I 25 migliori thriller degli anni 90 per omaggiare il 25° anniversario di Se7en
11/08/2020
Gli anni '90 sono stati un periodo molto ricco per quanto riguarda il genere thriller, un decennio che ha regalato opere indelebili, in grado di segnare l'immaginario comune e di lanciare la carriera di registi entrati poi di diritto tra gli autori più iconici del nuovo millennio. In tal senso, l'esempio più eclatante è David Fincher, che nel 1995 presenta al mondo Se7en: il 25° anniversario dell'opera con Brad Pitt, Morgan Freeman e Kevin Spacey è l'occasione per ricordare i 25 thriller più importanti degli anni '90, in rigoroso ordine cronologico:
Misery non deve morire (Rob Reiner, 1990)

Rob Reiner torna ad attingere dalla bibliografia di Stephen King. Rispetto al precedente, questa volta il tono generale della pellicola è molto più inquietante e il risultato è un thriller psicotico che Reiner riesce a rendere in maniera apprezzabile, aiutato anche dalla notevole fotografia di Barry Sonnenfeld. Il film, sin dalle prime sequenze, è un tripudio di dettagli, oggetti e inquadrature, valore aggiunto di una narrazione che procede a buon ritmo. La tensione, con il passare dei minuti, cresce e colpisce lo spettatore: l'atmosfera claustrofobica tocca l'apice poco dopo la metà dell'intreccio, smorzandosi prima del tanto atteso finale.
Ore disperate (Michael Cimino, 1990)

Nichilista e violento, è un'analisi dei lati più oscuri della società americana e dell'animo umano, dove il confine tra bianco e nero si sfuma in un'enorme zona grigia. Cimino ha perso decisamente lo smalto dei suoi film migliori (la rabbia c'è ancora, il lirismo e l'afflato epico sembrano essersi smarriti), ma ha il merito di rinvigorire con un prodotto comunque interessante il filone home invasion, quello che produrrà Funny Games di Michael Haneke (1997) e tanti thriller e horror nei decenni successivi.
Il silenzio degli innocenti (Jonathan Demme, 1991)

La sua forza e la sua benedizione risiedono entrambe nello stile e nel respiro adottati da Jonathan Demme, inusuali per la grammatica consueta del genere: primi piani a profusione e una serrata dialettica in cui le immagini sembrano sudare insieme ai personaggi e, affamate di suspense, si dilatano in maniera impressionante esattamente come le narici di Lecter quando fiutano l'odore della carne umana. Demme ribadisce forse definitivamente di essere un talento selvaggio e le sue inquadrature sono innervate di una tensione che trascende il momento presente per diventare chiave di lettura più generale degli orrori del mondo e dell'asimmetria manipolatoria e tagliente che regola, scandisce e insieme distorce i rapporti umani.
JFK – Un caso ancora aperto (Oliver Stone, 1991)

Con questo lavoro, il regista statunitense ha tratteggiato la cronaca americana per eccellenza, riuscendo nel difficile compito di ritrarre, anche se in maniera indiretta, la figura di un presidente divenuto un riferimento assoluto per la politica e la cultura dell'epoca. Attraverso un'indagine minuziosa (ma mai pedante), JFK – Un caso ancora aperto riesce ad appassionare anche chi non si sente direttamente coinvolto in una tragedia che ancora oggi riserva più di un punto oscuro. Il passo lento di taglio documentaristico ben si sposa a un'operazione di solenne rigore storico e filologico, grazie a un approccio obiettivo e privo di quegli eccessi enfatici che solitamente costituiscono i limiti della poetica di Stone.
Tacchi a spillo (Pedro Almodóvar, 1991)

I temi trattati sono tra quelli più cari del regista iberico (dal doppio al travestitismo) che sa bene come dosare i tanti ingredienti a disposizione. Il risultato è un appassionante thriller, che tiene lo spettatore con il fiato sospeso fino all'ultimo minuto: il ritmo è buono e non si evidenziano cali lungo l'intera durata, seppur, allo stesso modo, non ci siano da segnalare momenti davvero memorabili. L'irriverenza è notevole, ma non sempre riesce a pungere quanto il suo autore (probabilmente) vorrebbe.
Il fuggitivo (Andrew Davis, 1993)

Un thriller ad alta tensione che non inventa nulla ma, in compenso, fa benissimo il suo mestiere, mantenendo costantemente lo spettatore con il fiato sospeso a ogni passaggio del complesso percorso di Kimble verso l'innocenza. Convincono i due protagonisti, un Ford animato dal disperato desiderio di giustizia e un caparbio e sardonico Tommy Lee Jones, premiato con l'Oscar come migliore attore non protagonista, nei panni del poliziotto che lo bracca, e funziona la sceneggiatura (di Jeb Stuart e David Twohy), perfettamente oliata e lanciata a tutta birra su binari sicuri.
Un giorno di ordinaria follia (Joel Schumacher, 1993)

