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Mostra di Venezia: i 10 Leoni d'Oro più deludenti

Nel corso degli anni, non tutti i Leoni d'oro hanno ruggito con la stessa intensità. Gran parte dei film che hanno trionfato a Venezia sono opere di qualità eccelsa, ma in qualche edizione (soprattutto recente) della Mostra a ottenere il massimo riconoscimento non è stato il film migliore del concorso. 

Andiamo allora a scoprire dieci deludenti Leoni d'oro della storia della Mostra del Cinema di Venezia:

Giulietta e Romeo (Renato Casterllani, 1954)

Frutto di un lavoro complessivo di circa sei anni (tra preparazione, ricerca storica, riproduzione dei dettagli e scelta delle location), Giulietta e Romeo è una trasposizione abbastanza fedele della più celebre tragedia di William Shakespeare. Castellani lavora con lo scopo di ricreare un set il più preciso e accurato possibile, ma sarà proprio questa tendenza a distoglierlo da uno sguardo d'insieme che possa garantire un adattamento che non tradisca il testo di origine. È una pellicola carente sul piano dei contenuti e imperdonabilmente blanda a livello emotivo, a cui non giova lo spirito da produzione internazionale (che intendeva adornare il lavoro con la lingua inglese d'appartenenza). Interessante lo studio figurativo (Castellani si rivolge all'arte italiana del Quattrocento), ma ciò non basta a salvare le sorti di un'operazione meramente decorativa. Leone d'oro nell'anno in cui vennero presentati in concorso anche Senso (1954) di Luchino Visconti e La strada (1954) di Federico Fellini: un'autentica follia.

Vaghe stelle dell'Orsa (Luchino Visconti, 1965)

Opera “minore” di Luchino Visconti, Vaghe stelle dell'Orsa è uno studio di caratteri riuscito a metà, in cui l'ambizione di indagare le ossessioni dell'universo femminile e l'implosione degli equilibri familiari devono fare i conti con una sceneggiatura (firmata da Suso Cecchi D'Amico, Enrico Medioli e lo stesso Visconti) debole e poco incisiva. Se la ricostruzione degli interni è ineccepibile (fotografia di Armando Nannuzzi, scene di Mario Garbuglia), la tensione tra i personaggi, in un contesto di dissoluzione e perdita dell'innocenza come questo, appare troppo blanda. Lo sguardo del regista, rigoroso ma meno partecipe del solito, tende a un quadro in cui l'incastro delle psicologie sfocia nella maniera. Superba Claudia Cardinale (doppiata con la sua voce), all'apice della sua splendida bellezza. Il titolo riprende l'incipit del Canto di Giacomo Leopardi Le ricordanze. Una sorta di "risarcimento" per il mancato Leone d'oro a Senso (1954), ma in concorso c'era Il bandito delle 11 di Godard...

Urga – Territorio d'amore (Nikita Mikhalkov, 1991)

Il pastore Gombo vive con la sua famiglia in mezzo alla steppa della Mongolia. L'incontro con un camionista russo rimasto in panne potrebbe cambiare temporaneamente la sua semplice esistenza. Nikita Mikhalkov racconta l'incontro tra due culture diverse, in cui l'inospitale paesaggio mongolo è ben più di un semplice sfondo su cui si snocciola la vicenda.  Il regista mette bene a punto le basi per una pellicola curiosa e originale, ma col passare dei minuti finisce per perdersi in un copione grossolano e retorico, dove alcune sequenze (il finale, compreso) risultano persino di cattivo gusto. È il buonismo d'accatto a farla da padrone, mentre gli spunti degni di nota (tutti nelle prime battute) si dimenticano molto presto. Generoso, eufemisticamente parlando, Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia, nell'anno in cui c'erano in concorso Edoardo II di Derek Jarman, Lanterne rosse di Zhang Yimou, La leggenda del re pescatore di Terry Gilliam e L'ultima tempesta di Peter Greenaway. Presidente di giuria era il critico Gian Luigi Rondi.

