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Steven Spielberg, gli alieni e il potere catartico della fantasia

«Have you recently had a close encounter?»




Steven Spielberg e gli alieni: un binomio ormai cult anche se, di fatto, il regista ha diretto solo due film direttamente incentrati sul tema (tre comprendendo La guerra dei mondi, simbolo scoperto, tuttavia, di una realtà frantumata dall'attacco terroristico dell'11 settembre 2001, e quindi poco rapportabile alla concezione autoriale sulla fantascienza). Solo due film, dicevamo; ma due film epocali, che hanno segnato per sempre la memoria collettiva attuando una rivoluzione in campo cinematografico.








«Volevo che Incontri ravvicinati del terzo tipo fosse una storia molto semplice, vissuta da una persona qualunque, che doveva essere testimone di un evento straordinario, un'esperienza sconvolgente e ossessionante, di quelle che cambiano completamente la vita». Dopo il successo de Lo squalo Spielberg ha campo libero e rifiuta alcuni progetti importanti (tra cui Superman) per dedicarsi a un sogno a lungo coltivato: la realizzazione di un lungometraggio fantascientifico ispirato a una pioggia di meteoriti avvenuta nel New Jersey quando era bambino. L'approccio è tutt'altro che scientifico e pragmatico (nonostante i contributi tecnici necessari e anzi indispensabili alla pignoleria spielberghiana), influenzato, nel suo divenire in fase di scrittura, dalla canzone When You Wish upon a Star dal film Pinocchio: Close Encounters of the Third Kind (che vede la partecipazione di François Truffaut nel ruolo del ricercatore francese Claude Lacombe) è una fiaba che esalta il potere della fantasia e dell'innocenza a fronte dell'intellettualismo sfrenato ormai dominante. Musica vs. linguaggio (gli alieni comunicano attraverso segni non verbali), istinto vs. raziocinio, candore vs. doppiezza ipocrita: non a caso i protagonisti, gli unici ad avere un canale privilegiato di comunicazione con l'altro, il diverso, sono un bambino e un adulto mai cresciuto che gioca con il fango e il puré. Spielberg dirige il suo manifesto, stravolgendo i canoni imposti del genere (l'essere proveniente da altri mondi deciso sempre e comunque a distruggere e conquistare) e regalando al mondo una toccante e straordinaria sinfonia visiva, destinata a fare scuola.








Passano cinque anni: dopo le esperienze di 1941 – Allarme a Hollywood e I predatori dell'arca perduta Spielberg torna agli abitanti provenienti da altri mondi, dirigendo un gioiello che avrà gloria eterna. Una storia che viene da lontano, dall'infanzia del regista, provato dal divorzio dei genitori e creatore di un amico immaginario con le fattezze di un alieno: un alieno buono e puro, ancora una volta, non invasore ma invaso dalla becerità degli umani adulti in un mondo dominato da troppo cervello e da poco cuore. Un cuore che solo i bambini possono mantenere innocente e, in questo modo, cambiare il mondo. E.T. – L'extra-terrestre, celebrazione dell'amicizia e del potere dell'immaginazione dedicata ai bambini di ogni età, si guadagna un posto centrale nell'immaginario di molte generazioni di giovani spettatori.








Spielberg traspone su grande schermo i temi per lui fondamentali: la disgregazione del nucleo famigliare, la solitudine del diverso, la purezza infantile prtatrice di luce, la fantasia come elemento primario per tollerare le brutture del quotidiano («Io sogno per vivere»). Un bambino (reale) e il suo amico alieno (fantastico), indissolubilmente uniti: se muore uno, muore anche l'altro (la splendida sequenza in cui Elliot/Henry Thomas viene diviso da E.T. che rischia la vita e la seguente resurrezione, uno dei momenti più toccanti e memorabili del film). A svettare prepotente è proprio il piccolo extra-terrestre («Spielberg mi ha detto che voleva una cosa brutta ma innocente. Beh, per farlo brutto bastava mettere molte grinze sul volto. Farlo innocente era più difficile, perché poteva sembrare stupido. Poi un giorno ho guardato il mio gattino aleano, e nei suoi occhi ho visto proprio quell’innocenza che cercavo. Beh, se tagliate le orecchie a un gatto aleano e spostate un po’ più su il naso vedrete molto di quella che è l'immagine di E.T.», parola di Carlo Rambaldi), simbolo di quella rivoluzione spielberghiana che, a livello di genere fantascientifico, decretò il primato assoluto dell'"alieno buono", condannando alla completa débâcle La cosa carpenteriana).








Meno compatto rispetto all'antecedente Incontri ravvicinati del terzo tipo, a tratti forse tendente alla melassa: francamente, in ogni caso, poco importa. Perché, al di là del successo planetario e delle frasi entrate nel linguaggio comune («E.T. Telefono... casa») che ne testimoniano l'importanza artistica, E.T. – L'extra-terrestre è e rimane la prova tangibile di un sogno: un sogno fatto di voli di biciclette e di lune gigantesche alla Méliès che risvegliano e risveglieranno ogni volta il bambino dentro di noi.
«Io sarò sempre qui».

Sara Barbieri

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