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"Watchmen", Lindelof e Moore: un'ammirazione quasi religiosa

I'm Mr. Blue 
When you say you love me
Then prove it by goin' out on the sly
Provin' your love isn't true
Call me Mr. Blue

Il momento è arrivato: Watchmen, serie HBO creata da Damon Lindelof e ispirata all'omonima graphic novel di Alan Moore e Dave Gibbons, è arrivata alla sua conclusione. Un debutto avvenuto su Sky Atlantic il 21 ottobre e minato in parte dalla disapprovazione (ormai usuale) di Moore, ben poco propenso a tollerare adattamenti dalle proprie opere. Problema accentuato dall'aura di culto di cui gode la miniserie in dodici numeri, pubblicata tra il 1986 e il 1987 dalla DC Comics ed entrata di prepotenza nell'immaginario collettivo grazie al superamento del concetto "semplicistico" di Supereroe: non più un essere privo di punti deboli, bensì tratteggiato in tutte le sue meschinità e debolezze.
Una rivoluzione in piena regola.

Lindelof, dal canto suo, forte dell'appoggio di Gibbons (che si è detto entusiasta del risultato), ha definito a più riprese Moore "un genio", non risparmiando comunque alcuni affondi poco diplomatici: "Credo che chi abbia detto a Moore di non fare una cosa si sia sentito rispondere fottiti, lo faccio ugualmente. Quindi io lo dico a Moore. Fottiti, lo sto facendo ugualmente".

E Lindelof è stato di parola, affrontando di petto l'oggetto sacro senza profanarlo e spostando il focus temporale dagli anni Ottanta al 2019; un 2019 molto diverso da quello reale, dominato da una tolleranza tutta di facciata per ciò che riguarda la questione razziale (nodo cruciale, almeno nei primi episodi e nell'incipit dedicato al massacro di Tulsa del 1921) e popolato da poliziotti che operano a volto mascherato come vigilanti per salvaguardare la propria sicurezza. Tra loro Angela Abar (interpretata da Regina King), afroamericana gravata da un oscuro passato, e Wade Tillman detto Specchio (Tim Blake Nelson), traumatizzato dall'esplosione psichica che colpì New York nel 1985. Uno sterminio consapevole, come ben sanno gli appassionati, attuato da Adrian Veidt alias Ozymandias (Jeremy Irons): il suo personaggio, insieme a quelli di Laurie Blake (Jean Smart), nata Juspeczyk/Spettro di Seta II e ora agente FBI, e del Dottor Manhattan, rappresenta il legame con l'opera originale, nonché con il film del 2009 diretto da Zack Snyder.

Dal passato al presente, con la differenza sostanziale che il conflitto esterno tra superpotenze (USA e URSS) diventa conflitto interno basato sull'intolleranza e sulle rinnovate pretese di "supremazia bianca" (come dice uno dei personaggi nel terzo episodio: "I russi non sono un mio problema. La Settima Cavalleria invece sì. In questo momento, la guerra è qui").

Ma è soprattutto il concetto di Divino a diventare preponderante nel corso della storia, con titoli rivelatori (Un Dio entra in un bar, traduzione del ben più calzante A God walks into Abar) e continui riferimenti alla Bibbia (Genesi e creazione di un Eden modellato dal Dottor Manhattan). Ed ecco emergere il vero protagonista della serie, quel Jon Osterman trasformato in essere onnipotente da un incidente di laboratorio, contrapposto (ancora una volta) a colui che vorrebbe essere un Dio ma mai lo diventa realmente, ovvero Ozymandias, ancorato al proprio ego, bisognoso di venerazione come un Dio pagano e destinato, sempre e comunque, a frustrazione e fallimento.

Che cos'è la serie Watchmen? Un omaggio, certo, sentito e rispettoso ("un'ammirazione quasi religiosa", come recita il titolo dell'episodio 7), capace al tempo di evolversi nell'affermazione di tematiche attuali e nella rilettura di personaggi colmi di sfaccettature; un prodotto visivamente e tecnicamente impressionante; una narrazione coerente e stimolante; una magnifica storia d'amore.

Le critiche sono state quasi unanimi nel celebrare l'operato di Lindelof, con l'eccezione dell'episodio conclusivo, considerato da alcuni banale e sbrigativo. Questione di punti di vista, e soprattutto di prospettiva, che dipende dalla realizzazione o meno di una seconda stagione.

Nothing ever ends.

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