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Vestito per uccidere: il sensuale "abito dell'erotismo" di Brian De Palma, tra Hitchcock e la New Hollywood
Usciva oggi negli Stati Uniti, esattamente 40 anni fa, Vestito per uccidere, uno dei tanti cult che l’estro di Brian De Palma ci ha regalato nel corso della sua carriera. La pellicola si colloca, insieme a Blow Out (1981) e Omicidio a luci rosse (1984), in un’ideale trilogia volta a omaggiare uno dei maestri e punti di riferimento del regista statunitense: Sir Alfred Hitchcock. De Palma, sapientemente, amalgama gli archetipi hitchcockiani con quell’ondata rivoluzionaria con cui la New Hollywood travolse tutto l’establishment cinematografico. Il regista di Newark riesce così a restituirci delle pellicole che giocano con il genere thriller arricchendolo di omaggi citazionistici e al contempo inquinandone la purezza originale: tutto diventa più “sporco” e l’erotismo le permea da cima a fondo, donando ai film la brutalità e schiettezza tipiche di quegli anni.



Impossibile non cogliere i riferimenti a Psyco (1960), richiamato fin dalla primissima scena della doccia, durante la visione di Vestito per uccidere. De Palma attinge a piene mani dal capolavoro di Hitchcock confezionando un thriller in grado di rievocare gli alti livelli di suspense del film omaggiato: l’improvvisa morte di Kate Miller (Angie Dickinson), fino a quel momento la protagonista del film, riesce a coglierci di sorpresa proprio come quella di Marion Crane (Janet Leigh). Il parallelismo che salta maggiormente all’occhio è sicuramente la caratterizzazione della psiche dei due killer, Robert Elliot (Michael Caine) e Norman Bates (Anthony Perkins): entrambi gli assassini vivono un conflitto interiore, con due identità in perenne lotta per prendere l'una il sopravvento sull’altra.



La crisi d’identità su cui ruota Vestito per uccidere è già manifesta nella prima scena: Kate osserva l’amante attraverso il vetro appannato della doccia, nel momento in cui l’eccitazione della donna sta per raggiungere il culmine un secondo uomo la ghermisce alle spalle, trasformando il piacere in supplizio. La somiglianza che ricorre fra i due uomini della prima scena, come la somiglianza fra l’amante e il marito di Kate, sono i sapienti indizi tramite i quali De Palma ci sta suggerendo il tema cardine del film: il dualismo. Aggiungiamo anche che, sempre nella scena d’apertura, è la figura femminile a venire oppressa da quella maschile: dinamica che tornerà in relazione allo sdoppiamento di personalità del killer quando la parte maschile di Elliot cercherà di reprimere la sua controparte femminile, impedendole di cambiare sesso.



Il tema del doppio viene reso simbolicamente attraverso la continua presenza in scena di specchi, elemento in grado di richiamare la frammentarietà di un’identità scissa in più parti: Elliot osserva il suo riflesso in più di un’occasione in risposta a determinate affermazioni delle sue pazienti. Un’altra scelta (stilistica questa volta) che muove efficacemente in questo senso è l’utilizzo dello split screen. Interessante notare anche come il regista scelga di utilizzare una scalinata circolare (scelta che rimanda a La donna che visse due volte) all’interno della clinica psichiatrica, scelta che ovviamente rimanda alla spirale della follia.

De Palma assembla così un thriller estremamente magnetico, in grado di vestire elegantemente il sensuale abito dell’erotismo. A noi spettatori non resta che osservare, voyeur paralizzati nell’atto di seguire la lenta discesa della lama verso la nostra gola.



Simone Manciulli
Maximal Interjector
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