Indiana Jones: il meraviglioso viaggio tra i generi e le epoche firmato Steven Spielberg
26/06/2023
Fedora in testa. Uno schiocco di frusta. Giacca di pelle. Una nuova mappa che conduce a tesori nascosti da trovare. Harrison Ford. La marcia di John Williams. Riassumendo: Henry Jones Junior, meglio conosciuto come Indiana Jones, sta per tornare nelle sale (dopo essere stato presentato al Festival di Cannes), a 15 anni di distanza dal quarto capitolo, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. Questa volta non ci sarà Steven Spielberg alla regia, bensì James Mangold, che ne raccoglie la pesante eredità portando a curriculum gli ottimi Logan – The Wolverine e Le Mans ’66 – La Grande Sfida.



Avventura. Ecco una delle prime parole che chiunque collegherebbe alla saga, a volte la sola, oltre ad essere la risposta più immediata alla domanda relativa al genere dei film nati dalla mente di George Lucas e che poi hanno visto la luce per la prima volta nel 1981 con I predatori dell’arca perduta. Eppure, a ben osservare, sarebbe una definizione corretta ma riduttiva, in quanto Spielberg, che all’epoca già aveva diretto Duel (1971), Lo squalo (1974) e Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), grazie a questo fil rouge riesce a sperimentare e divertirsi viaggiando attraverso i generi, già presenti o in divenire nella sua filmografia. Di fatto è come se l’avventura fosse il macrogenere, la cornice dentro la quale sviluppare altre suggestioni, a partire dalla prima strepitosa sequenza che presenta al mondo l’archeologo più celebre della storia.

«È il destino dell'archeologo quello di vedere frustrati anni e anni di lavoro e di ricerche»

 
Il logo Paramount in dissolvenza si trasforma in un elemento diegetico (soluzione poi riproposta anche nei capitoli successivi), ossia una cima del Sud America, e il luogo viene esplicitato attraverso la scritta in sovraimpressione, con una data: 1936. Un anno non casuale, in quanto è il periodo in cui la minaccia nazista sta diventando sempre più forte, motivo per cui Adolf Hitler sta cercando l’Arca dell’Alleanza e a Indiana Jones viene chiesto di impedire che la trovi: il filone storico/politico rimane quindi un vero e proprio fil rouge in tutti i film, che passano dallo scontro tra Stati Uniti e Germania nazista nel primo e nel terzo film arrivando alla guerra fredda che vede gli USA contrapposti all’Unione Sovietica, sullo sfondo del quarto capitolo della saga. Tornando alla prima sequenza, se ci si sofferma ad osservare, sono presenti tutti gli elementi classici dell’avventura: un’ambientazione esotica, una mappa del tesoro, una reliquia preziosa da trovare e un climax di tensione sempre crescente,in questo caso amplificato dalle partiture di John Williams. In questi primi minuti Spielberg mette in pratica tutta la lezione imparata dai grandi registi e romanzieri di genere, e in tal senso è una sequenza classica ed efficace, a tutti gli effetti introduttiva anche se si potrebbe dire che l’avventura allo stato puro si esaurisca nei primi 15 minuti di I predatori dell’arca perduta, con quel volo verso l’orizzonte sulle note della Marcia, dopo aver udito l’iconico «Io li odio i rettili, Jock!».

«Io non credo nella magia, sono soltanto un mucchio di stupide superstizioni»