Prima della pioggia (Milcho Manchevski, 1994)

Trittico a struttura circolare e con numerosi rimandi interni che riflette sull'orrore e l'idiozia umana che genera violenza e fomenta odio destinati a confluire in una guerra fratricida. L'inutilità della guerra, le strumentalizzazioni religiose, il fanatismo fondamentalista e il disprezzo etnico vengono illustrati in una narrazione episodica e di ampio respiro che, pur guardando al particolare (la guerra nei Balcani), punta all'universale. Lo stile frenetico, la costruzione visiva affascinante (decisamente sorprendente, trattandosi di un'opera prima) e il tono appassionato e partecipe del racconto riscattano in parte un prodotto che, malgrado le lodevoli intenzioni, appare fin troppo costruito e schematico, prevedibile nei suoi sviluppi e meno incisivo di quanto non vorrebbe apparire. Compiaciuto e a tratti estetizzante in maniera eccessiva, il film di Manchevski è sicuramente ambizioso ma irrisolto e la partecipazione emotiva dello spettatore pare derivare quasi esclusivamente dall'importanza del tema trattato più che dal mondo in cui esso viene declinato. Leone d'oro ex-aequo con Vive l'amour di Tsai Ming-liang.

Michael Collins (Neil Jordan, 1996)

Solida – e invero fantasiosa – ricostruzione biografica di una delle figure storiche più importanti della storia dell'autonomia irlandese e della relativa guerra d'indipendenza (1919-1921), diretta con piglio deciso (e senza particolari guizzi) da un Neil Jordan che, per evidenti ragioni anagrafiche (è nato a Sligo), è molto vicino a una storia di patriottismo tra le più intense e dolorose del vecchio continente. Un tradizionale film storico vecchio-stile senza lacune evidenti, che non riesce a superare la dimensione del compitino onesto e ben fatto. Strepitoso Liam Neeson, meritatamente premiato con la Coppa Volpi a Venezia. Leone d'oro in una edizione della Mostra non certo memorabile.

Monsoon Wedding – Matrimonio indiano (Mira Nair, 2001)


L'arrivo delle violente piogge monsoniche risveglia gli animi e i sentimenti della famiglia protagonista di quest'affresco generazionale composto da un affiatato cast corale. Il genere è quello della commedia hollywoodiana con dei richiami a Bollywood, gioiosa e con qualche picco drammatico, affollata dalle molteplici individualità dei protagonisti che appartengono a due mondi distinti, il vecchio e il nuovo a confronto. Mira Nair dimostra ancora una volta di voler esplorare gli usi e i costumi della sua terra, in un film allegro e colorato, di piacevole intrattenimento, in cui le vicende narrate non si distinguono comunque per originalità, né i personaggi per un particolare approfondimento: il risultato, in fondo, è convenzionale ed estremamente furbetto. Uno dei Leoni d'oro più assurdi di tutta la storia della Mostra.

Lussuria – Seduzione e tradimento (Ang Lee, 2007)



A due anni dalla tormentata omosessualità raccontata nel bellissimo I segreti di Brokeback Mountain (2005), premiato con il Leone d'oro, il regista taiwanese torna con un nuovo film “scandalo”, dal contenuto però più convenzionale. Al posto del Wyoming anni Sessanta, c'è l'Oriente, a ribadire la versatilità dell'autore nel muoversi su entrambe le sponde dell'oceano, e una controversa pagina della Storia cinese. In un affresco di ampio respiro, sfarzoso e accuratissimo nei dettagli (la fonte è l'omonimo romanzo di Eileen Chang), Lee instilla un racconto di iniziazione sessuale ad alto tasso di erotismo, dove gli amplessi non sono solo funzionali alla storia ma il punto focale di un ritratto delle passioni umane. Il perfezionismo formale deraglia però spesso nel manierismo, rischiando talvolta di gelare persino il fuoco del desiderio che pure sta alla base del film. Il risultato è un mélo abbastanza ordinario, dalla durata decisamente eccessiva. Se l'Osella per il miglior contributo tecnico alla fotografia di Rodrigo Prieto è inappuntabile, il Leone d'oro (il secondo consecutivo per Lee) appare un riconoscimento ben poco meritato, considerando anche la presenza in concorso di Redacted di Brian De Palma, L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik, Nightwatching di Peter Greenaway, Cous Cous di Abdellatif Kechiche e, soprattutto, Io non sono qui di Todd Haynes.

