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Bernardo Bertolucci, il mistero del cinema e la necessità di sentirci desiderati dalle immagini
Bernardo Bertolucci. Il mistero del cinema, piccolo volume uscito lo scorso 15 marzo con La Nave di Teseo (pp. 112, 8 euro), è la trascrizione (di Michele Guerra) del discorso redatto da Bernardo Bertolucci in occasione della laurea honoris causa ricevuta dall'Università di Parma nel 2014. Un'autobiografia artistica in miniatura, certo, ma anche la rivendicazione di un mistero rimasto miracolosamente e nonostante tutto intatto, anche dopo tanti anni di cinema fatto e finito, in prima persona e in presa diretta («Dopo tanti anni, dopo tanti film, tutto mi sembra ancora molto misterioso»).

Nelle pagine aggraziate di Bertolucci, di uno stupore limpido e asciutto, la distanza tra Godard e Pasolini sembra quasi più incolmabile di quella tra i luoghi nativi di Casarola, nell'appennino parmense, e i grandi approdi hollywoodiani e orientali. Ma tutto si tiene, o per meglio tout se tient, come avrebbe detto B.B. ai tempi in cui desiderava parlare solo francese, la lingua del cinema e della cinefilia. 

CASAROLA by Lorenzo Castore from BernardoBertolucci.org on Vimeo (cortometraggio mostrato durante la cerimonia e composto da materiale di repertorio e immagini rare e inedite girate da Bertolucci da adolescente)


«Tornato a Roma da Parigi nel 1960 dissi a Pier Paolo di correre a vedere quel film straordinario che era Fino all’ultimo respiro di Godard e Pier Paolo ci va di domenica, con alcuni amici e poi mi dice: “Sono stato a vedere il TUO Fino all’ultimo respiro”, e mi dice che i suoi amici hanno sghignazzato tutto il tempo. Pier Paolo che va a vedere Fino all’ultimo respiro e ne ride con i suoi amici è qualcosa che non posso capire o accettare, ma credo che in quel momento lui vedesse che stava perdendo una sicurezza che ero io, come se si accorgesse che avrebbe dovuto condividermi con Godard»


Ne Il mistero del cinema Bertolucci ci ricorda come la cinefilia sia anzitutto lo stupore primigenio e viscerale di vedere qualcosa davanti ai propri occhi per la prima volta, ma anche di scoprire un linguaggio nuovo come quello che inventava, in senso etimologico (ogni invenzione è sempre un ritrovamento), lo stesso Pasolini, avendo come sommo riferimento e faro La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer («Era il suo modello, il suo vero e unico modello. Primi piani, primi piani, primi piani, qualche raro totale»). Il linguaggio che nasce nel momento stesso della creazione del linguaggio, sgorgando come un flusso naturalissimo di senso che si auto-produce nella scelta morale di uno stile. Recita la prefazione di Clare Peploe, sceneggiatrice e moglie di Bertolucci:


«Le inquadrature di Bernardo, naturalmente sensuali, carezzano volti, oggetti, paesaggi e racchiudono in sé la stessa meraviglia del bambino e del razzo. Un seme che cresce in lui e si muta in virgulto, albero, olmo maestoso, tronco portante di tutto il suo cinema, visione poetica che perde i confini geografici e temporali e diventa un “qui e ora” universale, da Pechino a Parigi , dal Sahara all’America»


Ne ll mistero del cinema c'è anche, e forse soprattutto, il padre poeta Attilio. Quella figura che dettava critiche cinematografiche perfette e impeccabili a La Gazzetta di Parma senza aver preso appunti, che aveva la mania di misurare la sua (magnifica) ossessione provandosi la febbre e infilandosi il termometro sotto l’ascella mentre era in sala, con un gesto di smisurata adesione alla cinefilia che oggi può apparire stucchevole e far sorridere ma era perfettamente commisurato a un uomo che intendeva i film del figlio come suoi, come se la paternità cinematografica fosse anche un fattore genetico, un segno ereditario, una traccia di carne e di sangue, uno slancio di appropriazione che obbedisce soltanto alle logiche dell'affezione. Lo stesso sentimento in virtù del quale una carrellata di Pasolini, se vista ai giornalieri, può sembrare la prima carrellata della storia del cinema. O per il quale, dopo aver fatto film di più di cinque ore, si può girare un corto di un minuto e mezzo sfruttando il punto di vista rasoterra della propria sedia a rotelle e intititolarlo semplicemente Scarpette rosse, come il film di Powell e Pressburger.



A parlare una lingua alchemica e misteriosa erano anche gli esordi di Bertolucci de La commare secca (pasoliniano in tutto, tranne che per la vocazione nel muovere la camera forsennatamente) o Partner, che lui stesso definisce un film-Miura, impenetrabile come una roccia e aderente solo a desideri personali, ripiegati su se stessi, orgogliosamente ombelicali. E poi, da qualche parte tra le pagine, c'è anche un cinema, forse ancora più impenetrabile e privato, che parla la lingua della famiglia nella maniera più spudorata e inconfessabile, in modi e forme un po' provinciali e un po' esotici, un po' masturbatori e un po' erotici: è il cinema della porta della realtà lasciata aperta da Renoir, dei feticismi olfattivi, di un senso di stupefazione dell'esistenza che esiste e ha valore solo se sta dentro a un film. Il piacere del testo, come ricorda Bertolucci stesso citando Le plaisir du texte di Roland Barthes, ma anche la necessità di sentirci a nostra volta desiderati dal testo, dai segni (anche se Godard chiamava Pasolini e Metz "flics", cioè poliziotti, alludendo alle prigioni della semiologia), dalle immagini. E di non avere mai smesso di credere nello stile («ll momento stilistico è anche il momento in cui ti sembra di sentire la vita del film»), e di essersi fatti - da sempre e per sempre - un'idea miracolistica del cinema, nella quale occorre aver visto forse tutto, prima di abbracciare il niente.


«Qualche anno dopo aver girato La tragedia di un uomo ridicolo, feci insieme a mia moglie Clare un viaggio in Giappone. Era il 1983 ed eravamo a Tokyo. Volevo vedere la tomba di Ozu e chiesi alla guida di accompagnarci al cimitero. Dopo qualche tempo passato a girovagare tra le tombe, arrivammo a quella di Ozu. Sopra c’era un ideogramma: 無. Quell’ideogramma era il Mu, la pronuncia giapponese del simbolo cinese che significa “niente, nulla”. L’ambiguità di quel “niente”, di quel “vuoto”, rappresentò per me l’apertura di una nuova fase che mi avrebbe portato a L’ultimo Imperatore e poi fino a Piccolo Buddha»



Davide Stanzione

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