Lucca Film Festival: Masterclass con William Friedkin
04/04/2016

Si è svolta lunedì 4 aprile, presso il Cinema Centrale di Lucca, la Masterclass con protagonista William Friedkin. Il regista premio Oscar, autore di cult assoluti come L’esorcista e Il braccio violento della legge, ha parlato della sua poetica, del suo approccio alla settima arte, degli autori e delle pellicole che più ne hanno segnato la formazione professionale.


I suoi film si focalizzano sempre sulla perenne lotta tra bene e male, oltre ad essere opere dal profondo taglio realista. Possiamo dire che questa aderenza alla realtà è un marchio di fabbrica riconoscibile del suo cinema?


Io ho sempre cercato di fare film basati sulla realtà perchè sono ciò che so fare meglio. Essere realista e dar vita a racconti realistici è ciò che mi riesce. In realtà io amo un cinema più fantasioso, fatto di sogni. Federico Fellini, ad esempio, è un autore che amo molto, ma non riuscirei mai a dar vita a qualcosa di simile a ciò che ha fatto lui. E’ molto più semplice filmare e riprodurre la realtà così com’è, piuttosto che reinterpretarla in maniera creativa e sorprendente. Guardate la prima sequenza di : io non ho quella immaginazione, quella capacità di mettere in scena un senso di travaglio e disagio e farlo con quella fantasia. Una scena come quella vale dieci inseguimenti de Il braccio violento della legge, ne sono consapevole. Ma io faccio ciò che so fare meglio, anche se un giorno mi piacerebbe realizzare un film bello almeno la metà di un titolo di Fellini. Quello che mi sento di dire ai giovani cineasti, comunque, è di non adagiarsi sul già visto, prendete ispirazione ma non copiate o imitate ciò che è stato già creato: ognuno di voi ha una precisa visione del mondo, seguite quella. Così ho fatto io.


Il suo, ad ogni modo, è da considerarsi un realismo visionario. La realtà che racconta, spesso e volentieri, è filtrata da sequenze oniriche, come ne Il salario della paura o inserti spiazzanti latori di una certa ambiguità, si pensi il finale di Cruising.


L’esorcista l’ho concepito come un documentario ispirato a fatti realmente accaduti. Quando ho fatto il film ho creduto al 100% nella storia che raccontavo e la stessa cosa è vera per Il braccio violento della legge. Cerco di raccontare ciò che conoscono o ho visto accadere, ma sempre con una mia visione personale. Ho fatto documentari per iniziare, anche se avrei preferito fare film in cui dare libero sfogo alla mia immaginazione, perché sono più reali della realtà e riescono a cogliere l’essenza dell’anima umana. Ma anche nei miei film più realistici ho sempre cercato di lasciare un marchio personale, non so se sia visionario o meno, però c’è in tutto quello che ho fatto in questi anni.











Se ne è spesso parlato, a volte in maniera anche un po’ fuorviante, ma qual è il suo rapporto con le nuove tecnologie che permettono di fare e fruire cinema?


Ho letto che io odierei la tecnologia applicata al cinema: non è proprio così. Le nuove tecnologie permettono al regista di sperimentare in maniere impensate: con la CGI un autore può mostrarvi l’interno del Vaticano o portarvi nello spazio profondo. Quando ho iniziato io le possibilità erano decisamente minori e limitate, non usavamo la tecnologia semplicemente perché non ne avevamo accesso, non c’era, al suo posto usavamo i più disparati trucchi. Se oggi fossi un giovane regista che inizia a fare questo lavoro, dovrei inevitabilmente fare i conti con i computer e con progressi tecnici fino a poco tempo fa impensabili: questo è il presente e il futuro del cinema. Ed è proprio per questo che non amo i film contemporanei, trovo che la tecnica ne abbia depotenziato l’anima. Preferisco sempre rivedere i grandi classici. Molti film americani arrivano dai fumetti…Batman, Superman, Stupidman! Ogni generazione ha il suo gusto e il suo genere cinematografico di riferimento, è giusto e lo rispetto: semplicemente le mie preferenze si rivolgono altrove. Preferisco i film artigianali e continuo a ritenere il cinema la forma d’arte più collaborativa tra tutte. Anche se il regista è quello che prende meriti e critiche, a lavorare a ciascun progetto ci sono centinaia di persone e tutte sono uguali nella stessa misura. Il regista è il capitano di una nave, ma una nave senza equipaggio non va da nessuna parte.


In effetti, ha lavorato utilizzando forme espressive per lei inedite come il digitale, nei suoi ultimi due film. Quindi riconosce l’importanza delle nuove tecnologie nel processo creativo e non le rifiuta a priori.


Assolutamente. Il digitale è un perfetto esempio di tecnica funzionale alla creazione cinematografica. Bug e Killer Joe sono stati girati in digitale e credo proprio che ormai sia quella la strada da intraprendere, mentre la pellicola in 35 mm è ormai un sistema obsoleto. Provate a immaginare di ascoltare Puccini su un vecchio grammofono e poi di ascoltarlo con un impianto audio del giorno d’oggi? Due mondi diversi. Così come vedere un film in pellicola e in digitale. Chi difende, senza se e senza ma, la pellicola ha le sue ragione, ma mi sembra una persona che preferirebbe andare in giro con una carrozza o a cavallo piuttosto che in auto o in bici. Una persona che vive fuori dal tempo, insomma. Il digitale non è il futuro: è il presente. Ma come ho detto, ne apprezzo la funzionalità estetica, meno altre sue implicazioni: pensare che qualcuno possa guardare un film su Iphone o Ipad o sullo schermo di un computer mi irrita. Qualsiasi film ha il diritto di essere visto al cinema: tutti i film sono fatti per essere visti su grande schermo.