Allucinante escursione all'interno della psiche di un controverso e instabile personaggio, all'apparenza completamente pazzo ma che, in fondo in fondo, nasconde una logica sorprendente (tipica di ogni squilibrato che si rispetti). Joel Schumacher riesce a rappresentare la sottile linea che separa normalità e follia, eccedendo solo in parte a sensazionalismi gratuiti. Ottimo Michael Douglas nell'interpretare un personaggio dall'insaziabile sete di giustizia, in grado di sconvolgere con un semplice (ma allucinato) sguardo; meno convincente Robert Duvall nei panni del solito paladino della giustizia a stelle e strisce.
L'inferno (Claude Chabrol, 1994)

Chabrol si àncora inizialmente alla realtà, attribuendo all'ossessione del protagonista una natura patologica bipolare per poi lasciarsi andare, al di là della nevrosi, nell'immersione onirica dell'incubo della gelosia insonne. Cluzet è interprete perfetto di una follia che emerge gradualmente e conduce al tormento finale del doppio, tra bene e male, mentre la Béart incarna l'erotismo sfacciato atto a far insorgere il dubbio della verità. La regia di Chabrol è stata in altri casi più audace (e certamente non mantiene le intenzioni d'avanguardia promesse da Clouzot nel suo progetto originario), ma il regista s'impegna a non deformare stilisticamente una realtà di per sé già alterata agli occhi del protagonista, arrivando a un risultato che, seppur vittima di alcuni cedimenti narrativi, mantiene un'aura di positivo fascinoso mistero.
Heat – La sfida (Michael Mann, 1995)

Michael Mann firma un noir epico e crepuscolare, storia di una caccia che coinvolge due uomini apparentemente antitetici tra loro ma legati da una curiosa simbiosi: la dedizione totale verso il proprio lavoro. Una vera e propria ossessione che porta a mettere in secondo piano tutto il resto, a partire dai legami affettivi. Vincent e Neill sono due uomini soli e solitari, professionisti intransigenti, perfezionisti e stoici, pressoché infallibili nell'adempiere il proprio dovere ma fondamentalmente inadatti alla vita, incapaci di relazionarsi col prossimo, dilaniati da un'angoscia interiore che li tiene sempre vigili e al contempo li aliena. Grande affresco sull'incomunicabilità emozionale, struggente, ammantato da un romanticismo utopico, sorretto da una narrazione superba che accumula personaggi e sottotrame ma riesce a gestire il tutto con mirabile coerenza.
I soliti sospetti (Bryan Singer, 1995)

l giovane regista porta sul grande schermo un intricato intreccio che entusiasma e tiene lo spettatore con il fiato sospeso, riuscendo a creare notevoli aspettative. Fulcro assoluto della pellicola è l'efficace descrizione di Keyser Soze, personaggio quasi demoniaco, la cui crudeltà ed efferatezza vengono trasmesse senza mai mostrarne il volto: entità intangibile e inafferrabile, mezzo per esaltare un'inquietudine quasi angosciante, stigmatizzata da una fotografia soffusa e patinata (firmata da Newton Thomas Sigel), ricca di luci soffocate, e da un ambientazione sporca, periferica e pericolosa, tipicamente noir.
Se7en (David Fincher, 1995)

«Hemingway una volta ha scritto: “Il mondo è un bel posto e vale la pena lottare per esso”. Condivido la seconda parte». Al suo secondo film, David Fincher costruisce un thriller al contempo derivativo e sorprendentemente originale, cupo e nichilista. Seven riesce a distanziarsi dai suoi modelli di riferimento e a operare in maniera personale nella ridefinizione del genere. Il Male ci viene presentato come un'entità radicata nel tessuto sociale, un elemento peculiare della quotidianità, indefinito e mimetizzato (non a caso il serial killer usa il nome John Doe, l'uomo senza identità) ma non per questo meno feroce e sconvolgente.
Fargo (Joel Coen, 1996)

Avvolto dalle nevi e dai venti gelidi che soffiano costantemente sui caratteri e le idiosincrasie dei suoi personaggi, Fargo è un film allo stesso tempo caustico e rassicurante, disincantato e terribile. La provincia americana così fredda e asettica è specchio di una società che ha accettato passivamente la violenza e l'amoralità come elementi di normalità, emblema di un mondo tanto feroce quanto grossolano e perciò assai più pericoloso. Personaggi che chiacchierano stancamente del nulla, osservano inebetiti televisori sempre accesi e non mancano mai di rivelare la propria intrinseca meschinità sono vettori di una lucida e spietata analisi sociologica sul male come forza radicata nel quotidiano e sulla stupidità come madre di ogni tipo di orrore.
Pusher – L'inizio (Nicolas Winding Refn, 1996)

