L'importanza di chiamarsi Laurence Olivier, maestro di cinema e teatro
21/05/2021
Ci sono attori resi immortali dal loro innato talento, altri che vengono ricordati per il loro fascino, altri ancora per la capacità di scrivere la storia del cinema anche dietro la macchina da presa. E poi c'è Laurence Olivier (22 maggio 1907 – 11 luglio 1989), l'unico a racchiudere in sé tutte queste qualità. Britannico DOC, della contea del Surrey, Olivier è una figura centrale nel panorama artistico del '900, la cui influenza culturale ha attraversato in maniera trasversale in egual misura cinema e teatro.

Attore shakespeariano per eccellenza, ha frequentato la Royal Central School of Speech & Drama, il conservatorio di arte drammatica dell'Università di Londra, esordendo sul palcoscenico già al'inizio degli anni '30 poco più che ventenne, ed è stato il primo direttore artistico del Royal National Theatre in Gran Bretagna, motivo per il quale ha ricevuto il titolo di "baronetto". Alla straordinaria carriera teatrale affianca un’altrettanto sbalorditiva carriera cinematografica: 3 Oscar (di cui due alla carriera), più altre nove nomination come miglior attore, sono il suo biglietto da visita, ma nessun riconoscimento può rendere l'idea di cosa voglia dire chiamarsi Laurence Olivier.


«Shakespeare, la cosa mortale più vicina agli occhi di Dio»



Proviamo a ripercorrere il suo insuperabile percorso artistico sul grande schermo attraverso le tappe fondamentali che l'hanno reso un attore e un regista unico.

La voce nella tempesta (1939)


Il forestiero Lockwood (Miles Mander), in una notte di bufera, trova rifugio presso la tenuta Cime tempestose. Qui incontra lo scontroso Heathcliffe (Laurence Olivier), che lo accoglie senza alcun tipo di gioia. Nella notte lo spettro di Cathy (Merle Oberon), antico amore deceduto di Heatcliffe, torna a farsi sentire: per Lockwood arriva il momento di conoscere la loro triste storia. Ispirato al complesso capolavoro romantico Cime tempestose di Charlotte Brontë (1846), La voce nella tempesta è un vigoroso dramma sentimentale che si rifà solo inizialmente alla matrice letteraria d'origine. Il film di William Wyler, sceneggiato da Charles MacArthur e Ben Hecht (con contributo non accreditato di John Huston), traspone solo sedici dei trentanove capitoli del romanzo, annullando praticamente l'intera seconda generazione “cantata” dall'autrice, e disloca l'ambientazione di quasi un secolo. Il lavoro di Wyler ne guadagna in libertà: e il film, nonostante le difficoltà e i notori conflitti sul set (Olivier e Oberon si detestavano cordialmente, Olivier disprezzava inizialmente il metodo certosino di Wyler, Niven la lavorazione in generale), riesce a godere di una rassicurante – e al contempo virtuosa – tensione nevrotica. Il merito va alla regia, straordinaria, in grado di far emergere tutte le virtù dei grandi attori coinvolti (su tutti spicca l'eccellente Olivier), rielaborando in maniera personale una materia impegnativa e a rischio ingessatura. Oscar alla fotografia di Gregg Toland.

Rebecca (1940)



A Montecarlo, una semplice dama di compagnia conosce il ricco e aristocratico Max De Winter (Laurence Oliver), vedovo da poco tempo: lo sposerà e si trasferirà con lui nel castello di Manderley, in Cornovaglia. Il ricordo della prima moglie Rebecca è però ancora molto vivo nelle stanze e tra la servitù del castello... Spartiacque di importanza capitale nella carriera di sir Alfred Hitchcock, Rebecca è il primo film americano del maestro londinese, approdato a Hollywood dopo aver rodato il suo talento cristallino in patria, fin dalla metà degli anni Venti. Esemplare nella gestione della suspense, il film è uno straordinario saggio sull'artificio cinematografico tout court: si apre con un sogno che scivola nel ricordo, in una sorta di mise en abyme nella mente di Joan Fontaine, protagonista senza nome della quale lo spettatore condivide totalmente il punto di vista, provando una vertiginosa identificazione dal primo all'ultimo minuto. La sua storia d'amore con Laurence Olivier, segnata dall'ombra lunga dello spettro della defunta moglie dell'uomo, prende vita in un contesto fiabesco per poi sprofondare nella dimensione dell'incubo. E la presenza della morte, che aleggia già nell'idilliaco contesto monegasco del primo atto, palesandosi in cima a una scogliera a picco sul mare in burrasca, rimane costante in tutto al film, affiancata al senso di colpa che grava sul castello di Manderlay. Tra soggettive da antologia e sinuosi movimenti di macchina, Hitchcock, senza ricorrere però al suo proverbiale sense of humor, costruisce un congegno perfetto che si prende gioco della razionalità dello spettatore: tutto è subordinato all'illusione, alla menzogna e all'inganno. «Ma può restare sano di mente chi è vissuto con il diavolo?». Due Oscar: Miglior film e Miglior fotografia (George Barnes). Straordinario.

