I peggiori film del 2020
09/01/2021
Quali sono stati i peggiori film dell'anno che ci siamo da pochi lasciati alle spalle? Ecco la classifica della redazione di LongTake!
10. D.N.A. - DECISAMENTE NON ADATTI (Lillo e Greg)
I comici Lillo e Greg esordisco alla regia di un lungometraggio (fatta eccezione per una loro precedente regia, Pupazzo criminale, film per la tv) con una commedia sul più classico dei body swap, lo scambio di corpi e identità molto frequente nel cinema americano e riproposto più di recente in Italia con Moglie e marito (2017): l’inversione dei D.N.A., evocata fin dal titolo con un gioco di parole, presta tuttavia il fianco a uno sconfortante e ritrito gioco degli opposti in cui la verve del duo, al secolo Pasquale Petrolo e Claudio Gregori, è davvero ai minimi storici per tempi ed efficacia.
9. THE PROM (Ryan Murphy)
Dall’omonimo musical di Broadway, Ryan Murphy ha tratto un lungometraggio che conferma purtroppo i limiti del regista con prodotti di questa durata. Bravo a gestire la serialità televisiva (è tra i creatori di Glee e American Horror Story), Murphy continua a faticare a trovare lo stesso focus con lavori diversi, come aveva dimostrato nei suoi esordi Correndo con le forbici in mano e Mangia, prega, ama. Bastano pochi minuti per capire The Prom, un film molto cantato, carico di colori, furbizie e sorrisi a buon mercato, che difetta però completamente di profondità e finisce per risultare molto presto vuoto e del tutto insipido. I temi proposti (l’omofobia, in primis) sono importanti, ma ogni spunto di riflessione crolla sotto il peso della retorica e di una stucchevolezza complessiva che non rende mai credibile ciò che viene raccontato.
8. ARTEMIS FOWL (Kenneth Branagh)
Trasposizione cinematografica della saga letteraria di Eoin Colfer, Artemis Fowl di Kenneth Branagh è l’adattamento, estremamente libero (per usare un eufemismo), dei primi due romanzi del ciclo dello scrittore irlandese, ma anche un raro pastrocchio senza alcuna freccia al suo arco. La dimensione mitologica legata all’Irlanda e alle sue creature, presente nel testo in chiave misteriosa, dialettica e addirittura cifrata, si riduce nel film a un coacervo fastidioso di inerte tappezzeria in CGI, peraltro particolarmente scadente, fuori tempo massimo e invecchiata nella forma e nel contenuto: un limite non da poco, per il primo blockbuster distribuito sulla piattaforma in streaming Disney+ (originariamente concepito per la sala), totalmente privo di un’anima specifica e intento quasi esclusivamente a saccheggiare malamente altri prodotti di richiamo fantasy o sci-fi, da Avatar (2009) al ciclo de Le cronache di Narnia, passando ovviamente per Percy Jackson – alla cui rozzezza mitologica è strettamente assimilabile – e per Harry Potter, rispetto al quale Artemis Fowl fu vissuto come strettamente analogo già in sede di genesi letteraria (il primo romanzo fu pubblicato nel 2001, quattro anni dopo la prima edizione de La pietra filosofale).
7. DOLITTLE (Stephen Gaghan)
Nuova versione delle avventure tratte dalle serie di libri pubblicati da Hugh Lofis a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, il film firmato da Stephen Gaghan con protagonista Robert Downey jr. nei panni di John Dolittle, già incarnato in passato da Rex Harrison ed Eddie Murphy, mira a un target spudoratamente infantile ma risulta, sotto il profilo strettamente cinematografico, un fallimento su tutta la linea. Downey jr., dal canto suo, si limita a gigioneggiare a vuoto in maniera pestilenziale e appare clamorosamente fuori parte, ma ad apparire spaventosamente cacofonico e fastidioso è soprattutto il corredo strarnazzante di animali, le cui gag sono puntualmente stiracchiate e inerti e inscritte in un disegno complessivo di stridula stucchevolezza. Non fa meglio la confezione, che, sprovvista di un’anima propria, provvede a saccheggiare e raccattare malamente in giro contrassegni e spunti visivi da altri blockbuster, dalle sequenze navali in stile Pirati dei Caraibi all’inguardabile svolta fantasy della conclusione.
