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10 film d'autore sul razzismo, da Sirk a Fassbinder passando per Agnès Varda
Nei giorni scorsi vi avevamo proposto venti film americani sul tema del razzismo, che trovate qui. Nella giornata di oggi allarghiamo ulteriormente lo sguardo a 10 lungometraggi, spesso firmati da autori importanti, che hanno affrontato l'argomento in maniera frontale. 

1. SECONDO AMORE di Douglas Sirk (1955)

Vedova benestante e madre irreprensibile, la morigerata Cary (Jane Wyman) si innamora del bel giardiniere Ron (Rock Hudson) di dieci anni più giovane di lei, assunto dal marito della donna quando ancora era in vita. Non sarà facile per Cary superare le vili e spregevoli civetterie del vicinato e l'ottusa opposizione dei figli Kay (Gloria Talbott) e Ted (William Reynolds) alla passionale relazione. Esemplare quadro delle pulsioni represse e della radicata ipocrisia che si cela dietro al perbenismo di facciata della upper-class americana, vittima di pregiudizi e retaggi culturali antiquati, tenuti in vita al solo scopo di conservare uno status di (presunta) rispettabilità all'insegna di una effimera omologazione. Una società chiusa nella propria torre d'avorio squarciata da una delle storie d'amore più iconiche di sempre, cuore pulsante di un melodramma stratificato e ricco di preziose sfaccettature, messo in scena da Sirk con un raffinato distacco che esclude ogni eccesso di gratuito sentimentalismo. 



2. LA PARETE DI FANGO di Stanley Kramer (1958)

Due fuggitivi, un bianco (Tony Curtis) e un uomo di colore (Sidney Poitier), sono incatenati l'uno all'altro e non riescono a liberarsi: impareranno così a conoscersi e ad aiutarsi per poter sopravvivere. Classico film antirazzista a stelle e strisce, La parete di fango racconta la storia di un'amicizia virile, in cui il trovarsi nella medesima situazione vale più di qualsiasi differenza di colore della pelle. Fotografato dallo splendido bianco e nero di Sam Leavitt (che un anno dopo curerà la luce e le immagini di Anatomia di un omicidio di Otto Preminger).



3. I DANNATI E GLI EROI di John Ford (1960)

Il sergente nero Braxton Rutledge (Woody Stroode) è accusato di stupro e omicidio. Si occupa della sua difesa il tenente Cantrell (Jeffrey Hunter): durante il processo, i racconti dei testimoni permettono di ricostruire la vicenda e far luce sulla verità. John Ford torna a raccontare il mondo della Cavalleria statunitense in un film che spicca per la sua anomala commistione tra generi: il western si contamina con il thriller procedurale associando così le dinamiche dell'epica americana con i meccanismi della suspense, mentre l'uso del flashback, così poco utilizzato nel cinema di frontiera, diventa qui espediente narrativo centrale. Il tema razziale vi svolge un ruolo fondamentale: è forse la prima volta che un affermato regista di Hollywood, raccontando le gesta dei celebri buffalo soldiers (reparti costituiti esclusivamente da soldati neri), trasforma un uomo di colore in un eroe americano. 



4. BLACK PANTHERS di Agnès Varda (1968)

«Black is Honest and Beautiful»si apriva così il documentario che Agnès Varda, nel 1968, ha dedicato al movimento politico e rivoluzionario delle Pantere Nere (lo trovate nella pagina allegata qui alto in corrispondenza del titolo, in versione integrale). In quel periodo la grande regista belga naturalizzata francese viveva a Los Angels col marito Jacques Demy e il mediometraggio da lei girato in quell'anno, in prima persona e nel cuore delle proteste di Oakland, è un documento di straordinaria forza. In quei mesi Huey P. Newton, fondatore del Black Panther Party, viene accusato a torto di aver ucciso un poliziotto e le proteste a suo favore dilagano per le strade. 
    


5. LA PAURA MANGIA L'ANIMA di Rainer Werner Fassbinder (1974) 

Emmi (Brigitte Mira) è una donna delle pulizie non più giovanissima. Una sera si ritrova in un bar e viene corteggiata da un immigrato di colore, Alì (El Hedi Ben Salem), che la porta a letto e poi le chiede di sposarlo. Per Emmi si aprono degli orizzonti di libertà e soddisfacimento sentimentali ormai insperati. Una sorta di reinterpretazione libera di Secondo amore (1955) di Douglas Sirk: come in quel caso, l'amore di una signora bianca, decisamente per bene e con famiglia, nei confronti di un "diverso", è la chiave d'accesso per una riflessione sulle strutture e le convenzioni sociali, che viene dipanata attraverso il tema dell'ipocrisia, atteggiamento che causa l'imperfezione dei rapporti umani. 



6. CANE BIANCO di Samuel Fuller (1982)

Dal romanzo Chien Blanc del francese Romain Gary, Samuel Fuller scrive in coppia con Curtis Hanson (futuro regista di L.A. Confidential del 1997) e dirige questa dura allegoria del razzismo come male endemico della società americana. Thriller tesissimo e crudele, con una costruzione della suspense che ricorda vagamente il cinema di De Palma, fu censurato da Paramount Pictures che bloccò la distribuzione delle sale optando per un passaggio sui canali via cavo. Il motivo? Il film, ironia della sorte, fu accusato di istigazione all'odio razziale, nonostante l'intento fosse chiaramente opposto.



