Oliver Stone è arrivato alla Festa del Cinema di Roma per presentare il suo Snowden, che lo riporta in auge dopo molti anni all’insegna di progetti deludenti e spesso sottotono. Nel suo film dedicato al membro dissidente della NSA (National Security Agency), diventato uno degli uomini chiave della contemporaneità, tra chi lo considera tuttora un fuorilegge e chi un eroe nazionale, Stone alza il tiro e interroga con la sua consueta veemenza retorica le contraddizioni dell’America di oggi. La sua presenza a Roma, nell’Incontro Ravvicinato col direttore artistico della Festa Antonio Monda e il selezionatore Richard Peña, ha fornito però soprattutto l’occasione di ripercorrere le tappe più significative della carriera del regista americano, per mezzo delle sue stesse parole.
Mr. Stone, Edward Snowden ha visto il suo film? Come ha reagito?
Ed è stato utilissimo, ci ha dato moltissime informazioni tecniche su come funziona l’NSA. Temevo che degli hacker scoprissero la sceneggiatura, il film poteva essere vulnerabile e uscire di nascosto, il che sarebbe stato sicuramente un danno. Abbiamo solo due ore per raccontare una storia incredibile che si svolge nell’arco di nove anni, per cui l’apporto di Snowden è stato davvero fondamentale.
Il presidente uscente Barack Obama nel suo film non fa una splendida figura.
Abbiamo semplicemente riportato ciò che Obama ha effettivamente detto in quelle circostanze, non c’è il rischio di essere tacciati di essere stati di parte. Non lo accusiamo di nulla, ma lui doveva portare avanti una riforma e invece sappiamo tutti quello che è successo. Doveva cambiare delle cose e semplicemente non lo ha fato
Nella disillusione di Snowden, che era un marines ed era intenzionato a servire la patria, ha ritrovato una disillusione sua personale?
Io, come Snowden, sono cresciuto come un conservatore, sono rimasto letteralmente scioccato dal Vietnam ma ero troppo giovane e non sono riuscire a metabolizzare. Da ciò sono partito per approfondire le mie conoscenze sulla storia americana, che sono confluite nella mia serie di documentari The Untold History of the United States, nella quale i fatti sono stati incontrollati più e più volte e sono a prova di bomba. Per quanto riguarda Snowden, la sua ragazza è stata fondamentale per non fargli perdere l’anima ed è una storia di cui i giornalisti si sono occupati tutto sommato poco. Per me è un film kafkiano: il film parla di un sistema che provoca un tale ottundimento che si finisce per fare delle cose illegali senza rendersene conto. L’epilessia di Snowden è connessa a una morte interiore che emerge. Tornando ai punti di contatto, lui è favorevole alla sorveglianza mirata dei terroristi, e lo sono anch’io. Ma perché questi meccanismi devono degenerare nella sorveglianza di massa? Non ha alcun senso.
Come ha vissuto gli inizi della sua carriera?
Negli anni ’80 il cinema era reaganiano, i miei film a volte sono stati respinti perché troppo veritieri, Platoon fu rifiutato per dieci anni e poi prodotto in maniera indipendente, non a caso. Wall Street ebbe effettivamente una grossa produzione alle spalle, ma io essenzialmente ho sempre lavorato da esterno, al di fuori del sistema.
Ripensando alla sequenza celeberrima del discorso di Gordon Gekko in Wall Street, così d’impatto e declamatorio, sulla decadenza dell’America, oggi c’è un candidato presidenziale che dice di voler fare l’America grande di nuovo. Trova che il suo film fosse profetico, anche per contrasto, rispetto all’America di oggi?
All’epoca si usava ogni inganno e menzogna per ottenere dei risultati. E’ uno schema che non è cambiato e che negli anni si è solo riproposto e potenziato.

Che ricordo conserva del suo film dedicato a Kennedy, JFK – Un caso ancora aperto?
La sceneggiatura la presentai agli Studios più semplice di come poi girai alcune parti perché con certe architetture verbali di determinate scene non sarebbe sicuramente passata. E’ un film paragonabile a un Rashomon, abbiamo mille prospettive di uno stesso evento ed è impossibile distinguerle. L’ho difeso per sei mesi dopo averlo girato, perché i media in America sono molto allineati con l’opinione dominante. Hanno raccontato questo film come una follia. Anche con Salvador e Platoon avevo dovuto battermi ma questo film richiese una lotta ben maggiore. Che Kennedy sia stato ucciso da un solo uomo è una tale stupidaggine che non mi capacito di come qualche americano possa ancora bersela, accettare una simile ridicolaggine vuol dire essere risposti ad accettare tutto. Ma d’altronde, per tornare a Snowden, siamo disposti ad accettare la sorveglianza di massa…Non c’è da meravigliarsi.
