News
Rebecca – L'incubo del ricordo secondo Alfred Hitchcock
La macchina da presa, sospesa a mezz'aria, fluttua nei nebbiosi e sinistri viali di un grande giardino abbandonato. Subito dopo, tra la selva infestante, appare agli occhi dello spettatore una fatiscente dimora che si staglia nella penombra, irreale e artefatta, flebilmente illuminata dal chiaro di luna. Una ipnotica voice over femminile descrive minuziosamente l'atmosfera, il sogno si materializza, suggestivo
e misterioso. È il prologo di Rebecca, è l'inizio di un capolavoro senza tempo.

«La scorsa notte, ho sognato di essere tornata a Manderlay. Mi sembrva di essere ferma davanti al cancello che chiude il viale, e di non poter entrare da non so quanto tempo, perché il passaggio mi era stato sbarrato. Poi, come accade a chi sogna, a un tratto mi sentii in possesso di poteri soprannaturali, e attraversai come un fantasma le sbarre che mi erano davanti...»


Spartiacque di importanza capitale nella carriera di sir Alfred Hitchcock, Rebecca (1940) è il primo film americano del maestro londinese, approdato a Hollywood dopo aver rodato il suo talento cristallino in patria, fin dalla metà degli anni Venti. L'incontro con il produttore David O. Selznick, nome storico legato alle major RKO, Paramount e MGM, fresco del successo di Via col vento (1939), permette a Hitchcock di avere un ingente budget a disposizione e getta le basi per la creazione di un'opera che si configurerà fin da subito come un riferimento assoluto nella storia del cinema, osannata da critica e pubblico, vincitrice, tra l'altro, di due premi Oscar (Miglior film e Miglior fotografia). A contributi tecnici di prim'ordine, si affianca lo sbalorditivo talento di Hitchcock, che dà qui sfoggio di una padronanza nella messa in scena inusitata per l'epoca, la cui ricchezza figurativa influenzerà, ad esempio, il lavoro di Orson Welles, il quale esordirà alla regia l'anno successivo, a soli ventisei anni, con Quarto potere (1941).



Trasponendo sullo schermo l'omonimo romanzo del 1938 di Daphne du Maurier, Alfred Hitchcock, il quale si è basato sulla pagina scritta dell'autrice inglese anche per La taverna della Giamaica (1939) e Gli uccelli (1963), ha fatto propri i codici della letteratura di genere per dare vita a una pellicola diventata, essa stessa, un modello archetipico a cui guardare ancora oggi per capire e studiare le potenzialità espressive del cinema. Esemplare nella gestione della suspense, il film è uno straordinario saggio sull'artificio cinematografico tout court: si apre con un sogno che scivola nel ricordo, in una sorta di mise en abyme nella mente di Joan Fontaine, protagonista senza nome della quale lo spettatore condivide totalmente il punto di vista, provando una vertiginosa identificazione dal primo all'ultimo minuto. La sua storia d'amore con Laurence Olivier, segnata dall'ombra lunga dello spettro della defunta moglie dell'uomo, Rebecca, prende vita in un contesto fiabesco per poi sprofondare nella dimensione dell'incubo. E la presenza della morte, che aleggia già nell'idilliaco contesto monegasco del primo atto, palesandosi in cima a una scogliera a picco sul mare in burrasca, rimane costante in tutto al film, affiancata al senso di colpa che grava sul castello di Manderlay. Elemento centrale attorno a cui ruotano tutte le suggestioni narrative, Manderlay è un incendiario luogo metafisico che sembra nascere direttamente dall'inconscio, in perfetta sintonia con lo spiccato sottotesto psicanalitico che permea l'intera opera. Uno spazio dell'anima chiuso, claustrofobico, opprimente, i cui sovrabbondanti arredi e orpelli, di strenua eleganza, proprio come si dice fosse Rebecca, schiacciano la nuova sposa che vi abita. Ogni dettaglio è simbolo di un asfissiante confronto con il passato, i pesanti tendaggi schermano la dimora dall'ambiente esterno, le pareti sembrano alzarsi sempre più, gli oggetti proiettano ombre grevi in ogni direzione. Anche solo una finissima porcellana in frantumi può essere il segno di una rottura degli equilibri nei rapporti tra i personaggi, giunti a un destabilizzante punto di non ritorno.

Tra soggettive da antologia e sinuosi movimenti di macchina, Hitchcock, senza ricorrere però al suo proverbiale sense of humor, costruisce un congegno perfetto che si prende gioco della razionalità dello spettatore. Tutto è subordinato all'illusione, alla menzogna e all'inganno. Joan Fontaine, al centro di una favola gotica che è la variante moderna di Cerentola, compie un progressivo percorso interiore, confrontandosi con le problermatiche legate all'affermazione di sé in un contesto ostile. Ma, vittima di un costante ribaltamento della verità, deve farsi strada in un intreccio costellato di false apparenze che non sono mai un pretesto per manipolare lo spettatore, ma diventano il cuore pulsante dell'intero racconto. L'elemento soprannaturale è sempre legato a doppia mandata a una realtà tangibile (fatta di persone fisiche, luoghi e oggetti concreti) che però sembra essa stessa frutto dell'immaginazione, sulla base di una alchimia di generi che va dal mystery al mélo, fino a raggiungere il confine con l'horror.



«Ma può restare sano di mente chi è vissuto con il diavolo?». Quello di Hitchcock è, soprattutto, un magistrale studio di donna e delle pulsioni femminili. Joan Fontaine, la cui innocente giovinezza sembra cristallizzata come in un magico incanto, deve affrontare la sinistra presenza della signora Danvers, autentico personaggio-simbolo del film. Domestica personale della defunta Rebecca, indissolubilmente legata alla memoria del passato, la signora Danvers è una figura luciferina a cui Hitchcock concede gloria cinematografica eterna nello spettacolare finale. Ma la donna più presente nel film è Rebecca, colei che non si materializza mai ai nostri occhi e che vive solo nella nostra mente, esattamente come accade a Joan Fontaine. La sua presenza è ovunque. È lei la protagonista. Un frutto dell'immaginazione dai connotati mutevoli, un fantasma d'amore maledetto, una donna che visse due volte al di là della realtà tangibile. Hitchcock gioca con l'effimero e l'assenza, sfrutta tutte le potenzialità del mezzo cinematografico per andare oltre al romanzo di partenza, costruisce mondi sospesi nel tempo entro cui perdersi. 

Consapevoli di essere di fronte alla sublimazione dell'essenza stessa del cinema, ci abbandoniamo alla finzione hitchcockiana, nell'illusione di essere stati anche noi, almeno una volta, tra le mura del castello di Manderlay.

Davide Dubinelli

Categorie

Maximal Interjector
Browser non supportato.