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Da Il ladro di bambini a Ovosodo, i migliori film italiani degli anni '90
Un decennio di transizione, non solo in ambito cinematografico, che cerca di emanciparsi dagli eccessi dei rampanti '80 guardando al nuovo millennio che, inesorabilmente, si fa sempre più vicino. Gli anni '90 sono un caidoscopio di istanze differenti, un coro polifonico armoniosamente assortito che, qua e là, lascia trapelare qualche sana stonatura.

«Voi gridavate cose orrende e violentissime, e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste, e ora sono uno splendido quarantenne» (Caro diario, 1993)


Nel cinema, tra i grandi nomi che hanno segnato il decennio, ci sono autori della vecchia guardia come Marco Bellocchio ed Ermanno Olmi, talenti già consolidati come Nanni Moretti e Gianni Amelio, astri nascenti come Mario Martone e Franco Maresco. E poi ci sono lo sguardo sognante di Maurizio Nichetti e la malinconica ironia di Carlo Verdone. Impossibile, poi, escludere le magnifiche co-produzioni di Bernardo Bertolucci, maestro assoluto che ha fatto della natura "internazionale" della propria opera una precisa cifra stilistica.

Ecco la classifica dei 20 migliori film italiani degli anni '90:

20) Ovosodo (Paolo Virzì, 1997)



Dopo due pellicole su coppie e famiglie, La bella vita (1994) e Ferie d'agosto (1996), Paolo Virzì passa all'incontro di due generi/filoni, la commedia all'italiana e il romanzo di formazione, che utilizzerà spesso nel corso della sua carriera successiva. La sceneggiatura, scritta dallo stesso Virzì con Francesco Bruni e Furio Scarpelli, procede per momenti più che per eventi, indagando le fasi della crescita di ogni adolescente: la scuola, la maturità, la leva, la ricerca del lavoro. Raccontando l'esistenza ordinaria del suo personaggio, il regista livornese dà vita a una fiaba realista, sociale e divertente, che a volte si rifugia nel buonismo senza però farlo mai pesare. Si ride e ci si commuove, facendo i conti con «l'ovosodo che non va su e non va giù», quel momento di ''intoppo'' normale tra il crescere e il momento di essere adulti. Gran Premio della Giuria alla Mostra di Venezia del 1997.

19) Il grande cocomero (Francesca Archibugi, 1993)


Il terzo lungometraggio di Francesca Archibugi prende spunto dalle iniziative del neuropsichiatra infantile Marco Lombardo Radice, sperimentatore di tecniche rivoluzionarie basate sull'ascolto delle richieste del paziente, sul coinvolgimento di tutto lo staff medico e sull'apertura del reparto per i giovani malati, che possono così uscire ed entrare in contatto con la realtà. Un film che tratta il tema della malattia con intelligenza, evitando sentimentalismi e riuscendo a essere, nel complesso, delicato e attento. Esemplare il sincero coinvolgimento emotivo di una storia che non aspira a narrare grandi imprese, ma si cala nella quotidianità. Grande prova di Sergio Castellitto. Premio della Giuria Ecumenica al Festival di Cannes.

18) Il portaborse (Daniele Luchetti, 1991)



Luciano (Silvio Orlando) insegna lettere, vive in una fatiscente casa d'interesse culturale e ha un rapporto a distanza con Irene (Angela Finocchiaro), anche lei docente. Notato da Cesare Botero (Nanni Moretti), ministro delle partecipazioni statali, Luciano entra nel suo entourage per scrivere i suoi discorsi, affascinato dall'uomo e dai favori che questi ben presto gli concede. Si renderà amaramente conto del sistema di clientelismo e corruzione della politica. Anticipando di poco lo scandalo di Tangentopoli, Luchetti racconta il mondo politico, mettendone in luce gli aspetti più meschini e deprecabili, come un universo che nasconde il marcio dietro una facciata pulita e accattivante. Coraggioso e attualissimo, recitato in maniera egregia da entrambi i protagonisti. Presentato in concorso al Festival di Cannes.