Caotico e in perenne movimento, il film è alla continua ricerca di un'identità che sia propria, in barba ai modelli di riferimento e alle rigide, rigorose canonizzazioni di genere, che vengono evitate con sapienza provocatoria e antiaccademica; e la discesa agli inferi del protagonista, la cui parabola si traduce in un climax ascendente o discendente a seconda dei punti di vista, è di quelle che lasciano il segno e non si dimenticano.
Cure (Kiyoshi Kurosawa, 1997)

A metà strada fra il thriller psicologico e il poliziesco a tinte noir, Kurosawa tenta un nuovo approccio al genere e opera su due piani contrapposti, da un lato rispettandone i topoi più esteriori (presenza di un protagonista detective, indagini e caccia all'uomo, componente rituale degli omicidi, paesaggi urbani decadenti) e dall'altro scardinandone dall'interno struttura e stilemi (la cattura dell'antagonista avviene a metà film, non c'è ristabilimento dell'ordine né la scoperta di un movente razionale, climax della tensione assente e tempi dilatati). Toni metafisici e messa in scena realistica (campi lunghi, piani-sequenza, profondità di campo, nessuna aggiunta di musiche) per una discesa fra le pieghe più oscure della natura umana, condotta da Kurosawa in un contesto di apparente normalità in cui la violenza irrompe improvvisa e destabilizzante.
Funny Games (Michael Haneke, 1997)

L'ossessiva indagine del regista austriaco nei meandri più crudeli della società contemporanea lo conduce in un territorio destabilizzato, dove la violenza è quotidiana e le regole del “gioco” vengono infrante (come non citare la famosa scena del telecomando dove l'azione appena compiuta torna indietro, come un replay televisivo, ma con esito differente). Convinto assertore del falso-cinematografico, Haneke mette in scena con Funny Games un kammerspiel claustrofobico e letale, spaccando critica e pubblico che, allo stesso modo dei casi di cronaca nera, si dividono tra innocentisti (fan) e colpevolisti (detrattori). Un tassello fondamentale e decisivo nell'opera di un regista che ha fatto del dialogo tra pellicola e spettatore il cardine della sua perfida poetica, e che ha saputo, come pochi altri, instillare dubbi e inquietare ogni tipo di fruitore.
Jackie Brown (Quentin Tarantino, 1997)

La struttura narrativa classica, il ritmo dilatato, la rarefazione della violenza e il parziale abbandono dei celeberrimi dialoghi barocchi sono stati scambiati, anche da molti aficionados del regista, per una sua deriva anonima e impersonale. Jackie Brown è invece un originalissimo omaggio all'universo della Blaxploitation anni ‘70, di cui Pam Grier fu una delle star, nonché una spiazzante rilettura del genere melodrammatico filtrato con gli stilemi del polar. I protagonisti, dunque, combattono contro i propri sentimenti (amore, odio, senso del dovere, opportunismo) e decidono di agire comunque, quasi consapevoli di un destino di sconfitta che li attende.
L'avvocato del diavolo (Taylor Hackford, 1997)

Taylor Hackford costruisce un film stratificato ma semplice alla fruizione del pubblico più vasto: basandosi sul romanzo omonimo di Andrew Neiderman, carica la storia delle influenze suggestive del Paradiso perduto di John Milton (con qualche spruzzata della Divina Commedia dantesca) e costruisce un film su misura per l'estro recitativo di Al Pacino. Nei panni del signore delle tenebre, quest'ultimo è talmente a suo agio da eclissare ogni altro elemento presente sullo schermo, il che ha anche i suoi effetti negativi: se Pacino gigioneggia, Keanu Reeves, a sua volta, appare fin troppo ingessato e sobrio, così da non rendere del tutto credibili, narrativamente parlando, gli eccessi strutturali.
Perfect Blue (Satoshi Kon, 1997)

Si può definire questo esordio una ventata d'aria fresca in un periodo come gli anni Novanta, in cui i lungometraggi animati orientali (Studio Ghibli a parte) sembravano essere bloccati in una logica fantascientifica priva di un supporto creativo realmente degna di nota: l'estetica labirintica di Kon, che sembra ispirarsi al cinema di David Lynch, è innovativa principalmente per come mescola un apparato visivo tutto sommato abbastanza rozzo (ma non fuori contesto vista la sporcizia dei temi e dei toni trattati) con un montaggio impeccabile e coerente con l’atmosfera di follia che permea l'intera opera. Il risultato è un prodotto inquietante al punto giusto, ricco di riusciti colpi di scena e capace di dare vita a una riflessione tutt’altro che banale sul mondo dello spettacolo.
Strade perdute (David Lynch, 1997)

