Mostra di Venezia: 10 Leoni d'Oro da dimenticare
23/08/2016

In attesa di conoscere chi sarà il film a trionfare il prossimo 10 settembre, andiamo a ripercorrere la storia della Mostra di Venezia attraverso i Leoni d’Oro più discutibili assegnati nelle precedenti 72 edizioni del festival più antico del mondo.

Dieci titoli che hanno vinto lasciando dietro di sé polemiche, recriminazioni e dubbi sulle scelte delle varie giurie, scrivendo il proprio nome nelle pagine della storia della kermesse cinematografica ma per le ragioni sbagliate.

Ecco a voi, dunque, dieci Leoni d’Oro da dimenticare:

10) Somewhere (2010)

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Contestatissimo Leone d’Oro di un’edizione che aveva regalato pellicole come Ballata dell’odio e dell’amore o Essential Killing, il film di Sofia Coppola vinse abbastanza a sorpresa, tanto da scatenare reazioni indignate di giornalisti e critici italiani che inveirono contro il presidente di giuria, Quentin Tarantino, reo di aver premiato la sua ex fidanzata. Di fatto, Somewhere è un prodotto discontinuo, interessante ma anche piuttosto autoreferenziale: non una condanna del divismo con tutti gli eccessi che comporta o una scontata autoanalisi ricerca del tempo perduto, bensì un ritratto umanissimo così rarefatto da sembrare, a un primo grado di lettura, inconsistente. Profondamente superficiale? No. Superficialmente profondo? Forse. Ad ogni premio decisamente generoso.

9) Michael Collins (1996)

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Ricostruzione biografica di una delle figure storiche più importanti della storia dell’autonomia irlandese e della relativa guerra d’indipendenza (1919-1921), diretta con piglio deciso ma senza particolari guizzi da Neil Jordan. Il film è interamente retto dalle vigorose spalle di Liam Neeson che restituisce a Collins vitalità e carisma. Un tradizionale film storico vecchio-stile senza lacune evidenti, ma che non riesce a superare la dimensione del compitino onesto e ben fatto. Meritatissimo premio a Neeson, ma decisamente generoso il Leone d’Oro al miglior film assegnato dalla giuria presieduta da Roman Polanski. Lo splendido Fratelli di Abel Ferrara, ben più meritevole, dovette accontentarsi di una insolita Coppa Volpi per il miglior non protagonista andata a Chris Penn.

8) Lussuria – Seduzione e tradimento (2007)

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A due anni dalla tormentata omosessualità raccontata ne I segreti di Brokeback Mountain, Ang Lee conquista un secondo Leone d’Oro. In un affresco di ampio respiro, sfarzoso e accuratissimo nei dettagli (la fonte è l’omonimo romanzo di Eileen Chang), Lee instilla un racconto di iniziazione sessuale ad alto tasso di erotismo, dove gli amplessi non sono solo funzionali alla storia ma il punto focale di un ritratto delle passioni umane. Il perfezionismo formale deraglia però spesso nel manierismo, rischiando talvolta di gelare persino il fuoco del desiderio che pure sta alla base del film. Penalizzate nel palmares finale pellicole come Redacted di Brian De Palma, Cous Cous di Abdellatif Kechiche e Io non sono qui di Todd Haynes.

7) Sacro GRA (2013)

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In un’annata caratterizzata da un ricchissimo fuori concorso (con punta di diamante Gravity, futuro vincitore di 7 premi Oscar) e una competizione sottotono, Gianfranco Rosi riporta il Leone d’Oro in Italia dopo ben quindici anni di digiuno. Il regista tenta di restituire la sacralità di un non luogo quale il Raccordo Anulare romano attraverso un mosaico di vite improbabili e nascoste, che alimentano lo sfondo del silenzio e della penombra; l’approccio stilistico, che prova a (ri)dare vitalità al genere con una cura più cinematografica e meno spontanea, è apprezzabile, ma emerge come ostacolo alle ambizioni di base. A tratti profondo, ma troppo studiato a tavolino. Contestazioni alla giuria presieduta da Bernardo Bertolucci (e non sarà la prima volta…).

6) Giulietta e Romeo (1954)

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Leone d’oro nell’anno in cui vennero presentati Senso di Luchino Visconti e La Strada di Federico Fellini. Troppa grazia! Renato Castellani lavora con lo scopo di ricreare un set il più preciso e accurato possibile, ma sarà proprio questa tendenza a distoglierlo da uno sguardo d’insieme che possa garantire un adattamento che non tradisca il testo di origine. È una pellicola carente sul piano dei contenuti e imperdonabilmente blanda a livello emotivo, a cui non giova lo spirito da produzione internazionale (che intendeva adornare il lavoro con la lingua inglese d’appartenenza). Interessante lo studio figurativo (Castellani si rivolge all’arte italiana del Quattrocento), ma ciò non basta a salvare le sorti di un’operazione meramente decorativa.