Enrico V (1944)


Londra, 1600. Il pubblico accorre al Globe Theatre per vedere rappresentato Enrico V di William Shakespeare. Introdotte dal coro narrante (Leslie Banks) vanno così in scena le gesta del sovrano (Laurence Olivier) che rivendicò il trono di Francia, sconfisse i nemici nella battaglia di Azincourt (1415) e prese poi in moglie la cugina Caterina (Renée Asherson) per unire le due corone e pacificare le nazioni. Il portentoso esordio come regista e produttore (nonché ovviamente protagonista) di Laurence Olivier avviene con una pellicola monumentale che fu un vero e proprio evento mediatico, tanto da spingere Hollywood a dedicare all'impresa un Oscar speciale. Maneggiando con una perizia insospettabile il mezzo cinematografico, l'autore riporta sullo schermo William Shakespeare dopo anni di oblìo, attraverso un'opera coraggiosa che è al tempo stesso un classico e – visto che si parla di guerre – una riflessione sul conflitto mondiale in cui era coinvolta l'Inghilterra durante la realizzazione delle riprese. Olivier sfrutta il testo per la geniale trovata che anima l'azione: quando il coro chiede agli spettatori di usare l'immaginazione per sopperire ai limiti del palcoscenico, ci ritroviamo sul vero campo di battaglia, tra tende, cavalli e centinaia di comparse, mentre i palazzi restano modellini bidimensionali o sfondi acquarellati. Questo accumulo di tecniche da una parte evidenzia lo sforzo produttivo e l'enorme lavoro sulle potenzialità della pellicola, dall'altra effettua un “gioioso straniamento” funzionale sia alla struttura dell'opera originale (spesso alleggerita da scene comiche) che alla finalità del film stesso che resta, anzitutto, una celebrazione della Settima arte come mezzo di espressione non subordinato al teatro o alla parola scritta. Eccellente direzione degli attori e straordinaria fotografia a colori di Robert Krasker e Jack Hildyard. Magnifico e irripetibile. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.

Amleto (1948)



L'adattamento per lo schermo che Olivier confeziona della più lunga (e forse più famosa) tragedia di Shakespeare è una specie di standard per classicità e qualità delle interpretazioni. Colpisce soprattutto la maturità cinematografica con cui il regista affronta il testo, ad esempio rendendo parte dei monologhi con la voce fuori campo, così da rimarcare la distanza dal palcoscenico nel momento stesso in cui la centralità della parola viene riaffermata proprio slegandola dall'azione. Le scenografie e i costumi rivelano la complessa architettura di una pellicola “pensata” e realizzata in bianco e nero come chiave espressiva (diversamente dagli altri due drammi del Bardo adattati da Olivier, Enrico V e Riccardo III). Le atmosfere decadenti e morbose, peraltro ottenute girando davvero ad Elsinore, contribuiscono a una tensione strisciante e continua nella quale le (poche) esplosioni di rabbia e violenza restituiscono perfettamente l'idea del disperato tentativo di dare una forma ai tormenti dell'anima. Alla stessa stregua, sono tutte funzionali le invenzioni di regia: controluce, inquadrature fuori fuoco, mascherine e sovraimpressioni. Memorabile, per asciuttezza e virtuosismo, la scena finale nella quale, con raccordi invisibili, la morte del principe che solo nel decesso siede sul trono si lega al corteo funebre che ne trasporta il corpo sulla torre del castello. Quattro Oscar (film, attore protagonista, scenografia e costumi). Leone d'oro, Premio internazionale per la migliore fotografia (Desmond Dickinson) e Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile (Jean Simmons) alla Mostra del Cinema di Venezia.