Strade perdute è un viaggio circolare negli abissi della mente umana, in cui l'inizio coincide con la fine e la cui ispirazione potrebbe essere il nastro di Möbius. Lynch aveva già lavorato sul tema della (doppia) identità – si pensi alla serie televisiva I segreti di Twin Peaks (1990-1991) – ma non era mai stato così esplicito e non aveva mai azzardato tanto. Fred finisce in prigione e avviene una vera e propria metamorfosi: in cella c'è Pete Dayton (Balthazar Getty), un altro ragazzo con un'altra vita, che si scoprirà indissolubilmente legato a Fred grazie a una (stessa?) donna. Lynch muove a suo piacimento le dimensioni e i personaggi, inserendo nella finzione un suo corrispettivo: il demiurgico “mystery man”, regista interno al film che, non a caso, porta con sé una videocamera.
Omicidio in diretta (Brian De Palma, 1998)

Brian De Palma continua a valorizzare il potere delle immagini: le riprese delle telecamere sono le uniche risorse a disposizione di Santoro per giungere all'epilogo della sua indagine. Il risultato è un thriller coinvolgente e dotato di buon ritmo, che si muove su due livelli: quello squisitamente tecnico e quello legato allo sviluppo della narrazione. Se il primo è decisamente incisivo (grazie a split screen, mirabolanti riprese e studiatissime inquadrature), il secondo, invece, poco valorizzato da un'opaca sceneggiatura firmata David Koepp che gioca con garbugli, intrighi e colpi di scena senza essere mai realmente efficace, né icastico.
Ronin (John Frankenheimer, 1998)

Rimandi al senso dell'onore orientale, evidenti sin dal titolo (i “ronin” erano gli antichi samurai giapponesi privi di padroni e pronti a vendersi al miglior offerente), ritmo serrato (che raggiunge il culmine nelle sequenze di inseguimenti automobilistici, girate con una sapienza tale da non fare rimpiangere William Friedkin e il suo Il braccio violento della legge del 1971) e dialoghi ad effetto («Il codice guerriero. Il gusto della battaglia, l'hai capito questo sì? Però c'è qualcosa di più. Ti rendi conto che esiste qualcosa oltre a te stesso che tu hai bisogno di servire? Se questa necessità scompare, se la fede viene a mancare, che cosa sei?»): certamente non perfetto, ma compatto e, soprattutto, coerente.
Soldi sporchi (Sam Raimi, 1998)

Sam Raimi ha tratto un thriller profondo e suggestivo, in cui la neve, onnipresente e quasi accecante, crea una sorta di cupola bianca e serena in contrasto con le crude immagini presenti durante la visione. Il regista americano dimostra di saper gestire bene la suspense e la tensione, crescenti per tutto il film, in una notevole denuncia dell'avidità dove a spiccare è Jacob (nomination a Oscar e Golden Globe per Billy Bob Thornton), il fratello povero e disagiato. Ottima la confezione e ben strutturato l'intreccio, che trova il suo culmine in una conclusione che non si dimentica facilmente.
Il colore della menzogna (Claude Chabrol, 1999)

Chabrol dipinge di giallo la paranoia del matrimonio e del tradimento, nonché dei vizi segreti degli abitanti particolari di una piccola città balneare durante il solitario inverno. Nulla di nuovo sulla carta per il regista francese, ma con la sua sapienza acquisita (è il cinquantunesimo film della carriera) riesce a costruire, al di là del mistero da risolvere, il tormento sadico e morboso della coppia di protagonisti, nella colpa sensibile indotta di Sandrine Bonnaire e soprattutto nella crisi artistica e depressiva del pittore maledetto interpretato dal cupissimo Jacques Gamblin.
Il sesto senso (M. Night Shyamalan, 1999)

Al suo terzo lungometraggio, M. Night Shyamalan si impone all'attenzione del pubblico internazionale con un thriller metafisico personale e spiazzante, la cui misteriosa e ossessiva atmosfera trova con lo straordinario colpo di scena finale un epilogo di rara suggestione. Il gioco tra realtà e immaginazione subisce uno spettacolare ribaltamento che ha il pregio di non sfociare mai in effettacci o in soluzioni sopra le righe. Suggerire è meglio che mostrare, soprattutto se si tratta di rivitalizzare, alle porte del nuovo millennio, il “cinema di spavento”.
Insider – Dietro la verità (Michael Mann, 1999)