17) Fuori dal mondo (Giuseppe Piccioni, 1999)


Giuseppe Piccioni punta in alto e si misura con temi difficili: la spiritualità, la vocazione, la famiglia e gli abusi spesso nascosti dietro alla facciata benpensante. Il regista dimostra un'ottima capacità nel gestire una galleria di personaggi straniati e "fuori dal mondo", in balìa di vite su cui sembrano perdere continuamente il controllo, forse per paura di compiere l'azione sbagliata. E tutto trova l'esatto compimento in un racconto lineare dove la crescita interiore dei personaggi corrisponde alla tanto attesa (e inaspettata) realizzazione esistenziale, esemplificata dalla forza dei sentimenti all'interno di un nucleo familiare non convenzionale. Un bell'esempio di cinema morale e non moralistico, solo a tratti scolastico e un po' didascalico. Musiche di Ludovico Einaudi, fotografia di Luca Bigazzi.

16) Maledetto il giorno che t'ho incontrato (Carlo Verdone, 1992)


Una commedia romantica che racconta l'incontro tra due nevrotici con tocco leggero e sofisticato, dal ritmo sincopato e trascinante che guarda a Woody Allen. Carlo Verdone firma uno dei suoi film più riusciti, stemperando l'amarezza di fondo e declinando con affetto e brillante inventiva la storia di due disadattati che cercano di coesistere malgrado il loro carico di fobie e conflittualità latenti. Si incontrano, si vogliono bene, si lasciano, si ritrovano. Come accade nella vita. Un pizzico di coraggio in più, specialmente nel finalino consolatorio, non avrebbe guastato. In ogni caso, una delizia. Cinque David di Donatello (attore protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura, fotografia, montaggio) più altre quattro nomination (film, regia, attrice protagonista, attore non protagonista) e grande successo popolare.

15) L'odore della notte (Claudio Caligari, 1998)


Liberamente ispirato al romanzo Le notti di arancia meccanica di Dido Sacchettoni, che narra le vicende della cosiddetta "banda dell'arancia meccanica", il secondo film di Claudio Caligari è una pellicola di ambientazione criminale che flirta in maniera sapiente con thriller e il noir, puntando su un protagonista pieno di dissidi e di ombre interiori e sul talento formale del regista. Notevole il ritmo indiavolato con cui vengono firmate le scene delle rapine, così come lo sguardo poetico veicolato dalle atmosfere notturne, capaci di far slittare il "romanzo criminale" verso spunti esistenziali inusitati per il cinema italiano di genere. Non tutto è a fuoco, ma che personalità. Magistrale l'apporto al film dato dalla presenza del cantante Little Tony, che interpreta se stesso nei panni della vittima di una rapina in villa in una scena a dir poco di culto.

14) La vita è bella (Roberto Benigni, 1997)



L'opera più ambiziosa e universale realizzata da Roberto Benigni, regista e sceneggiatore (insieme a Vincenzo Cerami) di una fiaba intimista che riesce a trasfigurare una delle pagine storiche più devastanti del ventesimo secolo. Scisso ma perfettamente omogeneo nello spirito, il sesto lungometraggio del regista toscano scivola dalla farsa al dramma, attraverso uno spiazzante cambio di registro in cui, in ogni caso, il sorriso non viene mai a mancare. L'Olocausto viene affrontato con una delicatezza capace di sfociare nella poesia, spostando il focus dall'orrore dello sterminio (mai banalizzato, nonostante rimanga fuori campo) al coraggio di un'umanità che non vuole vedere calpestata la propria dignità per poter continuare a sperare in un futuro migliore. Buffo, tenero e commovente nel prendere in giro gli orchi cattivi pur spingendo lo spettatore a un doveroso momento di riflessione, appesantito solo da qulche scivolone retorico nel finale. Fotografia di Tonino Delli Colli, musiche di Nicola Piovani. 3 premi Oscar (film straniero, attore protagonista, colonna sonora) più altre quattro nomination (film, regia, sceneggiatura, montaggio), 8 David di Donatello, 5 Nastri d'argento, premio César per il miglior film straniero, BAFTA al miglior attore protagonista, Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e Premio del pubblico al Toronto International Film Festival.

13) Il segreto del bosco vecchio (Ermanno Olmi, 1993)



Nell'adattare l'omonimo romanzo breve di Dino Buzzati, Olmi restituisce l'atmosfera della pagina scritta rimanendo in bilico tra la fiaba, il racconto allegorico e l'apologo ecologista, senza trovare però una piena compattezza d'insieme. L'operazione che si concretizza è un suggestivo viaggio attraverso un mondo irreale e pervaso dall'ingenua magia della terra, lontano da ogni tempo e luogo concreti. Cinema colto e raffinato, che rifiuta mode o effimere tendenze del momento. Un progetto molto caro al regista, colmo di una generosità a tratti commovente, con scarti continui, inserti quasi documentari (la lotta tra insetti), invenzioni da cinema delle origini (l'ombra che abbandona il proprio padrone) e una convinta prova di tutto il cast, a partire dal protagonista Paolo Villaggio, che finalmente abbandona l'ormai usurata maschera fantozziana.