6. IL GIORNO SBAGLIATO (Derrick Borte)
Thriller al volante con protagonista un bolso e indemoniato Russell Crowe, Il giorno sbagliato mette l’attore premio Oscar per Il gladiatore (2000) alla guida di un pick-up nei panni di un uomo rude e violento, del quale ci viene detto pochissimo ma che sappiamo essere in rotta con un mondo che, come dirà lui stesso, l’ha rimasticato e poi risputato senza troppi complimenti. Il film diretto da Derrick Borte, che punta tutto su un gioco del gatto col topo spinto al massimo della perversione e dell’adrenalina, sceglie di appoggiarsi, soprattutto nelle premesse poi mai legittimate, a bordate di sociologia spicciola e populista, tra ansie anti-sistema e considerazioni approssimative che troverebbero posto solo nei più superficiali talk show (e che qui, invece, condiscono interamente il montaggio dei titoli di testa).
5. LE STRADE DEL MALE (Antonio Campos)
Ambientato nel periodo tra la Seconda guerra mondiale e la guerra del Vietnam, Le strade del male del regista statunitense di origini italo-brasiliane Antonio Campos, già dietro la macchina da presa per il discutibile Afterschool e il trascurato Christine con Rebecca Hall, s’immerge negli anfratti della provincia americana più cupa e malsana della metà del XX secolo, intrisa di personaggi dai risvolti morali ambigui e figure di abissale e inconciliabile oscurità. Fin da subito il quadro appare però inutilmente e pretestuosamente sgradevole, oltre che sterilmente programmatico e a tesi: il prologo incentrato sulle due cittadine americane in cui si svolge la vicenda, tratta dal romanzo di Donald Ray Pollock The Devil All the Time (oltre a Knockemstiff anche Coal Creek, in West Virginia), è preso dall’ansia di chiarire allo spettatore tutto e subito piuttosto che delineare una cornice narrativa efficace, con un’esposizione frontale dell’amoralità che si annida dietro questa storia che tende a mettere troppa carne al fuoco senza sviluppare a dovere le singole personalità scomodate.
4. THE NEW MUTANTS (Josh Boone)
Cinecomic dalla travagliatissima storia produttiva, The New Mutants è stato girato nel 2017 ma è uscito infine nelle sale solo tre anni dopo, ad agosto 2020, a seguito di continui rinvii e nell’anno della pandemia da Covid-19. In mezzo ha attraversato mille perizie e pure una fusione della 20th Century Fox che è stata acquistata dalla Disney e inglobata da essa: non stupisce, dunque, che il risultato finale sia a dir poco deficitario sul piano produttivo, raffazzonato e approssimativo oltre che, in più di un’occasione, inerme e raggrinzito. Se riesce difficile ricondurre questi Mutanti all’epica della Marvel e al suo sense of wonder, tanto è il livello di grigiore male in arnese che permea ogni dettaglio, dai più piccoli ai più macroscopici, ancora più difficile è credere ai personaggi come ai componenti di un prequel adolescenziale degli X-Men, così com’era nei fumetti Marvel degli anni ’80.
3. MULAN (Nikki Caro)
Fin dalle prime battute s’insiste sulla natura di figlia di Mulan, ma anche di guerriera della sua terra, lavorando su un’iconografia da blockbuster contemporaneo su larga scala tra interni rifiniti, evoluzioni, oggettistica magica e battaglie purtroppo senza fine. A mancare però, come spesso accade in questo tipo di operazioni pensate a tavolino dagli studios, è una buona dose di magia: tutto è prevedibile e preordinato, tanto nelle premesse quanto nello sviluppo, i personaggi di contorno sono macchiette plastificate e impalpabili e l’occidentalizzazione palese del gusto della messa in scena, imposto in gran parte da dettami produttivi cerchiobottisti, tarpa le ali a una fetta cospicua di sospensione dell’incredulità. A deludere sono tanto la restituzione della celebre valanga quanto le coreografie da wuxiapian, con dalla loro più di una piroetta e un inutile svolazzo di troppo.
2. 365 GIORNI (Barbara Bialowas, Tomasz Mandes)
In scia alla trilogia letteraria delle Cinquanta sfumature di E.L. James, poi trasposta al cinema in una delle saghe erotiche più sconfortanti di sempre, 365 giorni, sorta di remake polacco del ciclo di film con Dakota Johnson e Jamie Dornan, ripropone uno schema narrativo analogo e le medesime dinamiche nel tratteggiare l’incontro (si fa per dire) tra i sessi a partire dal primo romanzo della scrittrice polacca Blanka Lipinska, anch’esso primo capitolo di un trittico. Tra assunti di sconfortante banalità («Le belle donne sono il paradiso degli occhi e l’inferno dell’anima», ma anche il «purgatorio del portafogli») e scene dal presunto erotismo - al contempo lugubre e plastificato, ipocrita e patinato - 365 giorni inanella stereotipi machisti, glorificazioni glamour dello stupro, donne asettiche simili ad autonomi che non vedono l’ora, di punto in bianco e al primo schiocco di dita, di lasciarsi schiavizzare e cannibalizzare dalla challenge estrema del fusto di turno, che per di più è anche un malavitoso. La subalternità del mondo femminile, in questo caso, si spinge perfino oltre le fregole sadomaso e le fantasie di potere delle Cinquanta sfumature, insistendo su sessismo da videoclip e fellatio animalesche con una compiacenza di dubbio gusto: un’oscenità latente che non ha la dignità trasparente e didascalica della performance pornografica, ma ne sfrutta sottobanco l’impatto per veicolare “messaggi” punitivi e mortificanti per l’intelligenza dello spettatore, incasellandoli oltretutto tra innocui fondali da pubblicità lussuosa e valanghe di musica pop spacca-classifiche.
