«Conflitti, violenze, odio: quanta responsabilità hanno i registi per ciò che sta accadendo oggi nel mondo? Distruggono il faticoso equilibrio raggiunto dall'umanità, rendendo l'uomo profondamente aggressivo e creando danni inimmaginabili»
Un cinema che ha i tratti del rito, quello di Aleksandr Sokurov, che non scende a compromessi. Tra gli autori più talentuosi, rigorosi, ostici e visionari del panorama cinematografico internazionale, Sokurov inizia la sua carriera come documentarista televisivo ed entra in contatto con Andrej Tarkovskij, che diventa suo grande amico. La via è tracciata: dopo una serie di opere che incontrano enormi difficoltà a causa delle restrizioni del regime sovietico, gira Madre e figlio, che gli regala il successo internazionale. Oggi Alexandr Sokurov compie 70 anni: un omaggio con la Top 10 dei suoi migliori film!
10) Elegia di un viaggio (2001)

Da un piccolo villaggio della Russia più remota, un personaggio senza nome attraversa strade, città e confini prima di approdare in un palazzo dove sono custoditi alcuni grandi capolavori della pittura europea. Il nucleo di ispirazione originario di questa pellicola del russo Sokurov, secondo quanto affermato dallo stesso regista, è da individuare nella lunga ripresa in movimento di una strada contenuta nella seconda parte di Maria – Elegia contadina (1988). Da quella stessa strada nei pressi del villaggio di Valday, tra Mosca e San Pietroburgo, riparte quindici anni dopo l'immaginifico viaggio contenuto in questo film. Tappe successive di un cammino di avvicinamento al cuore della vecchia Europa sono la città di Vaalimaa, al confine tra Russia e Finlandia, poi Helsinki, Lubeck e infine Rotterdam. Nessuno di questi toponimi viene tuttavia esplicitato e non è in un luogo fisico che si conclude questo straordinario, notturno inno alla bellezza della grande Europa.
9) Alexandra (2007)

Il russo Sokurov filma un delicato apologo contro la guerra scegliendo come location Grozny, luogo simbolo del sanguinoso conflitto tra russi e ceceni. L'intero episodio si snoda intorno a una serie di contrapposizioni dialettiche, innescate dall'arrivo della protagonista nel campo militare. Alexandra è l'unica donna ospite, è di età avanzata e indossa abiti civili in un campo popolato da ragazzi in divisa che potrebbero essere tutti suoi nipoti. Non è difficile scorgere nel suo personaggio qualcosa di più che una semplice figura materna: in lei rifulge la dignità e la memoria di un popolo nobile e antico, di una Russia lontana come la patria delle giovani reclute spedite al fronte. Davanti alla integrità della donna anche i giovanissimi soldati, lontani da quelle radici che hanno abbandonato insieme alle loro famiglie, assumono una consapevolezza diversa della loro identità.
8) Elegia orientale (1996)

Un uomo inizia a sognare e si ritrova in un mondo sconosciuto, attraversato dagli spiriti dei morti. Questi raccontano la propria vita ed espongono la propria idea di felicità. Tra le tante elegie che Sokurov ha diretto, questa è una delle più potenti e maestose, tanto dal versante narrativo quando da quello stilistico. Il regista mette in scena un mediometraggio di grande spessore umanista, attraversato da immagini che diventano memoria individuale, sogni che si mescolano a ricordi (anche del passato dell'autore), ombre che si perdono nella luce. Pura pittura in movimento, come se ne vede sempre più di rado.
7) Francofonia (2015)

Sokurov adotta uno sperimentalismo decisamente radicale, alternando girato e immagini di repertorio, per indagare il rapporto tra arte e potere, assumendo il Louvre (al cui interno il regista ha girato numerose scene) come emblema di un tesoro da preservare: la cultura in tutte le sue forme. Unendo dunque inserti cinematografici, pittorici e fotografici, il grande cineasta russo costruisce un'elegia visiva, un elogio dell'arte e della creatività come valori universali capaci di rendere la vita degna di essere vissuta, come strumenti di decodifica del mondo, come più alte manifestazioni del pensiero umano da custodire e preservare dalle idiozie e dalle megalomanie del potere, incarnato idealmente da due personaggi come Hitler e Napoleone. Proseguendo il percorso intellettuale già avviato in Arca russa, Sokurov riflette su un'Europa che sta progressivamente smarrendo la propria identità in quanto incapace di valorizzare al meglio il proprio patrimonio artistico, facendosi al contrario fagocitare da un sistema di valori che premia il cinismo, la superficialità e l'individualismo.
6) Toro (2001)

Dopo Moloch (1999), che analizzava la contraddittoria figura di Adolf Hitler, Aleksandr Sokurov continua la sua opera di destrutturazione del potere, cogliendone gli aspetti più corporei e decadenti nell'implacabile degenerazione del quotidiano; fulcro assoluto, in questo secondo capitolo, un'altra figura di rottura nel panorama novecentesco, Vladimir Lenin, bolscevico di ferro che fu iniziatore di un'utopica e apparente rinascita russa, ben presto sfociata nella dittatura stalinista. La sceneggiatura di Yuri Arabov si concentra non sul personaggio pubblico, bensì sull'uomo inerme, enfatizzandone le debolezze e l'infermità e attuando in tal modo una riflessione politica sulla Storia e sulle sue inevitabili derive. Grande lavoro sul sonoro (sussurri, sospiri e gemiti sofferenti di Lenin) e sequenze che non si dimenticano: impossibile non citare l'incontro con Stalin (interpretato da Sergej Razhuk), simbolo del passaggio al giogo della tirannia.
5) Moloch (1999)

