Tra sogno e realtà: il ricordo di Satoshi Kon a 10 anni dalla sua prematura scomparsa
15/08/2020
«Sai Chiyoko, in qualche modo un regista è simile a un pittore: lui mette sulla tela i suoi colori, e io metto sulla pellicola i miei». 

24 agosto 2010: sono passati 10 anni dalla prematura scomparsa di Satoshi Kon, uno dei più grandi autori della storia del cinema d’animazione nipponico, che ci ha lasciati a soli 39 anni. Quando esordisce sul grande schermo con Perfect Blue (1997), il cinema d’animazione nipponico era ormai guidato dal faro chiamato Studio Ghibli, con i maestri Hayao Miyazaki e Isao Takahata come modelli ritenuti inarrivabili, mentre Mamoru Oshii aveva firmato due anni prima un capolavoro cyberpunk come Ghost in the Shell.
 

«Ascolta, lo sai perché riesci a capire che tu in questo momento sei la stessa persona di un secondo prima? Perché c’è la continuità della memoria: è l’unica cosa che ci permette di costruire l’illusione di avere una personalità unica e coerente».

Tuttavia, Perfect Blue sembrava aver portato qualcosa di veramente nuovo e rivoluzionario, che prendesse l’animazione totalmente come mezzo espressivo per raccontare storie complesse, stratificate, e soprattutto esclusivamente per un pubblico adulto, lontano dalle atmosfere sognanti e fiabesche firmate Ghibli o dalle logiche fantascientifiche tipiche dei manga e di pellicole come Akira (1988) o il già citato Ghost in the Shell. Un rischio enorme, per un talento enorme, che infatti ha successo: Kon dà vita ad un thriller psicologico intenso, che a tratti sembra provenire dalla mente visionaria di David Lynch. Ed è solo l’inizio.



«Lei non crede che i sogni e internet siano abbastanza simili? Sono luoghi in cui si esprimono desideri repressi».

 
La poetica di Satoshi Kon si conferma con la seconda opera, Millennium Actress, del 2001: lo sguardo cinico e disilluso verso il mondo dello spettacolo e del cinema è solo il primo elemento significativo, unito alla psiche turbata dei protagonisti che ne fanno parte. Un’opera che avrà eco nel 2006, quando Paprika – Sognando un sogno, riporta lo spettatore nel mondo onirico, in una trama che indubbiamente ha ispirato Christopher Nolan nella scrittura di Inception: anche in questo caso la vacuità dello star system è messa sotto accusa, in un gioco metà-cinematografico forse confusionario, ma dall’indubbio impatto estetico.

«La vita è una cosa troppo importante, noi veniamo al mondo solamente una volta».

 
Elemento atipico nella sua (purtroppo) breve filmografia è Tokyo Godfathers (2003), probabilmente il suo film più celebre. Una favola natalizia molto particolare, che ha per protagonisti tre senzatetto malinconici (Hana, un travestito, Miyuki, scappata di casa, e Gin, ex-ciclista alcolizzato) che il giorno della vigilia di Natale trovano un neonato in un cassonetto e decidono di andare alla ricerca dei suoi genitori. Atmosfere più leggere delle opere precedenti e successive, ma senza tradire lo stile e la poetica che han caratterizzato il regista sin dagli esordi: ai flashback e alle sequenze oniriche si aggiungono parentesi comiche, raggiungendo così un risultato eccellente.

 
Non va infine dimenticata la potentissima serie tv in 13 episodi Paranoia Agent (2004), capace di parlare con grande spessore dei vizi, delle virtù, delle ossessioni e delle paure del popolo giapponese contemporaneo. Una vera e propria esperienza audiovisiva che unisce tragedia e grottesco con un equilibrio a dir poco invidiabile.



Ciò che resta, a distanza di 10 anni, è un senso di gratitudine per quanto portato all’animazione e il rimpianto per quanto ancora Satoshi Kon avrebbe potuto donare.

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