Michael Mann (sceneggiatore con Eric Roth) si cimenta con il cinema di impegno civile, proponendo come di consueto un punto di vista personale e anomalo rispetto agli standard di genere. È prevalentemente attraverso una messa in scena impeccabile (ottima come sempre la fotografia di Dante Spinotti), abile nello sfruttare gli spunti visivi e nel favorire tempi lunghi e dilatati forieri del malessere esistenziale dei suoi protagonisti, che il regista racconta la storia di due perdenti idealisti, destinati al fallimento ma non per questo disposti a lasciarsi sopraffare dal corso degli eventi. Inoltre il film gioca sapientemente minando tutte le certezze dello spettatore, sottolineando le ambiguità comportamentali dei vari personaggi.
Misery non deve morire (Rob Reiner, 1990)

Rob Reiner torna ad attingere dalla bibliografia di Stephen King. Rispetto al precedente, questa volta il tono generale della pellicola è molto più inquietante e il risultato è un thriller psicotico che Reiner riesce a rendere in maniera apprezzabile, aiutato anche dalla notevole fotografia di Barry Sonnenfeld. Il film, sin dalle prime sequenze, è un tripudio di dettagli, oggetti e inquadrature, valore aggiunto di una narrazione che procede a buon ritmo. La tensione, con il passare dei minuti, cresce e colpisce lo spettatore: l'atmosfera claustrofobica tocca l'apice poco dopo la metà dell'intreccio, smorzandosi prima del tanto atteso finale.
Ore disperate (Michael Cimino, 1990)

Nichilista e violento, è un'analisi dei lati più oscuri della società americana e dell'animo umano, dove il confine tra bianco e nero si sfuma in un'enorme zona grigia. Cimino ha perso decisamente lo smalto dei suoi film migliori (la rabbia c'è ancora, il lirismo e l'afflato epico sembrano essersi smarriti), ma ha il merito di rinvigorire con un prodotto comunque interessante il filone home invasion, quello che produrrà Funny Games di Michael Haneke (1997) e tanti thriller e horror nei decenni successivi.
Il silenzio degli innocenti (Jonathan Demme, 1991)

La sua forza e la sua benedizione risiedono entrambe nello stile e nel respiro adottati da Jonathan Demme, inusuali per la grammatica consueta del genere: primi piani a profusione e una serrata dialettica in cui le immagini sembrano sudare insieme ai personaggi e, affamate di suspense, si dilatano in maniera impressionante esattamente come le narici di Lecter quando fiutano l'odore della carne umana. Demme ribadisce forse definitivamente di essere un talento selvaggio e le sue inquadrature sono innervate di una tensione che trascende il momento presente per diventare chiave di lettura più generale degli orrori del mondo e dell'asimmetria manipolatoria e tagliente che regola, scandisce e insieme distorce i rapporti umani.
JFK – Un caso ancora aperto (Oliver Stone, 1991)

Con questo lavoro, il regista statunitense ha tratteggiato la cronaca americana per eccellenza, riuscendo nel difficile compito di ritrarre, anche se in maniera indiretta, la figura di un presidente divenuto un riferimento assoluto per la politica e la cultura dell'epoca. Attraverso un'indagine minuziosa (ma mai pedante), JFK – Un caso ancora aperto riesce ad appassionare anche chi non si sente direttamente coinvolto in una tragedia che ancora oggi riserva più di un punto oscuro. Il passo lento di taglio documentaristico ben si sposa a un'operazione di solenne rigore storico e filologico, grazie a un approccio obiettivo e privo di quegli eccessi enfatici che solitamente costituiscono i limiti della poetica di Stone.
Tacchi a spillo (Pedro Almodóvar, 1991)

I temi trattati sono tra quelli più cari del regista iberico (dal doppio al travestitismo) che sa bene come dosare i tanti ingredienti a disposizione. Il risultato è un appassionante thriller, che tiene lo spettatore con il fiato sospeso fino all'ultimo minuto: il ritmo è buono e non si evidenziano cali lungo l'intera durata, seppur, allo stesso modo, non ci siano da segnalare momenti davvero memorabili. L'irriverenza è notevole, ma non sempre riesce a pungere quanto il suo autore (probabilmente) vorrebbe.
Il fuggitivo (Andrew Davis, 1993)

Un thriller ad alta tensione che non inventa nulla ma, in compenso, fa benissimo il suo mestiere, mantenendo costantemente lo spettatore con il fiato sospeso a ogni passaggio del complesso percorso di Kimble verso l'innocenza. Convincono i due protagonisti, un Ford animato dal disperato desiderio di giustizia e un caparbio e sardonico Tommy Lee Jones, premiato con l'Oscar come migliore attore non protagonista, nei panni del poliziotto che lo bracca, e funziona la sceneggiatura (di Jeb Stuart e David Twohy), perfettamente oliata e lanciata a tutta birra su binari sicuri.
Un giorno di ordinaria follia (Joel Schumacher, 1993)