12) Io ballo da sola (Bernardo Bertolucci, 1996)



Un racconto di formazione ed educazione sentimentale in cui il sesso rappresenta pienamente la gioia di vivere e di abbandonarsi alle proprie passioni e la sua scoperta è un passaggio cruciale e indispensabile nel processo di maturazione di ciascun individuo. Un'opera al contempo malinconica e ottimista che fotografa un mondo che si va a spegnere (esemplare in tal senso l'indugiare di Bertolucci sui tramonti), una generazione decadente funestata dalla malattia e dall'incomunicabilità, e che sta per essere spodestato dall'avanzare delle nuove generazioni, dallo sbocciare di una giovinezza genuina e vitale che scaccia il grigiore dei vari passati individuali contraddittori e dolorosi. Splendida e sensuale Liv Tyler, ma anche il paesaggio toscano immerso nella canicola estiva colpisce nel segno.

11) Volere volare (Maurizio Nichetti, Guido Manuli, 1991)



Con Volere volare, Maurizio Nichetti celebra la magia del cinema in una divertente fusione tra comicità slapstick, poetico sentimentalismo e animazione. Il suo personaggio ha evidenti richiami al Monsieur Hulot di Jacques Tati nel suo essere stralunato e nel rapporto significativo con suoni e rumori (davvero godibile la scena del film erotico con i suoni tipici dell'animazione). C'è, inoltre, un forte richiamo al mondo disneyano, grazie alla collaborazione con Guido Manuli: i corti iniziali ricordano i primi lavori Disney, come il personaggio di Oswald the Lucky Rabbit, così come le mani animate ricordano Topolino. A metà tra parodia e omaggio, Nichetti si muove in un mondo esagerato, in cui i due protagonisti si trovano sempre in situazioni al limite dell'assurdo. Un inno alla spensieratezza, da vedere e rivedere.

10) La balia (Marco Bellocchio, 1999)



Teso, vibrante e causticamente nevrastenico, La balia è il primo film di Marco Bellocchio, dopo un decennio di sofismi mistici, a convincere pienamente. Curato in ogni dettaglio, si ispira all'omonima novella di Luigi Pirandello e si libera degli orpelli (proto)psicanalitici dei film pregressi, per occuparsi di turbe mentali in maniera più sfaccettata e approfondita. Molto interessante il lavoro intorno alle sonorità prima ancora che sulla costruzioni delle immagini: la messa in scena, comunque, rivela una ritrovata fertilità creativa e una voglia di rimettersi in gioco artisticamente. Ottime interpretazioni di Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi e Maya Sansa, sontuosa fotografia di Giuseppe Lanci. Presentato in concorso al Festival di Cannes.

9) Lamerica (Gianni Amelio, 1994)



Memorabile affresco dell'Albania (e di riflesso dell'Italia) di inizio anni Novanta, raccontata attraverso lo scontro di diverse sgradevolezze di due mondi divisi dagli episodi storici e da un lingua di mare. Proprio l'Adriatico diventa un miraggio universale man mano che si procede nel racconto, una via di fuga ma anche uno specchio d'acqua che evoca ricordi sepolti. Amelio mette in scena con grande efficacia le miserie umane di un momento storico controverso, specchio di una società allo sbando.  Attualissimo nella denuncia delle difficoltà di rapportarsi con gli stranieri e nella radiografia di una popolazione plagiata dalla mediocrità culturale dilagante.