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Killer Joe – 2011


Ha parlato dei grandi classici che ama rivedere e di Federico Fellini come uno dei suoi punti di riferimento. Sappiamo che un altro autore che lei ama particolarmente è Buster Keaton.


Un genio! Buster Keaton è stato uno dei più grandi di sempre ed è riuscito a usare il cinema in maniera creativa, sempre sorprendente e entusiasmante. Ci sono scene di inseguimento nei film di Keaton, per esempio, che fanno sembrare quelle che ho girato per Il braccio violento della legge o Vivere e morire a Los Angeles cose da dilettanti. La mia fortuna è stata quella di aver visto i lavori di Keaton dopo aver girato questi due film, altrimenti non mi sarei mai permesso di mettermi sullo stesso piano di un talento tanto straordinario. Prima di Keaton non ho mai visto nulla che mi abbia emozionato e al contempo intimidito come i suoi lavori e forse è per questo che ho deciso di fare cinema. Non avevo un modello verso cui avere timore reverenziale.


I suoi film si distinguono sempre per un uso spiazzante della colonna sonora, sia che si tratti di partiture scritte ex novo che di materiale di repertorio. Come sceglie di usare le musiche nei suoi lavori?


La creazione del film e l’ideazione della colonna sonora sono due processi che rimangono completamente separati. Non voglio dire al pubblico come sentirsi attraverso l’uso della musica, è una cosa che non mi interessa. Io provo a creare un contrasto tra ciò che il film racconta e la colonna sonora che accompagna la narrazione. Prendete Cruising: è un film notturno, dall’atmosfera malsana e violenta, e ho usato in colonna sonora un quartetto d’archi di Boccherini. Ne L’esorcista ci sono pezzi di musica classica che amplificano il senso di disagio e straniamento dell’intera situazione, ma ci sono anche perché secondo me funzionano bene e si sposano adeguatamente alle immagini. Ne Il salario della paura ho usato i Tangerine Dream per via del loro sound innovativo che mi sembrava perfetto per una storia tanto insolita come quella del film.


Uno dei titoli più controversi della sua filmografia è Assassino senza colpa?, distribuito anni dopo essere stato girato. Si è mai pentito di avere cambiato il finale di quel film e, di fatto, il suo messaggio?


No, perché tra questo film e il mio primo lavoro, The People vs. Paul Crump, erano trascorsi trent’anni. Il mio primo film era un documentario contro la pena di morte: ciò che mi aveva attirato in quella storia era l’idea che la pena di morte fosse immorale. Nel corso degli anni il mio atteggiamento contro la pena di morte è radicalmente cambiato: gli omicidi dei fratelli Kennedy, di Martin Luther King, di John Lennon, i delitti della famiglia Manson e tutta una serie di stragi in tutto il mondo mi hanno portato alla conclusione che tali atti sono così abietti che non c’è ragione per tenere in vita gli assassini. Non sono fiero di questa mia posizione, ma è ciò che penso e per questo ho cambiato il finale di Assassino senza colpa? e non me ne dispiaccio.


La sua carriera è iniziata come documentarista: uno dei suoi lavori più interessanti e meno visti è l’intervista a Fritz Lang: può parlarcene?


A fine anni ’70 chiamai la Director’s Guild Award quando scoprii che Fritz Lang viveva ormai da tempo a Los Angeles: volevo concordare una intervista con lui, ma il primo impatto fu traumatico. «Signor Friedkin, io non so chi lei sia ma non voglio che mi intervisti, non ho niente da dirle», mi rispose il grande autore tedesco quando lo contattai al telefono per la prima volta. Qualche giorno dopo fu lo stesso Lang a richiamarmi e a invitarmi a casa sua: avremmo girato una videointervista per cinque giorni, un’ora al giorno con due macchine da presa e libertà assoluta sugli argomenti da trattare. Fui soddisfatto di quell’incontro, ma con il girato non sapevo che fare, così decisi di custodirmelo nel garage. Molti anni dopo, il Torino Film Festival volle onorarmi con un premio e mi chiese di recuperare il girato di quell’intervista per dar vita a un film vero e proprio. Il risultato mi pare oggi molto soddisfacente. Uno dei passaggi che più amo è quello in cui Lang racconta del suo rapporto con il terzo Reich: i suoi film dedicati al dottor Mabuse erano chiaramente delle feroci satire contro Hitler. Un giorno Lang venne convocato da Goebbels che gli propose, con sua grande sorpresa, di diventare il regista di riferimento per la propaganda nazista. Lang pensava che fosse un tranello e che il Reich stesse progettando di farlo fuori e per sondare il terreno si lascio andare a una confessione: «Signor ministro, lei deve sapere che mia madre è ebrea». Goebbels lo guardò sorridente e disse: «Signor Lang, qui decidiamo noi chi è ebreo e chi no». Lang si alzò dicendo che avrebbe pensato alla proposta avanzata dal Reich, ma quella stessa sera fuggì dalla Germania.


Tra i temi ricorrenti della sua filmografia c’è sicuramente il contrasto tra luce e ombra, tra bene e male. Perché si tratta di un tema così importante per lei?


Perché mi interessa raccontare la natura umana e la natura umana, in ciascuno di noi, è fatta di bene e male. Non esistono eccezioni: il buio e la luce sono due parti di noi stessi in continua lotta tra loro ed è proprio questo scontro costanze tra due pulsioni contrastanti che mi affascina. Senza il male non può esserci il bene e viceversa: a volte ha la meglio un aspetto, alle volte un altro, ma è questo conflitto che ci rende imperfetti, indecifrabili, ambigui e quindi umani.


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