal punto, nella sua continua alternanza di piani e livelli, da veicolare un’immedesimazione senza precedenti. Eccellente fotografia di Hoyte Van Hoytema e ipnotica colonna sonora di Hans Zimmer, un ticchettio infinito che spinge sempre un po’ più in là le lancette del film (e della Storia).

6) Dolor y gloria (Pedro Almodóvar, 2019)



Con il personalissimo Dolor y gloria, Pedro Almodóvar firma un autoritratto spudorato e commovente, che fa il pieno di malinconia e di struggimento ma non dimentica di produrre un bilancio esistenziale di notevole sincerità espressiva sulla propria arte e sulla sua figura pubblica e privata. Per questo suo abbagliante , sceglie non a caso i due attori a lui più cari, Antonio Banderas e Penélope Cruz, per interpretare se stesso e sua madre, circondandosi di figure familiari (nel cast c’è anche Cecilia Roth) che costellano un film intimo e sfacciato, che si fa mappatura quasi “geografica” di tutto il cinema del cineasta iberico ed è, allo stesso tempo, un sensazionale corpo a corpo col (tanto) dolore e con la (poca) gloria della vita di un artista. Ma anche con la malattia che passa attraverso le passioni e la speranza, il passato e il presente, l’urgenza di tornare a raccontare e la necessità di sciogliere il rimpianto nell’azione e tornare al fare del set cinematografico un bisogno primario. Di grandissima suggestione anche la messa in scena, complessa e articolata senza mai diventare autoreferenziale. Un film crepuscolare, poetico e commovente, illuminato da bagliori di straordinaria poesia. Semplicemente da applausi Antonio Banderas, premiato come miglior attore a Cannes, nel ruolo che vale un'intera carriera.

5) Roma (Alfonso Cuarón, 2018)



Attraverso la parabola della giovane domestica Cleo (splendidamente interpretata da Yalitza Aparicio), Cuarón costruisce una metafora cinica e severa della sua terra natia, intrecciando costantemente il dramma familiare con quello di un'intera nazione attraverso inquadrature di rara bellezza cinematografica, in un folgorante bianco e nero, che sposano alla perfezione il ritmo e l'estetica di un progetto fortemente autoriale. Il Messico di Cuarón sembra destinato a un degrado di violenza e abusi dai quali sarà impossibile fuggire (come simboleggia la costante presenza di un volo di linea tanto desiderato quanto utopico da prendere) e dal quale persino le generazioni future non sembrano poter trovare giovamento (il simbolo di un Paese nato morto è piuttosto esplicito nella sequenza del parto). Roma si presenta quindi come un grido di emergenza tanto straziato quanto sordo, un'opera fortemente voluta (oltre che regista, Cuarón veste anche i panni dello sceneggiatore, montatore, produttore e direttore della fotografia) con la quale l'autore vuole provare a fare ordine all'interno della sua variegata carriera, per riscoprirsi e reinventarsi in panni ancora migliori. Leone d'oro a Venezia e tre Oscar (regia, fotografia e film straniero).

4) The Irishman (Martin Scorsese, 2019)



Il canto funebre di Scorsese nei confronti del gangster movie, genere che ha rappresentato una tappa importante della sua carriera, e non solo. Un estremo saluto a un tipo di cinema che non c’è più, accompagnato dai volti che l'hanno fatto grande. All'interno di un delicato, potente e commovente disegno d’insieme, Scorsese regala una profonda riflessione sulla vecchiaia, in una straordinaria parte conclusiva che rappresenta il senso definitivo dell’intera operazione. C’è però anche altro in questa grande saga epica sulla criminalità organizzata nell’America del dopoguerra: sono numerosi i riferimenti a momenti cardine della storia degli Stati Uniti del ventesimo secolo, tra i quali quello centrale è la morte di J.F. Kennedy. Prendendo spunto dall’omonimo romanzo di Charles Brandt, la sceneggiatura a orologeria di Steven Zaillian si concentra poi su uno dei grandi misteri irrisolti della storia americana, la scomparsa di Jimmy Hoffa, il cui eco mediatico nel film, tra passato e presente, è un altro degli elementi di spunto sulla fine di un’epoca di cui non si parla più. Descrivendo con cura i meccanismi interni della criminalità, le rivalità e le connessioni con la politica, Scorsese firma un grande film sull’America, pienamente nel suo stile, attraversato da una magnifica colonna sonora e da interpretazioni indimenticabili. Un film nostalgico e crepuscolare, che guarda al passato ma con un occhio rivolto al futuro: non solo per il marchio di Netflix e per le sue modalità di distribuzione, ma anche grazie all'utilizzo di tecnologie digitali che hanno ringiovanito gli attori. 209 minuti di splendore assoluto.