Allucinante escursione all'interno della psiche di un controverso e instabile personaggio, all'apparenza completamente pazzo ma che, in fondo in fondo, nasconde una logica sorprendente (tipica di ogni squilibrato che si rispetti). Joel Schumacher riesce a rappresentare la sottile linea che separa normalità e follia, eccedendo solo in parte a sensazionalismi gratuiti. Ottimo Michael Douglas nell'interpretare un personaggio dall'insaziabile sete di giustizia, in grado di sconvolgere con un semplice (ma allucinato) sguardo; meno convincente Robert Duvall nei panni del solito paladino della giustizia a stelle e strisce.
L'inferno (Claude Chabrol, 1994)

Chabrol si àncora inizialmente alla realtà, attribuendo all'ossessione del protagonista una natura patologica bipolare per poi lasciarsi andare, al di là della nevrosi, nell'immersione onirica dell'incubo della gelosia insonne. Cluzet è interprete perfetto di una follia che emerge gradualmente e conduce al tormento finale del doppio, tra bene e male, mentre la Béart incarna l'erotismo sfacciato atto a far insorgere il dubbio della verità. La regia di Chabrol è stata in altri casi più audace (e certamente non mantiene le intenzioni d'avanguardia promesse da Clouzot nel suo progetto originario), ma il regista s'impegna a non deformare stilisticamente una realtà di per sé già alterata agli occhi del protagonista, arrivando a un risultato che, seppur vittima di alcuni cedimenti narrativi, mantiene un'aura di positivo fascinoso mistero.
Heat – La sfida (Michael Mann, 1995)

Michael Mann firma un noir epico e crepuscolare, storia di una caccia che coinvolge due uomini apparentemente antitetici tra loro ma legati da una curiosa simbiosi: la dedizione totale verso il proprio lavoro. Una vera e propria ossessione che porta a mettere in secondo piano tutto il resto, a partire dai legami affettivi. Vincent e Neill sono due uomini soli e solitari, professionisti intransigenti, perfezionisti e stoici, pressoché infallibili nell'adempiere il proprio dovere ma fondamentalmente inadatti alla vita, incapaci di relazionarsi col prossimo, dilaniati da un'angoscia interiore che li tiene sempre vigili e al contempo li aliena. Grande affresco sull'incomunicabilità emozionale, struggente, ammantato da un romanticismo utopico, sorretto da una narrazione superba che accumula personaggi e sottotrame ma riesce a gestire il tutto con mirabile coerenza.
I soliti sospetti (Bryan Singer, 1995)

l giovane regista porta sul grande schermo un intricato intreccio che entusiasma e tiene lo spettatore con il fiato sospeso, riuscendo a creare notevoli aspettative. Fulcro assoluto della pellicola è l'efficace descrizione di Keyser Soze, personaggio quasi demoniaco, la cui crudeltà ed efferatezza vengono trasmesse senza mai mostrarne il volto: entità intangibile e inafferrabile, mezzo per esaltare un'inquietudine quasi angosciante, stigmatizzata da una fotografia soffusa e patinata (firmata da Newton Thomas Sigel), ricca di luci soffocate, e da un ambientazione sporca, periferica e pericolosa, tipicamente noir.
Se7en (David Fincher, 1995)

«Hemingway una volta ha scritto: “Il mondo è un bel posto e vale la pena lottare per esso”. Condivido la seconda parte». Al suo secondo film, David Fincher costruisce un thriller al contempo derivativo e sorprendentemente originale, cupo e nichilista. Seven riesce a distanziarsi dai suoi modelli di riferimento e a operare in maniera personale nella ridefinizione del genere. Il Male ci viene presentato come un'entità radicata nel tessuto sociale, un elemento peculiare della quotidianità, indefinito e mimetizzato (non a caso il serial killer usa il nome John Doe, l'uomo senza identità) ma non per questo meno feroce e sconvolgente.
Fargo (Joel Coen, 1996)

Avvolto dalle nevi e dai venti gelidi che soffiano costantemente sui caratteri e le idiosincrasie dei suoi personaggi, Fargo è un film allo stesso tempo caustico e rassicurante, disincantato e terribile. La provincia americana così fredda e asettica è specchio di una società che ha accettato passivamente la violenza e l'amoralità come elementi di normalità, emblema di un mondo tanto feroce quanto grossolano e perciò assai più pericoloso. Personaggi che chiacchierano stancamente del nulla, osservano inebetiti televisori sempre accesi e non mancano mai di rivelare la propria intrinseca meschinità sono vettori di una lucida e spietata analisi sociologica sul male come forza radicata nel quotidiano e sulla stupidità come madre di ogni tipo di orrore.
Pusher – L'inizio (Nicolas Winding Refn, 1996)

Caotico e in perenne movimento, il film è alla continua ricerca di un'identità che sia propria, in barba ai modelli di riferimento e alle rigide, rigorose canonizzazioni di genere, che vengono evitate con sapienza provocatoria e antiaccademica; e la discesa agli inferi del protagonista, la cui parabola si traduce in un climax ascendente o discendente a seconda dei punti di vista, è di quelle che lasciano il segno e non si dimenticano.
Cure (Kiyoshi Kurosawa, 1997)