Riccardo III (1955)

Terzo e ultimo degli straordinari drammi shakespeariani diretti da Olivier, che si cala nella parte dello storpio e malvagio Riccardo trasportando, grazie anche a indovinate scelte di adattamento, una modernità nel personaggio assolutamente inedita. Anziché essere soltanto l'archetipo de re malvagio, l'ultimo degli York diventa un vero anti-eroe, divorato tanto da un iniziale sete di potere quanto dai rimorsi finali. Le vicende sono narrate come in una fiaba nera che non si preoccupa dell'accuratezza filologica di costumi, colori e scenari per costruire invece una “leggenda” capace di comunicare significati superiori a quelli della storiografia ufficiale. Questa “modernità” è ben esemplificata dal movimento con cui la macchina da presa apre la porta della stanza in cui Riccardo è rimasto solo, così da permettergli il monologo con cui introduce se stesso e il dramma. Una scena memorabile almeno come quella dell'acclamazione, nella quale il futuro monarca prima si schermisce per poi atterrare tra i pari che lo voglio incoronare usando la corda di una campana. Anche dopo l'apparizione dei fantasmi delle sue vittime e provato dal rimorso, Riccardo, che nonostante le menomazioni fisiche è uno stratega e combattente provetto, sarà sconfitto solo dal tradimento e dal soverchiante numero dei nemici. Per Olivier l'ultima grande opera da regista e produttore, un monumento a se stesso e al Bardo che regge anche alla durata superiore alle due ore e mezza. Meraviglioso Technicolor in VistaVision di Otto Heller e cast da brivido che comprende Cedric Hardwicke, Ralph Richardson, John Gielgud e Claire Bloom. Orso d'argento a Berlino.

Gli sfasati (1960)



Archie Rice (Laurence Olivier) è un attore di music-hall in declino: vive con l'anziano padre, ex performer, la seconda moglie Phoebe (Brenda de Banzie) e il figlio maggiore Frank (Alan Bates). Il più piccolo, Mick (Albert Finney), è partito per la guerra in Egitto per la Crisi di Suez e la seconda figlia Jean (Joan Plowright), di ritorno da Londra, è l'unica che potrebbe placare le difficoltà familiari. Dopo il successo de I giovani arrabbiati (1959), uno dei pilastri del Free cinema e della British New Wave, Tony Richarson ritorna a dirigere per il grande schermo un altro spettacolo teatrale del drammaturgo Joan Osborne, portato in scena nel 1957 dallo stesso Laurence Olivier, protagonista indiscusso anche di questo adattamento cinematografico. Ancora pregno dello spirito degli angry young men dei quali Osborne fu uno dei primi e principali esponenti, Gli sfasati tenta di riproporre, attraverso il declino del music-hall, la crisi dell'egemonia dell'Inghilterra imperiale e quella quotidiana dell'individuo non più giovane, rimasto indietro nella caotica trasformazione economica e sociale delle classi popolari e borghesi nel dopoguerra. Ma l'aggressivo piglio espressivo si perde nel dramma familiare da camera, e i toni non sono tanto quelli di un'idea di rottura con la tradizione quanto più di un assestamento. Ma Olivier, nominato all'Oscar, è il perfetto testimone dello sgretolamento dell'era dello spettacolo da vaudeville (coadiuvato dall'arrivo della televisione).

Spartacus (1960)



Chiamato in corsa a sostituire Anthony Mann, Stanley Kubrick, il quale non ha avuto possibilità di ripensare alla sceneggiatura e ha subito gravi pressioni dalla produzione, è riuscito comunque a dare vita a un kolossal di altissimo livello, di tutt'altra caratura rispetto anche ai migliori peplum dell'epoca. Il senso plastico dell'azione, la perizia delle inquadrature (magistrale fotografia in Super Technirama 70 di Russell Metty) e lo spessore di ogni singolo personaggio sono elementi di spicco che fanno del film un'avventura storica cinematograficamente sublime. Molto audaci per l'epoca le allusioni omoerotiche che riguardano Marco Licinio Crasso (Olivier), evidenti nella scena della sauna con Giulio Cesare (John Gavin) e in quella del bagno nella vasca con Antonino (Tony Curtis), censurata in molte edizioni. La sceneggiatura è di Dalton Trumbo che, dopo i trascorsi nella “lista nera” di Hollywood negli anni del maccartismo, torna finalmente a firmare un proprio lavoro, mentre i notevoli titoli di testa sono realizzati da Saul Bass. Kirk Douglas nei panni del protagonista è notevole, ma Charles Laughton in quelli di Gracco, anziano capo del Senato, e Peter Ustinov in quelli di Lentulo Batiato, proprietario dei gladiatori, sono da antologia.