1. THE LAST DAYS OF AMERICAN CRIME (Olivier Megaton)
A partire da un fumetto di Rick Remender e Greg Tocchini risalente al 2009, il regista francese Olivier Megaton, allievo di Luc Besson votato al cinema d’azione, imbastisce con The Last Days of American Crime un “gangster movie” dozzinale e irritante, di una vacuità a dir poco siderale e dall’esito sconcertante. Quello che a prima vista potrebbe sembrare un prodotto ipercinetico qualunque, destinato a prendere polvere negli archivi di Netflix e collocato sullo sfondo di un’America coercitiva, è in realtà una presa per i fondelli dello spettatore che sembra assemblata con gli scarti e i liquami del peggior cinema action che l’ha preceduta, in una sorta di perversa astrazione della bruttura a suon di tempi morti e catatonia ottusamente grezza e autolesionista. Non si poteva certo pretendere un’astrazione alla Michael Mann o alla Jean-Pierre Melville, da un cineasta che, nato Fontana, ha cambiato il suo cognome in Megaton perché nato nel ventesimo anniversario del bombardamento di Hiroshima, ma si rimane ugualmente basiti al cospetto di The Last Days of American Crime, ridicolmente pretenzioso fin dal titolo: l’approccio al genere più, che vetusto e sorpassato, è ridicolmente ingessato, i personaggi sono macchiette deambulanti e scarnificate e la recitazione sopra le righe di Michael Pitt, decisamente da iper-uranio del trash, va oltre qualsiasi accanimento e diventa perfino magnetica.
10. D.N.A. - DECISAMENTE NON ADATTI (Lillo e Greg)
I comici Lillo e Greg esordisco alla regia di un lungometraggio (fatta eccezione per una loro precedente regia, Pupazzo criminale, film per la tv) con una commedia sul più classico dei body swap, lo scambio di corpi e identità molto frequente nel cinema americano e riproposto più di recente in Italia con Moglie e marito (2017): l’inversione dei D.N.A., evocata fin dal titolo con un gioco di parole, presta tuttavia il fianco a uno sconfortante e ritrito gioco degli opposti in cui la verve del duo, al secolo Pasquale Petrolo e Claudio Gregori, è davvero ai minimi storici per tempi ed efficacia.
9. THE PROM (Ryan Murphy)
Dall’omonimo musical di Broadway, Ryan Murphy ha tratto un lungometraggio che conferma purtroppo i limiti del regista con prodotti di questa durata. Bravo a gestire la serialità televisiva (è tra i creatori di Glee e American Horror Story), Murphy continua a faticare a trovare lo stesso focus con lavori diversi, come aveva dimostrato nei suoi esordi Correndo con le forbici in mano e Mangia, prega, ama. Bastano pochi minuti per capire The Prom, un film molto cantato, carico di colori, furbizie e sorrisi a buon mercato, che difetta però completamente di profondità e finisce per risultare molto presto vuoto e del tutto insipido. I temi proposti (l’omofobia, in primis) sono importanti, ma ogni spunto di riflessione crolla sotto il peso della retorica e di una stucchevolezza complessiva che non rende mai credibile ciò che viene raccontato.