A metà strada fra il thriller psicologico e il poliziesco a tinte noir, Kurosawa tenta un nuovo approccio al genere e opera su due piani contrapposti, da un lato rispettandone i topoi più esteriori (presenza di un protagonista detective, indagini e caccia all'uomo, componente rituale degli omicidi, paesaggi urbani decadenti) e dall'altro scardinandone dall'interno struttura e stilemi (la cattura dell'antagonista avviene a metà film, non c'è ristabilimento dell'ordine né la scoperta di un movente razionale, climax della tensione assente e tempi dilatati). Toni metafisici e messa in scena realistica (campi lunghi, piani-sequenza, profondità di campo, nessuna aggiunta di musiche) per una discesa fra le pieghe più oscure della natura umana, condotta da Kurosawa in un contesto di apparente normalità in cui la violenza irrompe improvvisa e destabilizzante.
Funny Games (Michael Haneke, 1997)

L'ossessiva indagine del regista austriaco nei meandri più crudeli della società contemporanea lo conduce in un territorio destabilizzato, dove la violenza è quotidiana e le regole del “gioco” vengono infrante (come non citare la famosa scena del telecomando dove l'azione appena compiuta torna indietro, come un replay televisivo, ma con esito differente). Convinto assertore del falso-cinematografico, Haneke mette in scena con Funny Games un kammerspiel claustrofobico e letale, spaccando critica e pubblico che, allo stesso modo dei casi di cronaca nera, si dividono tra innocentisti (fan) e colpevolisti (detrattori). Un tassello fondamentale e decisivo nell'opera di un regista che ha fatto del dialogo tra pellicola e spettatore il cardine della sua perfida poetica, e che ha saputo, come pochi altri, instillare dubbi e inquietare ogni tipo di fruitore.
Jackie Brown (Quentin Tarantino, 1997)

La struttura narrativa classica, il ritmo dilatato, la rarefazione della violenza e il parziale abbandono dei celeberrimi dialoghi barocchi sono stati scambiati, anche da molti aficionados del regista, per una sua deriva anonima e impersonale. Jackie Brown è invece un originalissimo omaggio all'universo della Blaxploitation anni ‘70, di cui Pam Grier fu una delle star, nonché una spiazzante rilettura del genere melodrammatico filtrato con gli stilemi del polar. I protagonisti, dunque, combattono contro i propri sentimenti (amore, odio, senso del dovere, opportunismo) e decidono di agire comunque, quasi consapevoli di un destino di sconfitta che li attende.
L'avvocato del diavolo (Taylor Hackford, 1997)

Taylor Hackford costruisce un film stratificato ma semplice alla fruizione del pubblico più vasto: basandosi sul romanzo omonimo di Andrew Neiderman, carica la storia delle influenze suggestive del Paradiso perduto di John Milton (con qualche spruzzata della Divina Commedia dantesca) e costruisce un film su misura per l'estro recitativo di Al Pacino. Nei panni del signore delle tenebre, quest'ultimo è talmente a suo agio da eclissare ogni altro elemento presente sullo schermo, il che ha anche i suoi effetti negativi: se Pacino gigioneggia, Keanu Reeves, a sua volta, appare fin troppo ingessato e sobrio, così da non rendere del tutto credibili, narrativamente parlando, gli eccessi strutturali.
Perfect Blue (Satoshi Kon, 1997)

Si può definire questo esordio una ventata d'aria fresca in un periodo come gli anni Novanta, in cui i lungometraggi animati orientali (Studio Ghibli a parte) sembravano essere bloccati in una logica fantascientifica priva di un supporto creativo realmente degna di nota: l'estetica labirintica di Kon, che sembra ispirarsi al cinema di David Lynch, è innovativa principalmente per come mescola un apparato visivo tutto sommato abbastanza rozzo (ma non fuori contesto vista la sporcizia dei temi e dei toni trattati) con un montaggio impeccabile e coerente con l’atmosfera di follia che permea l'intera opera. Il risultato è un prodotto inquietante al punto giusto, ricco di riusciti colpi di scena e capace di dare vita a una riflessione tutt’altro che banale sul mondo dello spettacolo.
Strade perdute (David Lynch, 1997)