5) Artisti sotto la tenda del circo: perplessi (1968)

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Ultimo film premiato alla Mostra di Venezia prima degli anni della contestazione che portarono il festival a diventare non competitivo per oltre un decennio. La pellicola di Alexander Kluge è tutta giocata sul rapporto tra realtà e finzione. Lo stile semi-documentaristico adottato dal regista tedesco dà vita a una sorta di esempio di “cinema-verità”, che tocca anche il mockumentary tramite una serie di finte interviste. Il regista utilizza materiale eterogeneo, di repertorio e non, per firmare un lungometraggio contorto, volutamente ambiguo e intellettualoide a tutti i costi. Le riflessioni messe in campo non sono banali, ma il ritmo latita e l’intero giochino ha le gambe corte. Manca (almeno) una vera sequenza degna di nota, e il risultato scade nella prolissità.

4) Ti guardo (2015)

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L’ultima edizione della Mostra di Venezia viene vinta dall’opera prima del regista venezuelano Lorenzo Vigas. Un risultato sorprendente e decisamente contestabile in un’annata capace di regalare opere come Francofonia, Behemoth o 11 minutes rimaste clamorosamente a bocca asciutta. Dramma di indubbio impatto narrativo, capace di trascinare lo spettatore in un mondo di degrado e povertà con uno stile austero e trattenuto. Seppur forte di una messinscena rigorosa e sorprendentemente controllata e matura per essere un’opera prima, il film perde freschezza col passare dei minuti, afflosciandosi in una seconda parte didascalica e meno emozionante ed efficace della prima. Resta un prodotto incisivo e non banale, ma un pizzico di coraggio in più gli avrebbe fatto bene.

3) Urga – Territorio d’amore (1991)

urga

Premiato dal presidente di giuria, Gian Luigi Rondi, noto storico e critico cinematografico nonché direttore della Mostra per diversi anni, il film di Nikita Mikhalkov racconta l’incontro tra due culture diverse, in cui l’inospitale paesaggio mongolo è ben più di un semplice sfondo su cui si snocciola la vicenda. Il tema del sesso è uno degli elementi principali di una pellicola il cui protagonista non può sfogare i propri istinti con la moglie perché hanno già avuto tre figli e il quarto sarebbe contro la legge. Il regista mette bene a punto le basi per una pellicola curiosa e originale, ma col passare dei minuti finisce per perdersi in un copione grossolano e retorico, dove alcune sequenze (il finale, compreso) risultano persino di cattivo gusto.

2) Prènom Carmen (1983)

Prenom-Carmen

Nel 2013, Bernardo Bertolucci assegnò un Leone d’Oro a dir poco discutibile, come abbiamo visto a Sacro Gra, ma il regista parmense fece parlare di sè già trent’anni prima, quando fu chiamato a presiedere la giuria dell’edizione numero 40 della Mostra di Venezia. A vincere fu uno dei Maestri della Nouvelle Vague (e dello stesso Bertolucci), Jean-Luc Godard ma con uno dei suoi film minori. Un lungometraggio fortemente autocompiaciuto, volutamente ostico e inaccessibile, che annoia più che affascinare. La sensazione è quella di un’evidente arroganza di fondo da parte di un (grandissimo) autore che, come spesso è avvenuto nei lungometraggi del periodo, si limiti a lanciare tanti stimoli sensoriali finendo poi per abbandonarli a loro stessi. Fischi e polemiche a non finire.

1) Monsoon Wedding – Matrimonio indiano (2001)

Monsoon-Wedding

Uno dei trionfi più inspiegabili nella storia ultra settantennale della Mostra di Venezia. Una commedia convenzionale firmata da Mira Nair e amata fin troppo da Nanni Moretti, presidente di Giuria di quell’edizione, tanto da assegnarle il premio per il miglior film. Tra Hollywood e Bollywood, il risultato mischia elementi divertenti e con qualche picco drammatico e mette a confronto due mondi distinti, il vecchio e il nuovo. Emerge così un prodotto di piacevole intrattenimento, in cui le vicende narrate non si distinguono comunque per originalità, né i personaggi per un particolare approfondimento: il risultato, in fondo, è convenzionale ed estremamente furbetto, con un evidente meccanicismo che denuncia l’intento studiato alla base dell’operazione.

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