Aleksandr Sokurov inaugura la propria personalissima riflessione sul Potere con un agghiacciante ritratto in sordina di Adolf Hitler, leader del partito nazista che condusse il mondo sull'orlo del baratro. L'autorità del Führer è ridicolizzata e privata di ogni aura di elezione: la scelta di concentrarsi sull'intimità dei personaggi diventa mezzo primario per una stigmatizzazione dell'orrore, insito in una assurda pretesa di divinizzazione, e il tratteggio di un mondo surreale (il costante ripetersi delle azioni, i dialoghi svuotati di senso) veicola la futura e inevitabile apocalisse. Attraverso uno stile rigoroso e personalissimo (il mirino dei soldati che inquadra le azioni dei capi, quasi a smembrare dall'interno la scala gerarchica), Sokurov scardina ogni regola prestabilita, definendo in maniera magistrale il concetto di alienazione e delineando i limiti e le contraddizioni di un contesto dittatoriale destinato alla rovina. Un'opera estrema e disturbante, di non facile assimilazione a causa del ritmo lento e assorto.
4) Il sole (2005)

Dopo Moloch (1999) e Toro (2001), Aleksandr Sokurov continua la sua riflessione sulle contraddizioni del Potere, scegliendo come fulcro narrativo il supremo Hirohito, simbolo primario di contrasti ideologici e culturali tra Oriente e Occidente («Non capisco come simili personaggi possano governare il mondo e mandare milioni di persone a morire»). Raramente le ipocrisie e la fondamentale inadeguatezza delle autorità hanno trovato rappresentazione tanto incisiva: Sokurov imbriglia il declino di un paese (e di un intero universo) in geometrie rigorose e assolute (le linee del palazzo imperiale, prigione fisica e mentale dell'Imperatore), metaforizzando i (ri)cicli storici e gli invalicabili schematismi della burocrazia governativa e facendo detonare dall'interno l'inevitabile punto di fissione. Ma la tragedia, quasi ieratica, avviene senza rumore: ed è proprio tale, assordante silenzio a sancire la definitiva caduta, stigmatizzando il Male attraverso l'orgoglio e l'ottusità («Una divinità, in un mondo così degradato, non può che esprimersi in giapponese»).
3) Faust (2011)

Ultima parte della tetralogia di Sokurov dedicata alla natura del potere. Dopo Hitler (Moloch del 1999), Lenin (Taurus del 2000) e Hirohito (Il sole del 2005), il regista russo sceglie un personaggio letterario per proseguire la sua indagine sull'animo umano alle prese con gli ostacoli che la realtà (quotidiana e storica) impone all'esercizio dell'autorità e ai desideri personali. In questo caso, Faust incarna la volontà di controllo dell'intelletto attraverso una smania di conoscenza che appare implacabile, come dimostra il vagare senza sosta del protagonista (seguito da una mobilissima macchina da presa), ma che deve fare i conti con i limiti della natura umana (di cui vengono accentuati i tratti più brutali e animaleschi) e con un'infelicità che appare conseguenza ineludibile di ciascun processo di apprendimento, in quanto presa di coscienza della finitezza dell'essere umano, in barba alle sue più smisurate ambizioni. Opera magniloquente, di non sempre facilissima intelligibilità, ma sbalorditiva e decisamente appagante. Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia 2011.
2) Madre e figlio (1997)

Un ragazzo accudisce la madre morente in un isolato casolare di campagna. Un vincolo profondo di amore lega le loro due esistenze. Intorno solo la natura, misteriosa e impenetrabile. Va annoverato tra i titoli più importanti nella produzione del cineasta russo Sokurov questo sublime e doloroso cantico di pietas sull'amore filiale, capace di elevarsi su registri di straordinario valore artistico e struggente lirismo. I due protagonisti sono le uniche figure umane che popolano lo spazio e il tempo del film, mentre la natura che li circonda sembra custodire la risposta all'enigma della sofferenza e della morte. Come in molte delle sue opere, Sokurov ottiene questo straniante effetto di deformazione espressionista del fotogramma adoperando lenti anamorfiche e manipolando i parametri di compressione dell'immagine. Oltre ai riferimenti formali alla pittura di Caspar David Friedrich, nella suggestiva immagine del figlio che tiene in braccio la madre è possibile leggere un richiamo alla Pietà michelangiolesca, icona di quella religiosità intima e dolente di cui il film è permeato.
1) Arca russa (2002)

Un unico piano-sequenza di quasi novanta minuti in cui lo sguardo in soggettiva della macchina da presa si muove fluidamente tra i corridoi del museo, percorrendo diverse epoche storiche in un viaggio metafisico e onirico. Sokurov analizza la grandezza della storia e della cultura russa, nonché la sua decadenza, con un tono appassionato e malinconico, commosso ma profondamente pessimista, in quanto la riflessione del regista si allarga all'intera Europa (significativamente incarnata dal diplomatico che accompagna il viaggiatore nel tempo), eccessivamente ancorata a una magnificenza ormai sfiorita e destinata a rimanere sospesa in una sorta di limbo, navigando in eterno lungo le onde della memoria e del tempo, confinata in un non luogo da cui non c'è scampo. Opera amara, nostalgica e visivamente strabiliante, accompagnata da una ricerca formale che punta a valorizzare le potenzialità del cinema sia come macchina spettacolare (coinvolti oltre tremila comparse, ventidue assistenti di regia e tre orchestre), sia come strumento di indagine della realtà e della storia, mostrando l'invisibile recondito nel visibile e valorizzando al meglio lo strepitoso potere evocativo delle immagini. In originale la voce del viaggiatore nel tempo è dello stesso Sokurov. Una delle vette espressive della settima arte del ventunesimo secolo.
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