Gli insospettabili (1972)


Lo scrittore di romanzi gialli Andrew Wyke (Laurence Olivier) invita nella propria villa di campagna il parrucchiere di origini italiane Milo Tindle (Michael Caine). Andrew sa che Milo è il nuovo amante della sua ex moglie Marguerite (Eve Channing) e lo spinge a lasciare la donna, cercando di intimorirlo con giochi intellettuali e minacce. Un divertimento crudele che avrà conseguenze inaspettate. Ultimo film di Joseph L. Mankiewicz, adattamento dell'omonima opera di Anthony Shaffer (che cura la sceneggiatura). Un'opera che è una summa della poetica del regista, riflessione sulla vita come costante messa in scena teatrale, gioco di apparenze e osservazione amara sulle maschere che ogni individuo è portato a indossare: un campionario di falsità e inganni che si è costretti ad affrontare per cercare di sopravvivere in un mondo dove a trionfare sono gli egoismi personali. I confini tra scherzo e follia sono decisamente labili e Mankiewicz ne analizza le derive più nefaste, costruendo uno strepitoso kammerspiel di tensione psicologica, senza disdegnare l'aspetto più prettamente spettacolare grazie alla grandiosa prova dei due protagonisti: Wyke e Tindle si sfidano in un duello logorante, fatto di colpi bassi e meschinità, in cui alla fine nessuno dei due potrà uscire vincitore, entrambi sopraffatti da una efferatezza insita nel loro animo e che si manifesta gradualmente in tutta la sua furia sadica e annichilente. Le unità di tempo e di luogo, oltre al palcoscenico mostrato nei titoli di testa, accentuano la teatralità del soggetto, mentre la regia asciutta e classica sa donare dinamismo a una narrazione che non ha un attimo di cedimento. Da applausi sia Laurence Olivier che Michael Caine, ambedue sempre sull'orlo del gigionismo ma irresistibili e seducenti mattatori. A un passo dal capolavoro assoluto.

Il maratoneta (1976)



New York. Giovante studente di storia che sta scrivendo una tesi sul Maccartismo, Thomas (Dustin Hoffman) si ritrova coinvolto suo malgrado in un intrigo internazionale: suo fratello Henry (Roy Scheider) è infatti un agente segreto che fa da corriere per Szell (Laurence Olivier), ex criminale nazista. Quando Henry si scontrerà con Szell, anche Thomas finirà nel mirino del gruppo di agenti che fanno capo all'ex gerarca tedesco. Tratto dal romanzo omonimo di William Goldman (autore anche della sceneggiatura), Il maratoneta è uno dei più originali thriller spionistici degli anni '70. Il formato classico del genere viene stravolto dal regista John Schlesinger (Un uomo da marciapiede, Domenica, maledetta domenica), in pieno stile New Hollywood, attraverso lunghissime sequenze che mettono a fuoco la vita e l'umanità di New York – vista poche volte al cinema in chiave così cupa e terrorizzante – e da una struttura a puzzle che scompone la storia in numerosi subplot. Eccellente il lavoro sui personaggi, tutti ambigui, sfumati e densi di sfaccettature. Nonostante le numerose licenze “autoriali”, la trama si snoda con potenza, carica di tensione e di ritmo, raggiungendo vette quasi horror nelle scena cult della tortura sulla sedia del dentista, che vede fronteggiarsi in una sequenza di raro sadismo Hoffman e il cattivissimo Olivier. In sottofondo, scorre una rappresentazione degli orrori della Storia (dalla caccia alle streghe di McCarthy al Nazismo) che si ripercuotono, ineluttabilmente, anche sulle nuove generazioni. Fotografia del maestro Conrad L. Hall.

I ragazzi venuti dal Brasile (1978)



Stanco e invecchiato cacciatore di nazisti, Ezra Liebermann (Laurence Olivier) scopre che Jozef Mengele (Gregory Peck), sadico chirurgo nazista nascosto in Brasile, sta architettando un misterioso piano per dare vita al Quarto Reich attraverso la clonazione. Dopo il flop di Isole nella corrente (1977), Franklin J. Schaffner cerca di rimettersi in pista con un funambolico film di spionaggio, che fonde il “nazi-movie”, l'avventura, la fantascienza e il thriller vagamente orrorifico. L'operazione è ardita e il soggetto, visti i chiari rimandi a eventi per quegli anni scandalosamente attuali (Mengele era effettivamente vivo e vegeto nel Sud America; dieci anni prima Eichmann veniva prelevato in Argentina e processato), decisamente accattivante. Tuttavia Schaffner sceglie un registro spettacolare e accomodante che non fa onore a un'idea che poteva essere ben più inquietante e pungente, ma l'aura da piccolo cult è ben salda. Rimane un simpatico outsider degli anni '70 americani, che vede uno di fronte all'altro due mostri sacri sul viale del tramonto: Olivier, molto misurato, è perfetto come vecchio ma serpentino ispettore privato, mentre Peck dà sfogo a un mefistofelico istrionismo fin troppo marcato. Fotografia di Henri Decaë, musiche di Jerry Goldsmith. 

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