8. ARTEMIS FOWL (Kenneth Branagh)
Trasposizione cinematografica della saga letteraria di Eoin Colfer, Artemis Fowl di Kenneth Branagh è l’adattamento, estremamente libero (per usare un eufemismo), dei primi due romanzi del ciclo dello scrittore irlandese, ma anche un raro pastrocchio senza alcuna freccia al suo arco. La dimensione mitologica legata all’Irlanda e alle sue creature, presente nel testo in chiave misteriosa, dialettica e addirittura cifrata, si riduce nel film a un coacervo fastidioso di inerte tappezzeria in CGI, peraltro particolarmente scadente, fuori tempo massimo e invecchiata nella forma e nel contenuto: un limite non da poco, per il primo blockbuster distribuito sulla piattaforma in streaming Disney+ (originariamente concepito per la sala), totalmente privo di un’anima specifica e intento quasi esclusivamente a saccheggiare malamente altri prodotti di richiamo fantasy o sci-fi, da Avatar (2009) al ciclo de Le cronache di Narnia, passando ovviamente per Percy Jackson – alla cui rozzezza mitologica è strettamente assimilabile – e per Harry Potter, rispetto al quale Artemis Fowl fu vissuto come strettamente analogo già in sede di genesi letteraria (il primo romanzo fu pubblicato nel 2001, quattro anni dopo la prima edizione de La pietra filosofale).
7. DOLITTLE (Stephen Gaghan)
Nuova versione delle avventure tratte dalle serie di libri pubblicati da Hugh Lofis a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, il film firmato da Stephen Gaghan con protagonista Robert Downey jr. nei panni di John Dolittle, già incarnato in passato da Rex Harrison ed Eddie Murphy, mira a un target spudoratamente infantile ma risulta, sotto il profilo strettamente cinematografico, un fallimento su tutta la linea. Downey jr., dal canto suo, si limita a gigioneggiare a vuoto in maniera pestilenziale e appare clamorosamente fuori parte, ma ad apparire spaventosamente cacofonico e fastidioso è soprattutto il corredo strarnazzante di animali, le cui gag sono puntualmente stiracchiate e inerti e inscritte in un disegno complessivo di stridula stucchevolezza. Non fa meglio la confezione, che, sprovvista di un’anima propria, provvede a saccheggiare e raccattare malamente in giro contrassegni e spunti visivi da altri blockbuster, dalle sequenze navali in stile Pirati dei Caraibi all’inguardabile svolta fantasy della conclusione.
6. IL GIORNO SBAGLIATO (Derrick Borte)
Thriller al volante con protagonista un bolso e indemoniato Russell Crowe, Il giorno sbagliato mette l’attore premio Oscar per Il gladiatore (2000) alla guida di un pick-up nei panni di un uomo rude e violento, del quale ci viene detto pochissimo ma che sappiamo essere in rotta con un mondo che, come dirà lui stesso, l’ha rimasticato e poi risputato senza troppi complimenti. Il film diretto da Derrick Borte, che punta tutto su un gioco del gatto col topo spinto al massimo della perversione e dell’adrenalina, sceglie di appoggiarsi, soprattutto nelle premesse poi mai legittimate, a bordate di sociologia spicciola e populista, tra ansie anti-sistema e considerazioni approssimative che troverebbero posto solo nei più superficiali talk show (e che qui, invece, condiscono interamente il montaggio dei titoli di testa).
5. LE STRADE DEL MALE (Antonio Campos)
Ambientato nel periodo tra la Seconda guerra mondiale e la guerra del Vietnam, Le strade del male del regista statunitense di origini italo-brasiliane Antonio Campos, già dietro la macchina da presa per il discutibile Afterschool e il trascurato Christine con Rebecca Hall, s’immerge negli anfratti della provincia americana più cupa e malsana della metà del XX secolo, intrisa di personaggi dai risvolti morali ambigui e figure di abissale e inconciliabile oscurità. Fin da subito il quadro appare però inutilmente e pretestuosamente sgradevole, oltre che sterilmente programmatico e a tesi: il prologo incentrato sulle due cittadine americane in cui si svolge la vicenda, tratta dal romanzo di Donald Ray Pollock The Devil All the Time (oltre a Knockemstiff anche Coal Creek, in West Virginia), è preso dall’ansia di chiarire allo spettatore tutto e subito piuttosto che delineare una cornice narrativa efficace, con un’esposizione frontale dell’amoralità che si annida dietro questa storia che tende a mettere troppa carne al fuoco senza sviluppare a dovere le singole personalità scomodate.
4. THE NEW MUTANTS (Josh Boone)
Cinecomic dalla travagliatissima storia produttiva, The New Mutants è stato girato nel 2017 ma è uscito infine nelle sale solo tre anni dopo, ad agosto 2020, a seguito di continui rinvii e nell’anno della pandemia da Covid-19. In mezzo ha attraversato mille perizie e pure una fusione della 20th Century Fox che è stata acquistata dalla Disney e inglobata da essa: non stupisce, dunque, che il risultato finale sia a dir poco deficitario sul piano produttivo, raffazzonato e approssimativo oltre che, in più di un’occasione, inerme e raggrinzito. Se riesce difficile ricondurre questi Mutanti all’epica della Marvel e al suo sense of wonder, tanto è il livello di grigiore male in arnese che permea ogni dettaglio, dai più piccoli ai più macroscopici, ancora più difficile è credere ai personaggi come ai componenti di un prequel adolescenziale degli X-Men, così com’era nei fumetti Marvel degli anni ’80.