Strade perdute è un viaggio circolare negli abissi della mente umana, in cui l'inizio coincide con la fine e la cui ispirazione potrebbe essere il nastro di Möbius. Lynch aveva già lavorato sul tema della (doppia) identità – si pensi alla serie televisiva I segreti di Twin Peaks (1990-1991) – ma non era mai stato così esplicito e non aveva mai azzardato tanto. Fred finisce in prigione e avviene una vera e propria metamorfosi: in cella c'è Pete Dayton (Balthazar Getty), un altro ragazzo con un'altra vita, che si scoprirà indissolubilmente legato a Fred grazie a una (stessa?) donna. Lynch muove a suo piacimento le dimensioni e i personaggi, inserendo nella finzione un suo corrispettivo: il demiurgico “mystery man”, regista interno al film che, non a caso, porta con sé una videocamera.
Omicidio in diretta (Brian De Palma, 1998)

Brian De Palma continua a valorizzare il potere delle immagini: le riprese delle telecamere sono le uniche risorse a disposizione di Santoro per giungere all'epilogo della sua indagine. Il risultato è un thriller coinvolgente e dotato di buon ritmo, che si muove su due livelli: quello squisitamente tecnico e quello legato allo sviluppo della narrazione. Se il primo è decisamente incisivo (grazie a split screen, mirabolanti riprese e studiatissime inquadrature), il secondo, invece, poco valorizzato da un'opaca sceneggiatura firmata David Koepp che gioca con garbugli, intrighi e colpi di scena senza essere mai realmente efficace, né icastico.
Ronin (John Frankenheimer, 1998)

Rimandi al senso dell'onore orientale, evidenti sin dal titolo (i “ronin” erano gli antichi samurai giapponesi privi di padroni e pronti a vendersi al miglior offerente), ritmo serrato (che raggiunge il culmine nelle sequenze di inseguimenti automobilistici, girate con una sapienza tale da non fare rimpiangere William Friedkin e il suo Il braccio violento della legge del 1971) e dialoghi ad effetto («Il codice guerriero. Il gusto della battaglia, l'hai capito questo sì? Però c'è qualcosa di più. Ti rendi conto che esiste qualcosa oltre a te stesso che tu hai bisogno di servire? Se questa necessità scompare, se la fede viene a mancare, che cosa sei?»): certamente non perfetto, ma compatto e, soprattutto, coerente.
Soldi sporchi (Sam Raimi, 1998)

Sam Raimi ha tratto un thriller profondo e suggestivo, in cui la neve, onnipresente e quasi accecante, crea una sorta di cupola bianca e serena in contrasto con le crude immagini presenti durante la visione. Il regista americano dimostra di saper gestire bene la suspense e la tensione, crescenti per tutto il film, in una notevole denuncia dell'avidità dove a spiccare è Jacob (nomination a Oscar e Golden Globe per Billy Bob Thornton), il fratello povero e disagiato. Ottima la confezione e ben strutturato l'intreccio, che trova il suo culmine in una conclusione che non si dimentica facilmente.
Il colore della menzogna (Claude Chabrol, 1999)
Chabrol dipinge di giallo la paranoia del matrimonio e del tradimento, nonché dei vizi segreti degli abitanti particolari di una piccola città balneare durante il solitario inverno. Nulla di nuovo sulla carta per il regista francese, ma con la sua sapienza acquisita (è il cinquantunesimo film della carriera) riesce a costruire, al di là del mistero da risolvere, il tormento sadico e morboso della coppia di protagonisti, nella colpa sensibile indotta di Sandrine Bonnaire e soprattutto nella crisi artistica e depressiva del pittore maledetto interpretato dal cupissimo Jacques Gamblin.
Il sesto senso (M. Night Shyamalan, 1999)

Al suo terzo lungometraggio, M. Night Shyamalan si impone all'attenzione del pubblico internazionale con un thriller metafisico personale e spiazzante, la cui misteriosa e ossessiva atmosfera trova con lo straordinario colpo di scena finale un epilogo di rara suggestione. Il gioco tra realtà e immaginazione subisce uno spettacolare ribaltamento che ha il pregio di non sfociare mai in effettacci o in soluzioni sopra le righe. Suggerire è meglio che mostrare, soprattutto se si tratta di rivitalizzare, alle porte del nuovo millennio, il “cinema di spavento”.
Insider – Dietro la verità (Michael Mann, 1999)

Michael Mann (sceneggiatore con Eric Roth) si cimenta con il cinema di impegno civile, proponendo come di consueto un punto di vista personale e anomalo rispetto agli standard di genere. È prevalentemente attraverso una messa in scena impeccabile (ottima come sempre la fotografia di Dante Spinotti), abile nello sfruttare gli spunti visivi e nel favorire tempi lunghi e dilatati forieri del malessere esistenziale dei suoi protagonisti, che il regista racconta la storia di due perdenti idealisti, destinati al fallimento ma non per questo disposti a lasciarsi sopraffare dal corso degli eventi. Inoltre il film gioca sapientemente minando tutte le certezze dello spettatore, sottolineando le ambiguità comportamentali dei vari personaggi.