Sacro GRA (Gianfranco Rosi, 2013)



Storie di varia umanità che gravitano intorno al Grande Raccordo Anulare di Roma. Da un botanico impegnato in una disinfestazione a un ex principe che vive in un sontuoso palazzo; da un pescatore di anguille a un anziano nobile stanziato nel monolocale della figlia. Gianfranco Rosi tenta di restituire la sacralità di un non luogo quale il Raccordo Anulare romano attraverso un mosaico di vite improbabili e nascoste, che alimentano lo sfondo del silenzio e della penombra; l'approccio stilistico, che prova a (ri)dare vitalità al genere con una cura più cinematografica e meno spontanea, è apprezzabile, ma emerge come ostacolo alle ambizioni di base. Nessuna spontanea ripresa del reale, solo una messa in scena eccessivamente calcolata, con Rosi che risulta osservatore furbetto nel ricercare episodi e affermazioni sensazionalistiche o riprovevoli. Un documentario a tratti profondo, ma troppo studiato a tavolino. Insensato Leone d'oro a Venezia, assegnato dalla giuria presieduta da Bernardo Bertolucci, nell'anno in cui avrebbe dovuto stravincerlo Stray Dogs di Tsai Ming-liang.

Ti guardo (Lorenzo Vigas, 2015)



Interessante ma didascalica opera prima del regista venezuelano Lorenzo Vigas, che ha scritto il soggetto insieme al più noto Guillermo Arriaga, Ti guardo è un dramma di indubbio impatto narrativo, capace di trascinare lo spettatore in un mondo di degrado e povertà con uno stile austero e trattenuto. Tutto ruota attorno al denaro, vero motore di un'umanità abbrutita dalle difficoltà economiche e disposta a tutto pur di sbarcare il lunario nel Venezuela contemporaneo, tramortito da un tracollo finanziario non indifferente. Bravo Alfredo Castro (attore feticcio del regista cileno Pablo Larrain), qui nei panni di un cinico voyeur difficile da interpretare e alle prese con sentimenti e pulsioni tanto scomode quanto respingenti. Dopo una prima parte efficace, il film si perde ripiegandosi su se stesso. Un Leone d'oro che ha fatto molto discutere.

La forma dell'acqua – The Shape of Water (Guillermo del Toro, 2017)



Dimostrando la consueta passione e competenza nei confronti della storia del cinema, Guillermo del Toro alterna omaggi al musical e all’horror, costruendo una sorta di ipotetico seguito de Il mostro della laguna nera (1954), cult di Jack Arnold. Il periodo di ambientazione è quello della Guerra Fredda, i tempi sono quelli dello scontro per il predominio spaziale tra Unione Sovietica e Stati Uniti, ma il contesto storico-politico (seppur citato costantemente) lascia soprattutto spazio a una tenera storia d’amore tra una ragazza muta con un lavoro umile e un “mostro” che si dimostra più umano di (quasi) tutti gli uomini presenti all’interno della narrazione. Un antidoto al cinismo del mondo contemporaneo, fin troppo prevedibile nella sua struttura drammaturgica piuttosto convenzionale. In ogni caso, emozionante. Leone d'oro a dir poco regalato, nell'anno in cui in concorso c'erano Mektoub, My Love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche e First Reformed di Paul Schrader.

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