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"Non è un gioco. È tutto quello che ho": le nostre impressioni su "The Eddy" di Damien Chazelle

"We’ve all learned to hide what’s burning inside,
A yearning denied just gets stronger"


Anche Damien Chazelle si è fatto attirare dal piccolo schermo e ha realizzato per Netflix una serie che ripercorre le sue passioni, la sua poetica, tornando alle sue origini senza perdere la sua vena autoriale. Se si pensa alla filmografia di Chazelle, fatta eccezione per First Man – Il primo uomo, il fil rouge che ha unito le tre opere precedenti è la presenza musicale, per la precisione quella del jazz, così grande da divenire anch’esso personaggio, scandendo il ritmo delle vicende e delle immagini sullo schermo, condizionando anche il montaggio stesso.


La serie, della quale il regista ha diretto solo i primi due episodi ma che ha prodotto in toto, è lontana dalle atmosfere sognanti e magiche di La La Land e dal ritmo forsennato e crudo di Whiplash, tornando quasi al livello sperimentale di Guy and Madeline on a Park Bench, il suo lungometraggio d’esordio in bianco e nero, risalente al 2009.


The Eddy, comunque, parte dalla musica, da un night club di Parigi (The Eddy, appunto) dove si suona jazz, e dalle vicende dei personaggi che vi ruotano intorno.


È doveroso, quindi, iniziare parlando dell’aspetto musicale dell’opera, dallo splendido lavoro fatto da Glen Ballard e Randy Keber con la colonna sonora, vero punto di forza e protagonista dell’intera operazione. La scelta di Chazelle (e degli altri registi, poi) di limitare la presenza musicale alla sola diegesi, quindi di escludere (quasi) totalmente interventi melodici esterni a ciò che viene mostrato, è sicuramente affascinante e senza dubbio coerente con l’amore che il regista nutre nei confronti della musica. Ne nascono sequenze canore, ma anche rap, di beat-box, o solo strumentali, malinconiche o allegre, singole o in gruppo, sia in sala prove che con esibizioni dal vivo: è un sogno. Il sogno.
E il protagonista, Elliot (André Holland) lo dice chiaramente: "Non è un gioco. Non per me. È tutto quello che ho".
Si vede. Si sente, soprattutto.



È facile rendersi conto di una cosa: la differenza tra gli episodi diretti da Chazelle e i 6 successivi, dei quali si sono occupati Houda Benyamina, Laïla Marrakchi e Alan Poul. Innanzitutto a livello tecnico: il ritmo sincopato delle immagini riprese con camera a mano, con taglio quasi documentaristico, seguono un andamento irregolare che ben si sposa con lo stile jazz, passione del regista. Un aspetto intrigante, che tuttavia si va perdendo (soprattutto dal 4° episodio in poi), riportando l’opera in un regime più ordinario sul piano estetico, certamente poco aiutato dalla sceneggiatura di Jack Thorne, non sempre efficace o coinvolgente, soprattutto nel delineare situazioni drammatiche che oscillano spesso sull’orlo del cliché.


La linea crime della serie ha dei passaggi triti e ritriti – il protagonista che pensa di poter risolvere tutto senza parlare alla polizia, ferite del passato difficili da rimarginare, scontri con una criminalità che più vaga di così non si potrebbe – e fa sbuffare in più di un passaggio, se non la si prende come un semplice pretesto per parlare di ciò che conta davvero: l’universalità del linguaggio musicale.


"You’re a mess when you’re not playing music"


Ogni episodio pone il focus su un personaggio diverso, su una nota diversa della melodia, non tanto per permetterci di conoscere a fondo la psicologia di ognuno dei protagonisti ma per immergerci nel loro mondo per qualche minuto e dare corpo alle ragioni che li spingono a salire ogni sera sul palco e a suonare. E con un cast così misto e poliglotta, che comprende talenti da tutto il mondo - dagli USA alla Polonia (rappresentata dalla magnifica Joanna Kulig, già protagonista dello straziante Cold War), passando ovviamente dalla Francia, rappresentata in ogni sua sfumatura - i motivi per rifugiarsi nella musica sono diversi.



La macchina non è oliata alla perfezione, vengono introdotti fili narrativi che poi rimangono aperti, proprio come succede nel jazz: ognuno dei componenti dell’ensemble può avere un’idea - non per forza valida - “rubare” la scena per un po’ e poi tornare a mescolarsi con il flusso principale.


Simbolicamente si potrebbe pensare che questo sia frutto della poetica di Chazelle, che porta alla mescolanza di generi e stili cinematografici e visivi, prendendo spunto proprio dalla natura del genere musicale (per citare il Sebastian di Ryan Gosling in La La Land: “It's conflict and it's compromise, and it's just...it's new every time”).
Se così fosse, sarebbe un tentativo sicuramente interessante e apprezzabile, benché non riuscito fino in fondo.


The Eddy, infatti, è un buono specchio del jazz come genere, con tutti i suoi difetti e i suoi pregi: una musica che può annoiare e dividere, che può portare a distrarsi un momento per poi richiamare prepotentemente l’attenzione l’istante dopo grazie a un assolo di tromba. E così si muove questa serie, fra sequenze musicali notevoli e scene prettamente narrative di poco interesse, con un ritmo altalenante che, purtroppo, non sempre risulta sopportabile.


Lorenzo Bianchi - Francesca Sala

Maximal Interjector
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