8) Teatro di guerra (Mario Martone, 1998)



1994, Napoli. Il regista e attore Leo (Andrea Renzi) inizia le prove de I sette contro Tebe di Eschilo, spettacolo incentrato su una lotta fratricida. Leo vorrebbe metterlo in scena a Sarajevo, dove da ormai diversi anni è in corso una sanguinosa guerra, come segno di solidarietà verso i popoli colpiti dal conflitto. Il suo sogno, però, non sarà semplice da realizzare. Alternando le prove alla vita privata dei personaggi in campo, Martone sviluppa un'importante riflessione sul sottile confine che separa la realtà dalla finzione, dando vita a uno dei film italiani più significativi degli anni '90. Credibile e pulsante nella sua straordinaria vivacità, la pellicola mostra un gruppetto di sognatori decisi a fare il proprio dovere all'interno di un mondo che necessita anche di un piccolo gesto (la rappresentazione teatrale) per poter sopravvivere e andare avanti: la battaglia, però, non è soltanto a Sarajevo, ma anche a Napoli, in un dramma quotidiano dove bisogna lottare per respingere l'avanzata dei potenti (le compagnie teatrali rivali) e far sentire la propria voce in un'epoca di oblio (il silenzio dei media). «Questo film ha origine in un vuoto, il vuoto che ho provato quando mi sono reso conto di non possedere nessuno strumento di comprensione di ciò che stava tragicamente avvenendo in un paese così vicino al nostro, nella ex-Jugoslavia. Mi chiesi allora se il teatro fosse un possibile strumento, se non altro, di avvicinamento».

7) Totò che visse due volte (Daniele Ciprì, Franco Maresco, 1998)



Pochi film nella storia del cinema italiano hanno conosciuto un destino analogo a quello toccato in sorte all'opera seconda di Ciprì e Maresco, bannato dalla commissione censura per vilipendio della religione cattolica. Totò che visse due volte è, al di là di tutto, un film maledetto e ancora oggi agonizzante nelle sue stesse traversie, simbolo di un ostruzionismo, da parte dello Stato, contro il libero e sfrontato esercizio del pensiero e della prassi artistica, che non si vedeva, con quest'irruenza implacabile, dai tempi de La ricotta (1963) di Pier Paolo Pasolini, nei cui riguardi furono mosse a suo tempo analoghe accuse. Quella dei due registi è un'opera impietosa e maniacale nel suo proposito blasfemo di ricollocare il nuovo testamento in un contesto assolutamente laido, in cui il divino è declassato e negato in nome dell'ultima e della più letale di tutte le apocalissi. Certo, una buona dose di sgradevolezza appare (fin troppo) programmatica, ma è un limite inevitabile e il giusto prezzo da pagare per l'ostentazione di così tanto coraggio. Imperdibile.

6) L'amore molesto (Mario Martone, 1995)



Un ottimo Mario Martone traspone sullo schermo l'opera prima della scrittrice Elena Ferrante, in un film intenso e conturbante, permeato da una costante carica sessuale che in ogni inquadratura trasuda un erotismo velato e allo stesso tempo soffocato, frutto anche dell'esperto lavoro del direttore della fotografia Luca Bigazzi. A tutti gli effetti un thriller psicologico, sottile e coinvolgente, capace di sfociare a tratti in una dimensione dal sapore onirico e allucinatorio. Grande prova di Anna Bonaiuto ed esemplare l'ambientazione, che eleva la città alla stregua di un personaggio: una Napoli fredda e ostile che inghiotte l'esistenza di chi vi abita, metropolitana, caotica e priva dei consueti luoghi comuni. Presentato in concorso al Festival di Cannes. Grande cinema d'autore.

5) Così ridevano (Gianni Amelio, 1998)


Attraverso sei capitoli, uno per ogni giornata “emblematica” nell'arco dei sette anni che vanno dal 1958 al 1965, sono delineate le vicende di due fratelli siciliani emigrati al Nord. Amelio sceglie il disincanto e la rassegnazione per raccontare il recente passato del Paese e indagare ancora una volta nei rapporti tra famigliari. Affida ancora a Lo Verso il ruolo di protagonista, un emigrato come tanti diviso tra le radici, il sogno di un riscatto sociale di cui vorrebbe si facesse carico il fratello e la necessità di “arrangiarsi” senza andare troppo per il sottile, in una Torino spesso notturna, solitaria e disumana. Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia.