 
I puristi del genere, infatti, hanno faticato a gradire il finale: l’Arca dell’alleanza che con i suoi raggi incenerisce i presenti rientra maggiormente in un versante fantascientifico, che verrà poi ripreso (assieme all’Arca stessa, questa volta in veste di easter egg) nel quarto capitolo, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. Il quarto film, seppur probabilmente il meno riuscito, spinge moltissimo sulla fantascienza, arrivando a mostrare ciò che indubbiamente è stato un elemento chiave della filmografia di Spielberg (oltre che uno degli elementi caratteristici del genere), ossia gli alieni: questa volta, a differenza di E.T. – L’Extraterrestre o Incontri ravvicinati del terzo tipo, non sono creature misteriose con cui provare ad avere un contatto o stringere un’amicizia, quanto quasi delle divinità per cui provare rispetto o timore: la fantascienza, tra l’altro, è molto presente anche nell’ultimo capitolo, che si lega anche al filone storico. Non è l’unico genere secondario presentato nel film, comunque, e la sequenza al bar in cui Indiana Jones incontra quello che poi scoprirà essere suo figlio è significativa: mentre stanno parlando i due si rendono conto che sono spiati da malintenzionati e per fuggire provocano una rissa, che si amplia fino a diventare un vero scontro tra due bande e fazioni che, senza scomodare West Side Story, potrebbe ricordare quantomeno Grease: il periodo storico è lo stesso. E se il musical in questo caso è solo accennato a livello visivo, ben più esplicito lo si trova nell’incipit di Indiana Jones e il tempio maledetto, all’interno di un locale di Shanghai (Club Obi Wan, per gli amanti delle citazioni) in cui si esibiscono delle ballerine in costume tipicamente orientale, con tanto di ventagli enormi: una danza che ben presto fa svanire il confine tra realtà e fantasia, rievocando l’immaginario dei musical classici con Fred Astaire e Ginger Rogers. Non solo, al termine dell’esibizione Spielberg immerge la sequenza in un’atmosfera che sembrerebbe richiamare i film noir: se fosse spuntato Humphrey Bogart con una sigaretta in bocca non si sarebbe stupito nessuno, probabilmente. Da notare come Indy in questa sequenza sia vestito come James Bond: il sogno di Spielberg, infatti, era di realizzare un film con protagonista 007 e, sebbene non ne abbia avuto la possibilità in maniera ufficiale, non si può dire che non abbia provato a portare un po’ di Bond anche nella saga di Indiana Jones: tra questa sequenza e la presenza di Sean Connery, c’è solo da scegliere.

«Non devi mai dimenticarlo: quando l’orizzonte si trova alla base, è interessante. Quando l’orizzonte si trova in cima, è interessante. Quando l’orizzonte si trova i mezzo è una merda noiosa». (The Fabelmans)

 
Il western, grande amore di Steven Spielberg (come esplicitato anche in The Fabelmans, in particolare nella memorabile sequenza con David Lynch nei panni di John Ford) non poteva certo mancare nel percorso tra i generi all’interno della quadrilogia. In tal senso, l’esempio più eclatante è l’incipit di Indiana Jones e l’ultima crociata: ambientato nella Monument Valley, il film si apre con una serie di campi lunghi e panoramiche sulle montagne e sulla terra ardente, seguendo il passo degli uomini a cavallo finché, all’interno di una grotta, il giovane Henry Jones (River Phoenix), rubi una reliquia perché sia riconsegnata al museo. Scoperto, per sfuggire alle persone cui ha sottratto la refurtiva, il giovane fugge a cavallo: è l’inizio di una sequenza di inseguimento che si sposta poi su un treno, nello specifico un treno del circo: una sequenza adrenalinica che serve, oltre ad omaggiare il grande cinema western, a far comprendere da dove arrivi la paura di Indy per i rettili. Indiana Jones e l’ultima crociata, probabilmente il migliore tra tutti i film della saga, può anche essere definito una sorta di origin story (la sequenza inziale), ma anche una pellicola che si concentra sul rapporto padre-figlio, una tematica che per Spielberg è sempre stata delicata e centrale, basti pensare a Prova a prendermi, Hook – Capitan Uncino e all’ultimo, strepitoso, The Fabelmans. Il dottor Henry Jones, con il volto di Sean Connery, deve misurarsi con la ricerca del Sacro Graal, il sogno di una vita, l’ossessione che l’ha allontanato da suo figlio, il calice che Gesù utilizzò durante l’Ultima Cena e che è stato protagnista di tanta epica cavalleresca. L’anima del film, in ogni caso, rimane formtemente legata al western: non bastasse la prima sequenza, l’indimenticabile campo lungo al termine del film è senza dubbio più esplicativo di qualsiasi parola.

Lorenzo Bianchi

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