3) Parasite (Bong Joon-ho, 2019)



Il regista sudcoreano Bong Joon-Ho, dopo la parentesi al di sotto dei suoi consueti standard rappresentata da Okja (2017), ritrova il proprio attore feticcio Song Kang-ho e torna alla potenza del suo cinema migliore. Lo fa attraverso una scatenata e pirotecnica commedia, che parla dei nodi cruciali del presente e della crisi economica con uno sguardo a dir poco funambolico e incendiario, tanto nelle premesse del racconto quanto nei suoi folli e imprevedibili sviluppi, che mescolano satira fuori controllo e irresistibile bizzarria, slanci di commedia nera e riflessioni sulle fratture tra ranghi sociali, collocate plasticamente su piani differenti e destinate a una feroce e impietosa lotta di classe. Non mancano nemmeno riferimenti sarcastici alla psicologia e al valore terapeutico dell’arte, in linea con la forsennata ispirazione di un film che si regge magnificamente sulla potenza della propria allegoria. Uno dei film meglio girati degli ultimi dieci anni, raffinatissimo tanto nella scrittura quanto nella messa in scena. Osannato da pubblico e critica di tutto il mondo. Meritatissima Palma d'oro al Festival di Cannes e storico traguardo agli Oscar: miglior film (il primo nella storia dell'Academy andato a un lungometraggio in lingua non inglese), miglior film internazionale, miglior regia e miglior sceneggiatura originale.

2) Il filo nascosto (Paul Thomas Anderson, 2017)



Cinque anni dopo The Master (2012), Paul Thomas Anderson torna ancora agli anni Cinquanta e a un rapporto ossessivo tra due personaggi, in cui le dinamiche di figura forte e figura debole si vanno a interscambiare nel corso della narrazione. Reynolds Woodcock, uomo austero e severissimo ma anche capace di inattese fragilità infantili, è ancora succube del fantasma di una madre, le cui reliquie (una fotografia, una ciocca di capelli) porta sempre con sé: lui, che conosce alla perfezione la femminilità e i desideri di ogni donna, sembra poter fare a meno di una compagna nella vita, fino a quando non conosce Alma, modella, amante e addirittura “nuova madre” pronta a prendersi cura di lui e a scacciare gli spettri nascosti tra i fili degli abiti che Reynolds tesse quotidianamente. È infatti un film di fantasmi, Il filo nascosto, ma non sono soltanto quelli presenti a livello diegetico, ma anche quelli di una storia (del cinema) caratterizzata dal ricorso alla pellicola 35mm, capace di restituire atmosfere del tempo che fu e di ricordare film americani diretti da autori inglesi (molti i possibili rimandi a Rebecca – La prima moglie e Il sospetto di Alfred Hitchcock) o, allo stesso tempo, film inglesi di autori americani (Il servo e numerosi lavori successivi di Joseph Losey). Il californiano Paul Thomas Anderson ha firmato così il suo film più british, amalgamando la compostezza del cinema inglese con l’incisiva brutalità di Martin Scorsese (L’età dell’innocenza) e i caroselli visivi e giocosi di Max Ophüls (si veda la magnifica sequenza del Capodanno). Ma a svettare è comunque il tocco personalissimo di un autore (qui anche sceneggiatore e direttore della fotografia) che prosegue a scavare negli abissi dell’animo umano con una forza audiovisiva e drammaturgica impressionante, in grado di trattare tematiche complesse senza aver bisogno di alcun momento forzatamente intellettuale o di conversazioni che avrebbero gravato sulla godibilità dell’opera. Uno dei più grandi mélo di sempre. Incredibile performance di Daniel Day-Lewis, l'unico attore vivente che avrebbe potuto incarnare in maniera così straordinaria il tormentato, esigente e fanciullesco Woodcock.

1) Inside Out (Pete Docter, 2015)



Un caleidoscopio vorticante di colori, dove filosofia e psicanalisi, azione e sentimento, si mescolano miracolosamente, raggiungendo vette introspettive (ed è il caso di dirlo, visto che gran parte della pellicola è ambientata all'interno della mente umana) impensabili. Nella storia di Riley, undicenne alle prese con le prime avvisaglie della pre-adolescenza, c'è tutta la gioia intrisa di dolore della vita, meravigliosamente incarnata dalle simpaticissime allegorie delle emozioni umane, su cui spiccano l'infiammabile Rabbia e l'apatica Tristezza. Un vero e proprio trattato scientifico su quel meraviglioso mistero che è la mente, con incursioni geniali e visionarie all'interno dell'inconscio e del pensiero astratto (con un coltissimo rimando a Flatlandia) realizzato con una finezza estetica che non ha nulla da invidiare al più grande cinema d'autore. Ma non sono solo le emozioni e la loro inevitabile evoluzione a essere protagoniste del film, capolavoro assoluto della Disney Pixar: Inside Out è, infatti, uno straordinario omaggio alla forza dirompente del cinema (la sequenza della fabbrica dei sogni), unico mezzo artistico in grado di incarnare sullo schermo le evoluzioni della mente in tempo reale, proiettando visioni surreali, acrobazie inconsce e associazioni sinestetiche, in un tripudio vitale e animistico di sconvolgente bellezza. Tutto in questo film è reso alla perfezione: gli esilaranti intermezzi comici (con il parallelismo tra menti maschili e femminili orchestrato con schiacciante realismo), i passaggi avventurosi tra le isole della personalità, la nostalgia con cui vengono dipinti i ricordi, raffigurati come splendide perle dorate da custodire gelosamente, eppure per la maggior parte tragicamente destinati all'oblio. E il messaggio finale, che insegna come la Gioia non possa esistere senza la Tristezza, è di commovente, vibrante verità.
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