4) Voci nel tempo (Franco Piavoli, 1996)


Un anno nella vita degli abitanti di Castellaro Lagusello, borgo in riva a un piccolo lago in provincia di Mantova, visto attraverso il naturale susseguirsi delle stagioni. Dalla primavera, in cui l'occhio è concentrato sui bambini, all'estate, quando protagonisti sono adolescenti e giovani uomini, per passare all'autunno e all'inverno, quando a farla da padrone è l'occhio rivolto alla vecchiaia. La pratica del cinema, per Franco Piavoli, è essenzialmente una ricerca sulle forme del tempo e l'occhio del regista riesce a incasellare in maniera sorprendentemente acuta e poetica le dilatazioni, lo scorrere di momenti sereni, nei limiti angusti di un film dalla breve durata. Non si sente mai lo scarto rispetto alla vita, la selezione e il montaggio diventano quasi invisibili, tanto che appare difficile anche definire Voci nel tempo come un documentario a tutti gli effetti. È un'opera di osservazione che non invade mai le intimità, anche quando la macchina da presa sembra sbirciare e scoprire il vitalismo (anche sessuale) dei giovani: non c'è mai voyeurismo, solo serena contemplazione. Un piccolo miracolo di leggerezza e poesia, totalmente privo di dialoghi. Straordinario.

3) Caro diario (Nanni Moretti, 1993)



Quintessenza del cinema di Nanni Moretti, Caro diario è il suo film più sfuggente e teorico, il più scevro di mascheramenti, uno dei più narcisi ma anche una delle sue opere più riuscite. La scrittura cinematografica si fa racconto in presa diretta di sé e, per l'appunto, diario privato, in apparenza senza più i filtri della finzione, ma allo stesso tempo capace di non rinunciare agli strumenti propri della narrazione per immagini e della personalissima idea di cinema del regista. Un meraviglioso trittico che si apre con il segmento In vespa, splendida panoramica su Roma e le sue idiosincrasie (piena zeppa di battute cult), resa indimenticabile dall'epilogo all'Idroscalo di Ostia, luogo dove fu ucciso Pasolini, e si chiude con il capitolo Medici, in cui Moretti si mette a nudo e racconta di una sua personale odissea sanitaria. In mezzo, fa capolino l'episodio Isole, toccante racconto costellato di momenti spassosissimi che è anche un'accorata riflessione sulla solitudine. Premio per la miglior regia al Festival di Cannes.

2) Il tè nel deserto (Bernardo Bertolucci, 1990)



Adattamento dell'omonimo romanzo di Paul Bowles, Il tè nel deserto è un viaggio alla scoperta di un universo tanto affascinante quanto misterioso, nonché un percorso introspettivo che porta i personaggi principali a interrogarsi su se stessi, sul legame che li lega e a mettere in dubbio certezze e modi di comportamento acquisiti. L'esotismo del film rimane l'elemento superficialmente più incisivo e memorabile (anche grazie alla strepitosa fotografia di Vittorio Storaro), ma Bertolucci firma una delle sue pellicole più complesse, ostiche e criptiche che altro non è che un melodramma privo di romanticismo, una riflessione sull'amore e sul carico di solipsismo che ciascuna relazione sentimentale porta con sé, un'opera profondamente intimista rivestita da una confezione da kolossal. L'apertura verso un mondo esterno ed estraneo, il confronto con una cultura diversa, la messa in discussione di un'idea preconcetta di affettività portano i protagonisti a svolgere un cammino tortuoso, interiore e concreto, accompagnati da un cielo riparatore (questo il titolo originale del libro e del film) attraverso la vastità sconfinata del deserto, due elementi smisurati e statici che esaltano per contrasto i turbamenti, le smanie emotive e le peculiarità individuali dei soggetti coinvolti. Indimenticabile colonna sonora di Ryūichi Sakamoto e Richard Horowitz. Clamoroso.

1) Il ladro di bambini (Gianni Amelio, 1992)



Nella sua opera più riuscita in assoluto, Gianni Amelio torna a raccontare la storia (in questo caso contemporanea) fissando lo sguardo sui bambini come in molti lavori precedenti. Anziché limitarsi a narrare la privazione dell'infanzia, già avvenuta all'inizio del film, lascia intravedere un suo possibile e pure incompiuto recupero, affidato all'umanità di un ragazzo qualunque che presto si spoglia della divisa per indossare i panni di padre putativo. Lo Stato scompare subito dopo l'iniziale intervento e il viaggio da Milano al Lazio, alla Calabria e infine in Sicilia è una discesa in cui solitudine e libertà si alternano e mischiano, evitando miracolosamente la retorica grazie alla misura con cui sono diretti gli attori. 7 David di Donatello, 3 Nastri d'argento, Gran Premio Speciale della Giuria e Premio della guria ecumenica al Festival di Cannes. Fondamentale e imprescindibile.
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