7. COBRA VERDE di Werner Herzog (1987)

Sud America, fine dell'800. Il bandito Manoel da Silva, detto “Cobra Verde” (Klaus Kinski), dopo aver ingravidato tutte le figlie di Don Coutinho, il latifondista che gli dà lavoro, viene spedito in missione suicida in Africa, dove deve cercare di riaprire il traffico di schiavi. A sorpresa, riuscirà nell'impresa, ma non senza conseguenze. Liberamente tratto da Il Viceré di Ouidah di Bruce Chatwin, Cobra Verde è l'ultimo, e probabilmente il meno ispirato, capitolo della lunga e sofferta collaborazione cinematografica tra Werner Herzog e Klaus Kinski. Insolitamente spettacolare e pieno di azione, eccessivo, esagitato, enfatico e spesso sopra le righe, è l'ennesima storia herzoghiana della follia di un singolo e della sua sconfitta sullo sfondo della Storia. Nonostante un senso generale di saturazione dello stile, il film regala, nel famoso e splendido finale sulla spiaggia, una sequenza che potrebbe, da sola, riassumere tutto il cinema (e la vita) di Herzog e di Kinski.



8. MISSISSIPPI BURNING di Alan Parker (1988)

Contea di Jessup, Mississippi, 1964. Tre giovani attivisti per i diritti civili e una ragazzo di colore spariscono nel nulla. Sul posto arrivano due agenti dell'FBI, il giovane e ligio al dovere Ward (Willem Defoe) e l'anziano e originario del luogo Anderson (Gene Hackman), i quali non impiegano molto a capire che i quattro sono stati vittima di una violenta cellula del Ku Klux Klan formata da molti elementi in vista della zona. Le indagini saranno ostacolate dall'omertà e dal razzismo della comunità bianca. Alan Parker parte da una storia vera per mettere in scena un thriller girato con maestria e di grande impatto, capace di restituire un'immagine fedele, e durissima, della vita (e della morte) negli stati del Sud segregazionista degli anni Sessanta. Sono gli anni dei Kennedy e di Martin Luther King, figure che restano sullo sfondo, mentre lo spettatore entra nella palude (reale e metaforica) di un mondo in cui le istanze umanitarie di miglioramento dei diritti della comunità afroamericana vengono ostacolate con ferocia. Il Klan era tutt'atro che archeologia o folklore in quegli anni e in quegli stati, e Mississippi Burning ne restituisce un'immagine sinistra e durissima.



9. L'ODIO di Mathieu Kassovitz (1995)

Nelle banlieue parigine è appena trascorsa una notte di scontri con la polizia, in cui un ragazzo di sedici anni è stato ferito letalmente e si trova ora in pericolo di vita. Tre giovani – Vinz (Vincent Cassel), Hubert (Hubert Koundé) e Saïd (Saïd Taghmaoui) – si aggirano per il quartiere fomentati dall'odio e decisi a sfogare la propria rabbia. Il secondo lungometraggio di Mathieu Kassovitz è un piccolo gioiello capace di ritagliarsi a pieno diritto un posto tra i film europei di culto degli anni Novanta. La regia, secca, che alterna repentini movimenti di macchina all'uso di sinuosi piani-sequenza è impreziosita da una livida fotografia in bianco e nero aliena da ogni compiacimento manierista e capace di rifarsi a un tono semi documentaristico. Tale realismo da reportage non rimane comunque privo di un certo elemento anti-naturalista (che ricorda quella di alcuni videoclip musicali), garantendo la percezione di un'estetica netta e distaccata.



10. MANDERLAY di Lars von Trier (2005) 

1933. Dopo aver messo a ferro e fuoco la città di Dogville, Grace Mulligan (Bryce Dallas Howard) e suo padre (Willem Dafoe) fanno sosta in una cittadina dell'Alabama, Manderlay. Qui gli abitanti vivono ancora come se la schiavitù non fosse stata abolita settanta anni prima, con padroni bianchi e schiavi neri. Grace decide di liberare gli schiavi dalla padrona Mam (Lauren Bacall) e dalla curiosa legge di Ma'am che cataloga le persone secondo la loro personalità. Ma le buone intenzioni della ragazza non sembrano riscuotere successo tra i cittadini di Manderlay. Secondo capitolo dell'annunciata trilogia americana di Lars von Trier, seguito di Dogville (2003). Il regista questa volta affronta due dei temi più delicati legati strettamente alla società nordamericana: lo schiavismo e l'imposizione forzata della democrazia. Impossibile, infatti, non vedere nell'iniziativa di Grace, che libera i cittadini di Manderlay dal potere opprimente di un despota e esporta presunti valori egalitari e democratici, un parallelismo con le operazioni militari americane in Iraq e in Afghanistan. 

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