3. MULAN (Nikki Caro)
Fin dalle prime battute s’insiste sulla natura di figlia di Mulan, ma anche di guerriera della sua terra, lavorando su un’iconografia da blockbuster contemporaneo su larga scala tra interni rifiniti, evoluzioni, oggettistica magica e battaglie purtroppo senza fine. A mancare però, come spesso accade in questo tipo di operazioni pensate a tavolino dagli studios, è una buona dose di magia: tutto è prevedibile e preordinato, tanto nelle premesse quanto nello sviluppo, i personaggi di contorno sono macchiette plastificate e impalpabili e l’occidentalizzazione palese del gusto della messa in scena, imposto in gran parte da dettami produttivi cerchiobottisti, tarpa le ali a una fetta cospicua di sospensione dell’incredulità. A deludere sono tanto la restituzione della celebre valanga quanto le coreografie da wuxiapian, con dalla loro più di una piroetta e un inutile svolazzo di troppo.
2. 365 GIORNI (Barbara Bialowas, Tomasz Mandes)
In scia alla trilogia letteraria delle Cinquanta sfumature di E.L. James, poi trasposta al cinema in una delle saghe erotiche più sconfortanti di sempre, 365 giorni, sorta di remake polacco del ciclo di film con Dakota Johnson e Jamie Dornan, ripropone uno schema narrativo analogo e le medesime dinamiche nel tratteggiare l’incontro (si fa per dire) tra i sessi a partire dal primo romanzo della scrittrice polacca Blanka Lipinska, anch’esso primo capitolo di un trittico. Tra assunti di sconfortante banalità («Le belle donne sono il paradiso degli occhi e l’inferno dell’anima», ma anche il «purgatorio del portafogli») e scene dal presunto erotismo - al contempo lugubre e plastificato, ipocrita e patinato - 365 giorni inanella stereotipi machisti, glorificazioni glamour dello stupro, donne asettiche simili ad autonomi che non vedono l’ora, di punto in bianco e al primo schiocco di dita, di lasciarsi schiavizzare e cannibalizzare dalla challenge estrema del fusto di turno, che per di più è anche un malavitoso. La subalternità del mondo femminile, in questo caso, si spinge perfino oltre le fregole sadomaso e le fantasie di potere delle Cinquanta sfumature, insistendo su sessismo da videoclip e fellatio animalesche con una compiacenza di dubbio gusto: un’oscenità latente che non ha la dignità trasparente e didascalica della performance pornografica, ma ne sfrutta sottobanco l’impatto per veicolare “messaggi” punitivi e mortificanti per l’intelligenza dello spettatore, incasellandoli oltretutto tra innocui fondali da pubblicità lussuosa e valanghe di musica pop spacca-classifiche.
1. THE LAST DAYS OF AMERICAN CRIME (Olivier Megaton)
A partire da un fumetto di Rick Remender e Greg Tocchini risalente al 2009, il regista francese Olivier Megaton, allievo di Luc Besson votato al cinema d’azione, imbastisce con The Last Days of American Crime un “gangster movie” dozzinale e irritante, di una vacuità a dir poco siderale e dall’esito sconcertante. Quello che a prima vista potrebbe sembrare un prodotto ipercinetico qualunque, destinato a prendere polvere negli archivi di Netflix e collocato sullo sfondo di un’America coercitiva, è in realtà una presa per i fondelli dello spettatore che sembra assemblata con gli scarti e i liquami del peggior cinema action che l’ha preceduta, in una sorta di perversa astrazione della bruttura a suon di tempi morti e catatonia ottusamente grezza e autolesionista. Non si poteva certo pretendere un’astrazione alla Michael Mann o alla Jean-Pierre Melville, da un cineasta che, nato Fontana, ha cambiato il suo cognome in Megaton perché nato nel ventesimo anniversario del bombardamento di Hiroshima, ma si rimane ugualmente basiti al cospetto di The Last Days of American Crime, ridicolmente pretenzioso fin dal titolo: l’approccio al genere più, che vetusto e sorpassato, è ridicolmente ingessato, i personaggi sono macchiette deambulanti e scarnificate e la recitazione sopra le righe di Michael Pitt, decisamente da iper-uranio del trash, va oltre qualsiasi accanimento e diventa perfino magnetica.