Quanto è rimasto affascinato da Richard Nixon girando Gli intrighi del potere? Nel film è ravvisabile una certa empatia per il personaggio da parte sua, detta senza mezzi termini.
Lui è una figura unica, ha sempre pensato che Kennedy avesse avuto una vita più soddisfacente della sua…Sì, ci ho messo dell’empatia, non condividevo nulla delle politiche di Nixon, che furono un vero disastro, ma credo anche che fosse un uomo fragile: i suoi fratelli sono morti giovani, ha avuto una vita tremendamente dura, la sua sofferenza fu reale anche se ha guidato malissimo gli Stati Uniti. Il miglior discorso che abbia mai fatto fu quello delle sue dimissioni, il più potente e vigoroso. Oggi sarebbe considerato un democratico, un liberale. Nell’America di oggi Trump è il cattivo e ciò sta bene a tutti, ma Hillary Clinton se sarà eletta probabilmente si impegnerà in un’altra guerra. Va bene così, perché questa è l’America di oggi. Siamo e dobbiamo essere competitivi in tutto, tv, cinema, capitalismo, scuole. Io però ho una parte europea e francese dentro di me, più morbida, dolce e pacifista, un atteggiamento che in America si è completamente perso. Non è detto che si debba pensare sempre e solo al potere, pensare alla pace non è reato. Sanders ci ha provato, ma non molto e non per molto, la signora Clinton invece vuole più coinvolgimento sul fronte bellico. Dov’è il partito della Pace negli Stati Uniti d’America, dov’è finito? Praticamente è stato bandito.
Che ha rapporto ha, oggi, col suo film Nato il Quattro Luglio?
Nei miei incubi sono in quella scena, che mi mette ancora i brividi, del discorso di Ron Kovic. Sono lì a urlare, tutti mi odiano e ce l’hanno con me. Era l’89 e adesso e il 2016, ma succede, risuccede e continua a succedere. Non finirà mai. L’anima di quel film fu Tom Cruise, che aveva appena lavorato a Top Gun: un film fatto molto bene, ma letteralmente disastroso sul versante del messaggio. Sostanzialmente si trattava di un omaggio ai militari americani di un’ode alla Terza Guerra Mondiale. Cruise con me un attore molto disciplinato, allora era disposto a lavorare per quasi nulla e infatti lavoro per una cifra irrisoria, anche se per la Universal che l’aveva prodotto il film andò bene e va bene tutt’ora: un vero professionista. Si è impegnato molto, ha studiato il personaggio, si è interessato a Kovic e l’ha approfondito davvero scrupolosamente, è andato anche in strada su una sedia a rotelle all’epoca. Tom è un attore che quando si impegna è portentoso e riesce bene.
Come lavora Oliver Stone coi suoi attori?
Mi piace molto il metodo Clint Eastwood, ma non è il mio, non a caso io e lui siamo molto diversi. Io sono più reattivo in relazione agli attori, alcuni sono dei veri bastian contrari e infatti ne ho anche cacciato qualcuno, mentre con altri è andata meglio. Mai sottovalutare, in ogni caso, l’elasticità della personalità umana.
A proposito dell’uso delle musiche nei suoi film, che è sempre preminente, come mai ha voluto utilizzare proprio l’Adagio di Barber per la scena delle carneficina in Platoon?
E’ stata una scelta dettata dalle finalità espressive, avendo combattuto io in prima persona ed essendo un reduce so benissimo che si tratta della scena più irrealistica del film. Non a caso è la scena che mi viene citata più spesso. A Platoon lavorò come compositore Georges Delerue che me la consigliò in sala di montaggio, era il musicista assegnato al progetto e aveva lavorato con me anche in Salvador. Una persona davvero straordinaria, oltre che un grande artista.
In chiusura le abbiamo chiesto di scegliere due titoli che le stanno molto a cuore, con due paletti: nel primo caso doveva trattarsi di un film che secondo lei spiegasse molto bene la politica americana e nel secondo di un film italiano. Quali sono i film che Oliver Stone ha scelto per la Festa di Roma?
Il primo è Sette giorni a Maggio di John Frankenheimer, fondamentale per comprendere il rapporto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Il secondo è Novecento di Bertolucci, un film che non so se tutti abbiano capito davvero, è un’opera enorme per il valore della musica, della regia, di tutte le sue componenti. La storia di questi due ragazzi, uno aderente al fascismo e l’altro al comunismo, nell’Italia fascista degli anni ’20 e poi ’30 e ’40, è una vicenda epica fin nel midollo. Quello che il cinema, per me, dovrebbe essere sempre.
