Una cerimonia il più rapida ed efficiente possibile, con 45 secondi a testa per i discorsi di ringraziamento e un conduttore giovane e smart, Alessandro Cattelan, in linea con il target della serata. La nuova veste che Sky ha cucito addosso ai David di Donatello, dopo anni di incolore passaggio su Rai 1 nel disinteresse generale, si conferma copia carbone, perfino un po’ naïf, dei rituali e delle situazioni tipici della cerimonia di consegna degli Oscar nella notte del Dolby Theatre di Los Angeles. A cominciare dal prologo parodico, che nel secondo anno consecutivo dei David targati Sky, dopo l’incursione di Paolo Sorrentino e dei The Jackal della scorsa edizione, ha visto Luca Argentero, Valerio Mastandrea e lo stesso Cattelan cimentarsi in un corto satirico dal titolo Io, te e David, sfottò dei film italiani sulla famiglia, tra fratellanze improbabili e scelte di casting piuttosto ardite.
La presenza in scena di Mastandrea aumenta naturalmente a dismisura il surplus di ironia e compiacimento sornione e, come di consueto con l’attore romano, si ironizza sul cinema d’autore italiano, tra riviste dal titolo emblematico, Lagna cinema, e mantra inequivocabili (“il cinema è una grossa presa per il culo che va presa molto seriamenteâ€). Cattelan dal canto suo, introducendo la cerimonia e dopo aver doverosamente ricordato Gian Luigi Rondi, prosegue in scia, bollando Francesco Rutelli come “il re delle cougarâ€, in barba ad Argentero, nel bel mezzo di un monologo da entertainer e da stand-up comedian che vuole fare il verso ai suoi omologhi americani. È la cifra della serata, ritmata e godibile ma derivativa, con una platea molto più imbalsamata e molto meno autoironica, in larghissima parte, rispetto a quella degli Academy Awards, con l’esterofilia che si erge, come spesso accade, a massima forma di provincialismo.
Nel ritirare il David come miglior attore non protagonista è ancora Mastandrea a vestire i panni della mattatore, chiedendo alla platea di imbambolarsi per dieci secondi a fissare il vestito di Jasmine Trinca e soprattutto ricordando Josciua Algeri, il giovane interprete di Fiore recentemente scomparso e del quale l’attore appena premiato ha ricordato il vissuto travagliato e i sogni determinati, attraverso brevi e commossi accenni. Un premio che si è però rivelato l’unico conquistato dal bel film di Claudio Giovannesi nel corso della serata, nella quale a dividersi il maggior numero di statuette sono stati Indivisibili di Edoardo De Angelis e Veloce come il vento di Matteo Rovere.
Due opere dirette in maniera estremamente consapevole rispetto alla materia affrontata, capaci di sostenere con coscienza e sicurezza due sfide, entrambe narrative ed emotive, importanti per il cinema italiano del nostro tempo. Sia le ragazze siamesi di De Angelis, Daisy e Viola, che la famiglia De Martino del film di Rovere sono figure singolari e umanissime, caduche e preziose, affrontate con notevole tatto antropologico e una ragguardevole consapevolezza di genere. Nessuna delle due opere aveva la bruciante purezza poetica di Fiore, la sua essenzialità e immediatezza, ma era in qualche modo doveroso che i David di Donatello, incaricati di premiare il miglior cinema italiano dell’anno anche in termini industriali e di concept, ne premiassero le sfide e ne sottolineassero l’importanza (Indivisibili partiva da 17 candidature, Veloce come il vento da 16).
Tra un premio alla carriera fuori tempo massimo a Roberto Benigni, che si è lasciato andare alla solita immancabile retorica patriottica di grana grossissima, e qualche ulteriore incursione comica (l’impagabile Il montatore gelosone di Ivo Avid, finto film per ironizzare sulla categoria miglior montaggio, firmato Maccio Capatonda), la serata è andata avanti con una parentesi In Memoriam, anch’essa ricalcata sugli Oscar e accompagnata da un Manuel Agnelli in versione beatlesiana alle prese con Across the Universe, e con un doppio premio ad Enzo Avitabile, musicista napoletano di gran pregio che si è conquistato due meritate stutuette per il suo lavoro proprio in Indivisibili, come musicista e come autore del brano Abbi pietà di noi. La sua dedica, indirizzata a tutte le periferie del mondo per l’ispirazione creativa che esse gli hanno fornito, è stata tra le più sintetiche e toccanti.
Se pare piuttosto discutibile il David come miglior regista esordiente a Marco Danieli per il torvo e manicheo La ragazza del mondo, ai danni del più interessante e propulsivo Mine di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, sacrosanti sono stati i premi ai due attori protagonisti: Stefano Accorsi, alle prese in Veloce come il vento con un personaggio sfatto e disintegrato dalla vita, Loris De Martino, che l’interprete restituisce con una prova all’insegna del puro metodo; e Valeria Bruni Tedeschi, nei panni della Beatrice Morandini Valdirana de La pazza gioia, che ha stupito tutti con un discorso vibrante e dolcissimo, all’insegna della sincerità e della commozione, oltre che improntato a un’umoralità docile ma anche irruente e un po’ naïf che non sarebbe dispiaciuta proprio al personaggio per il quale è stata premiata, soprattutto per la mirabile commistione di risate e lacrime.
Più di comodo e rassicuranti, invece, i David di Donatello andati proprio a La pazza gioia come miglior film e a Paolo Virzì come miglior regista: un trionfo un po’ telefonato e non troppo incalzante per un’opera che, nonostante la sua dimensione travolgente da road movie degli affetti e della disabilità psichica, appare fin troppo controllata e studiata a tavolino nelle sue singole fasi per parlare, oltre che di vitalità , anche di follia. Il nuovo rappresentato da autori più giovani (De Angelis, Rovere, Giovannesi) si afferma insomma fino a un certo punto, come lo stesso Virzì ha fatto notare in un capolavoro di autoironia, citando Alberto Arbasino e bollando i tre colleghi più giovani come “brillanti promesse†e Marco Bellocchio, candidato come miglior regista per Fai bei sogni, come “venerato maestro†(ritagliando per sé, dunque, il ruolo ben più scomodo del “solito stronzoâ€).